«Le donne sono come le scimmie: non lasciano mai un ramo prima di averne afferrato un altro».
Questa è una delle massime di un mio amico. Massima che, nel corso degli anni, ci ha fatto discutere parecchio, incazzare e litigare. Misogina, politicamente scorretta e volgarotta, alla quale ho sempre ribattuto con dei convinti:
«E allora io, scusa?? Ti sembro una scimmia?? Vedi rami in giro??»
Tesi che veniva avvalorata da lui facendomi di volta in volta freschi esempi di reciproche conoscenze che, con una cadenza commovente, saltavano di ramo in ramo, senza neanche passare dal “Via”.
Alla fine, siamo giunti all’accordo che gli è concesso recitarla, modificando l’incipit in “Alcune donne”.
Sono certa che ne conoscete di “Donne Scimmia” (“DS”, d’ora in poi): sono quelle che non restano mai sole, quelle che apparentemente trovano il coraggio o l’input di lasciare l’amore infelice solo se ne hanno già pronto uno di scorta, o la fortuna di trovare un altro grande amore all’indomani della fine di una storia.
O sono di innamoramento facile, o qual è la verità?
Non si tratta di innamorarsi di un’altra persona, è questo il punto. Quello capita e non è prevedibile, né sindacabile.
Sembrerebbe che le DS siano innamorate dell’Amore. E che questo le spinga a raccattare qualsiasi esponente maschile sembri loro donargliene anche solo un pochino.
Mi sono chiesta se fosse un’usanza tutta femminile, o se anche nella fauna maschile ci fossero esemplari accecati dalla vita di coppia, il “Noi”, il condividere sempre, comunque e ad ogni costo.
Non so se un uomo abbia la sensibilità (o il sesto senso?) necessari a percepire un pericolo imminente, se non gli viene manifestato apertamente.
Mi è capitato spesso di sentirgli riferire che LEI gli avesse detto di non essere pronta. Ma loro lo sanno che una neo single va evitata?
Invece, so per certo che qualsiasi donna sana di mente e con un pizzico di amor proprio ha cognizione che è assolutamente sconsigliabile frequentare un uomo fresco di rottura, ma che bisogna rispettare religiosamente i tempi di quello che io chiamo il “Periodo Refrattario”.
Più il rapporto defunto è stato lungo, più tempo occorrerà al maschio per ristabilirsi, superare e – soprattutto – essere pronto e consapevole per una nuova liason.
«Da quanto ti sei lasciato?»
«Un mese…»
«Ok, ci rivediamo tra un paio di anni»
Una cosa così.
Questo perché nel post-rottura gli uomini appaiono estremamente fragili, spesso incazzati, ma di sicuro non sufficientemente lucidi per buttarsi in una nuova storia. A meno che non si amino i disastri annunciati. O si abbia l’istinto della Crocerossina (uccidetelo, per favore!).
Alla prospettiva di una frequentazione con un neo-scapolo, una donna saggia, cosciente e consapevole, scappa. Perché sa quello a cui andrebbe incontro.
Ed è qui che entra in scena “L’Uomo Ragno”(“UR”, d’ora in poi).
Il subdolo predatore circuisce la propria preda avviluppandola in una tela fatta di rassicurazioni, conferme, belle parole e buone intenzioni. Nega qualsiasi tipo di “deficienza” sentimentale, afferma di essere nel pieno possesso delle sue facoltà intellettive e affettive, proclama amore solo per lei che ha scacciato via tutti i brutti ricordi.
Mente.
E la donna diventa DS in un’altra accezione, ovvero “Donna Scema”, perché si fa fregare, convincere, mentre finisce pian piano intrappolata del bieco ordito.
Passerà poco tempo perché l’UR manifesterà tutti i sintomi precedentemente negati e scapperà a tessere un’altra tela.
O, passerà molto tempo, finché lo stesso non troverà pronta un’altra preda da avvolgere nel caldo imbroglio dell’amore a tutti i costi.
Ora, io non so dirvi se la DS quanto l’UR siano mossi da buone intenzioni o da mero egoismo.
Se provino davvero una qualche specie di sentimento o se debbano soddisfare a discapito di altri il loro disperato bisogno di amore.
Però mi rimane difficile credere che abbiano SEMPRE il gran culo di imbattersi in un grande amore, di avere più anime gemelle che amici, di essere sempre ricambiati e mai rifiutati e viceversa.
E poi nutro particolare diffidenza per chi non è in grado di stare da solo/a.
Se potessi farlo senza incorrere in denunce, vi riporterei nomi e cognomi di svariate DS e molteplici UR che conosco – direttamente e non – così, giusto per mettervi in guardia da loro.
Perché, purtroppo, il problema fondamentale è che costoro non nuocciono quasi mai a loro stessi, ma agli altri.
Sfruttando, spesso, un sentimento sincero o simulando di provarlo.
Ho avuto a che fare con un UR dal quale ero subito scappata, per le motivazioni di cui sopra. Poi lui ha saputo tessere così bene, da farmi cadere in una ragnatela tanto bella, quanto frangibile.
Ha fatto male realizzare che lui non teneva a me, BB, in quanto tale, ma solo in qualità di femmina che gli è venuta in mente in quel momento, che era libera, disponibile, soggiogabile.
Che non ero “quella che lui voleva”, ma che servivo a soddisfare un suo preciso bisogno di coppia.
Che se ci fosse stata un’altra al mio posto, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Questo è devastante. Questo fa capire quanto le DS e gli UR siano dannosi per sé e per gli altri.
Non dimostrano Amor proprio perché si “concedono” a tutti. Fanno diventare “Amore della vita” il primo che capita, nutrono le proprie insicurezze con l’affetto e le attenzioni altrui.
E nessuno merita di essere il “ramo” o il “bozzolo” di qualcun altro, solo perché è quello/a al momento disponibile. Quello/a che è passato/a.
Bisognerebbe dividere la vita con qualcuno che ne valga la pena, che si voglia davvero e non per dovere sociale o esigenza.
E, prima di questo, bisognerebbe iniziare a innamorarsi di se stessi.
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Questa frase qui, in diverse salse e rivisitazioni, l’ho sentita non so quante volte.
Ogni volta ho pensato frettolosamente che non fosse proprio così e sono andata oltre.
Nell’ultimo periodo mi è stata riproposta, in maniera diretta e non, e mi ci sono soffermata di più.
Ho cominciato a ragionarci davvero, a cercare di capire se e quando ne abbia avuto conferma di veridicità.
Potremmo scomodare la LoA, la psicologia e la sua “profezia che si auto avvera”, ma è tutto molto più semplice:
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Se credi di meritare molto, quello avrai.
Se abbassi l’asticella delle pretese, ti accontenti, ti fai bastare la miseria, quello avrai.
Se ritieni di non essere degno di ciò che vorresti, desideri e ti auspichi, quello otterrai.
Se banchetti con le briciole, anziché ambire a un pasto migliore o preferire il digiuno in assenza di esso, le briciole saranno quel che penserai di meritare. Nulla di più.
Se ti racconti che nessuno mai potrebbe interessarsi a te, nessuno ti farà compagnia.
Se ti barrichi nel castello della tua solitudine, sarai il solo guardiano di te stesso.
Se ritieni accettabile essere una seconda scelta, una riserva, una tantum lo sarai.
Se ti fai bastare un rapporto superficiale, piuttosto che niente, delle limitazioni che contrastano con quel che vuoi davvero, delle etichette quali “solo sesso”, “solo quando non ho di meglio”, “solo quando va a me”, quello sarai.
Ho pensato a tutte le infinite volte in cui mi sono accusata (ed ero pure convinta) di aver sbagliato io ad agire o a comportarmi in una certa maniera.
Quanto mi sia incaponita, abbia giustificato, abbia lasciato correre, pienamente cosciente che NON era quello che volevo.
Quanto mi sia raccontata che le mie esigenze non fossero importanti, fossero dettagli, che il poco fosse comunque meglio di niente.
No, meglio niente!
Piuttosto che qualcosa che tradisca le nostre speranze.
A quanto spesso avessi forzato le cose nel sentire o nel vedere qualcuno, quasi “costringendolo”, quasi supplicandolo, non considerando che ME LO MERITO, eccome, uno non veda l’ora di vedermi, sentirmi, amarmi.
A un certo punto, abbiamo ritenuto che fosse “normale”attendere accanto a un telefono.
Accontentarsi dei ritagli di tempo, orari ben precisi, scampoli di momenti.
Rinunciare ad ambire a un rapporto pulito, semplice, paritario.
Abbiamo addirittura deciso che l’Amore, l’affetto, i sentimenti, fossero un qualcosa di cui dovessimo quasi vergognarci, un impedimento che rovina tutto, emozioni da non rivelare mai che poi – oh – scappa, non mi vuole più, si spaventa.
Non meritiamo TUTTI di essere amati?
Perché rinunciarci?
A tutto questo, a tutto quello che non ci fa stare bene, in pace, felice, occorre dire NO.
Rifiutare tutto quel che sia al di sotto delle nostre aspettative, di come intendiamo i rapporti, di quello che vogliamo ricevere.
Magari coscientemente nessuno si aspetta di essere maltrattato o tradito, che debba essere così una relazione.
Non meritavo le sparizioni.
Non meritavo di essere la seconda scelta o quella di riserva.
Non meritavo di essere lasciata per telefono, senza troppi complimenti.
Tutta questa gente qui, non meritava le mie lacrime, né le mie attenzioni, le cure, l’affetto, l’ostinazione.
Troppe volte abbiamo dato una possibilità a chi offriva miseria, perché – in fondo – era meglio di niente.
Permesso pedissequamente palesi mancanze di rispetto per paura di parlare, o di creare problemi, o porre realmente fine a un rapporto che non dà la reciprocità che dovrebbe.
È doloroso, oh sì, lo è.
Pure i rapporti insoddisfacenti lo sono.
Le delusioni continue.
La fiducia malriposta.
È tutto molto doloroso.
Ma se continuare a sopportarlo o meno, siamo noi a deciderlo.
Siamo noi a sapere se lo “meritiamo” o no.
Forse sono esagerata, le persone sbagliano, non possono essere all’altezza delle mie aspettative…
Ecco. Le aspettative.
Se ti aspetti mediocrità, quello avrai.
Pure in ambito di amicizia, vogliamo davvero che un amico sia colui che ti dà per scontato, che si è talmente abituato alla nostra presenza, da non apprezzarla più?
Se questo è quello che accettiamo, se fondiamo la nostra conoscenza dell’affettività su rapporti disparitari viziati e non appaganti, quello avremo.
Ho sempre pensato che, perdendo una persona, fossi io quella che ci rimetteva di più.
Ultimamente, no.
Ultimamente credo sia veritiero anche il detto “Chi non ti ama, non ti merita”, ovvero non ti capisce, non ti sa apprezzare, non si rendo conto di quello che potrebbe avere.
Quindi, perché dovrei essere io ad agire?
Perché abbiamo rinunciato pure alla cavalleria, alla galanteria, al corteggiamento?
Perché pensiamo di non meritarli più, di dover per forza darsi da fare, patire, subire un rapporto e non sceglierselo deliberatamente?
Meritiamo di essere trattate da DONNE.
Qualcuno me l’ha detto:
«Sei una donna, fatti trattare da tale»
Mentre mi toglieva di mano le valigie che volevo a tutti i costi portare da sola.
Stupita, da quelle piccole attenzioni che non si ricordano nemmeno più, perché cadute nella nostra quotidiana disabitudine.
Abbiamo messo da parte i privilegi che comporta l’essere donna, in nome di una parità di sessi che sottintende una contraddizione implicita.
Ci hanno creati diversi.
SIAMO diversi.
Questa cosa qui dell’indipendenza, dell’autosufficienza del femminismo, dell’emancipazione, l’abbiamo recepita male.
Non significa di certo rinunciare ad esserlo, donne, femmine, con onori e oneri.
E non contrasta per forza con l’autonomia e l’emancipazione.
Abbiamo i nostri “ruoli”, attitudini diverse, palese inferiorità fisica.
Il barattolo riesco pure ad aprirmelo da sola, ma quanto è più bello potertelo chiedere e sapere che dall’altra parte c’è una risposta entusiasta, un qualcuno che non vede l’ora di esserti di aiuto, di fare l’uomo di casa, di prendersi cura di te. Perché meritiamo qualcuno che si prenda cura di noi e dobbiamo permetterglielo.
Allo stesso modo, io ti posso pure invitare a uscire con me, e sicuramente tu mi diresti di sì, ma perché dovrei farlo?
Perché dovrei rinunciare al mio “ruolo” di preda che ha già scelto? Che lascia a lui il piacere della conquista, l’illusione di avercela fatta, mentre invece io ti avevo già puntato da prima che tu ti accorgessi di me, e avevo giurato che saresti stato mio.
Abbiamo permesso a noi stesse di convincerci di non meritare più la cavalleria, la galanteria, il corteggiamento.
Che fossero superati, desueti, non più importanti.
Invece, io me lo merito un cazzo di invito a cena.
Un uomo che non è in grado di alzare un dito per comporre un numero, non merita di certo che io gli faccia alzare altro.
Me la merito una cazzo di telefonata.
Mi merito una grandiosa “botta”, ma anche il prima e il dopo.
Mi merito il mare.
Le domeniche al mare, le passeggiate, il mano nella mano, i giochi, le discussioni, le coccole, i confronti, i salti mortali per riuscire a vedersi, i compromessi, le rinunce, le conquiste, la cura, l’affetto, l’Amore, mi merito TUTTO.
Merito di essere amata liberamente.
Adesso sono sola, è vero, ma non me ne dispiace.
Perché ho ben chiaro quello che finora mi è stato offerto.
E non perdo più tempo, pensieri, parole, opere e omissioni per chi non lo merita.
Non aspetto, non chiedo, non cerco di convincere, non supplico, non abbasso l’asticella.
Meglio niente, che meglio di niente.
Finalmente SO quel che merito io.
E tu, cosa pensi di meritare?
”Io sono un esperto di menefreghismo.
Il segreto è smettere di preoccuparsi per la salute delle chiappe degli altri e cominciare seriamente a pensare a quello che vuoi tu,
a quello che tu meriti e a quello che il mondo ti deve, capito?!”
Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.
Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…
La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.
Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?
Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.
Non sarei dovuta neanche essere lì…
Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.
Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.
Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.
«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»
Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!
Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.
…BB, c’è posto per te!
Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.
In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.
Che ne siamo coscienti o no.
Che lo vogliamo o no.
Come era successo a me.
Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.
E allora…
Metti una Barbie sul Mar Rosso.
Metti una lussuosa barca di 40 metri.
Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.
Metti 20 Sub insieme.
Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.
Isolati.
Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.
E lontana…
In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.
“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.
Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.
Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.
Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.
Mi piace. Cavolo, questo mi piace.
Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.
Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.
Eppure…
Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.
Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.
In tutti i sensi.
“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.
Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.
Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.
Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.
Come… come un’abitudine.
Ora sembrava tutto così lontano…
Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.
Una settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.
Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.
Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…
E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.
Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.
Non va bene neanche sentirsi dire:
«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»
Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?
Ma tutto questo non va bene.
Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.
Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?
Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??
Ma QUANDO è successo?
Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?
La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…
Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.
Non andava bene per niente.
Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.
Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.
Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.
Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.
Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.
E ne sono stata felice.
A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…
Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.
Un’isola tra le isole, ma non più isolata.
A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»
Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.
Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:
“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,
all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.
Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.
Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di “Carpe Diem” ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.
Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.
Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.
Fa parte delle maschere che indossiamo.
Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.
Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.
Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.
Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.
Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità.
Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.
E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.
Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.
La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.
Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.
Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.
Ho sorriso.
Tu non sai chi sono io.
Ho sorriso di nuovo.
Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…
Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.
«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.
Non credo c’entri questo.
Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali…
La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.
È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.
Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.
Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.
In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.
Io ho immaginato la scena più o meno così:
«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»
E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.
Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.
Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.
Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.
Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.
Come quando nessuno ti conosce.
Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.
Magari risiede in questo la differenza.
O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.
Capita.
Perché c’è speranza, Signori.
C’è sempre speranza.
Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.
Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.
Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.
E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.
Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.
Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!
Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.
Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.
Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo. Che culo! (appunto)
Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.
Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.
Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.
Magari imparo davvero.
Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.
C’è speranza Signori.
C’è sempre speranza.
Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.
Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.
Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.
Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.
Ma ne vale la pena.
Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.
Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.
VOLENDO.
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.
John Donne
Ai miei compagni di questo viaggio,
alle picchiate a cinquanta metri,
le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.
Grazie 😉
NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”
[…]
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
[…]
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe.
[…]
“Addio”, disse.
“Addio”, disse la volpe.
“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.
Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.
Stamattina ho avuto ulteriore conferma che “Tornano tutti”. Spessissimo, tornano quando non ce ne frega proprio più niente, e che il Karma è implacabile.
Ma andiamo con ordine…
Diversi anni fa, in una giornata di fine Agosto – come ora – in una mattina pre-partenza impiegata a effettuare gli acquisti dell’ultimo minuto, conobbi un tizio.
Chiacchierammo un po’ e, infine, ci scambiammo i numeri di telefono.
Mi disse che gli avrebbe fatto piacere vedermi quella settimana, a cena, ma non era possibile perché io stavo per partire e sarei tornata solo il sabato successivo.
“Allora ci sentiamo quando torni” mi rispose.
Io annuii, senza troppa convinzione.
Trascorsi la mia splendida settimana in Salento, scordandomi completamente di quell’incontro.
Fino a quel famoso sabato di rientro in cui, mentre ero ancora in viaggio, in macchina, lui mi chiamò per accordarci su quando vederci.
Cavolo, questo è stato una settimana intera a pensare a me!
È interessato. È molto interessato… Fico!
Uscimmo.
Ricordo perfino come ero vestita quella sera:
un paio di jeans chiari, larghi in fondo, come piacciono a me, che mi stavano da Dio;
un top nero di pizzo che metteva ben in evidenza le gemelle, senza risultare volgare, e che lasciava giusto intravedere il piercing all’ombelico.
Una zeppa nera con dei fiori bianchi.
I capelli molto lunghi lasciati selvaggi, ricci,
il mio solito profumo alla vaniglia.
Era stata una serata molto piacevole, all’Isola Tiberina, a bere, rimirar le stelle e raccontarsi.
Una serata di fine Agosto, come adesso.
Alla quale avevano fatto seguito svariati baci della buonanotte, anch’essi belli, con lui che insisteva perché lo seguissi a casa sua.
Avevo saggiamente declinato.
Dopo questo primo incontro, ci fu circa una settimana di nulla più assoluto, durante la quale io mi ero torturata a dovere e avevo stilato una lunga lista di errori che avevo commesso e svariati difetti che possiedo, a causa dei quali è più che naturale che uno non mi voglia più né vedere, né sentire.
Avevo sbagliato a non starci, ma no. Questo mi dimostrava solo chiaramente che tipo fosse lui e non mi interessava. O forse sì?
Paturnie, signori.
Femminee paturnie a noi purtroppo ben note.
Finché decisi che dovevo dipanare ogni dubbio e sapere la verità, sapere se quella sbagliata fossi io o lui, quindi gli scrissi.
Lui mi rispose che era mooolto incasinato col lavoro, gli alieni, le partite di calcetto, ecc, ecc…
Scuse che, negli anni a seguire, ebbi modo di udire più e più volte.
Asserendo che tutti quegli impegni, gli lasciavano libero solo il sabato, e non poteva sciuparsi il sabato sera per uscire con me.
Questo disse.
Lo disse davvero.
Sorrisi e incassai, ma non lo scordai mai.
Aggiunse, inoltre, che quella sera si sentiva particolarmente stanco, dolorante e che avrebbe molto gradito se “qualcuno” fosse andato a casa sua per fargli un bel massaggio.
“Conosci chi potrebbe farlo?” Mi chiese.
Io iniziai ad essere allusiva, stuzzicante, gli dissi che, sì, conoscevo qualcuno molto ben disposto a soddisfare questa sua esigenza.
“Davvero?”
“Ma certo…”
Mi figuro ancora il suo sorrisetto compiaciuto, spento dal mio invito a cercarsi una massaggiatrice tra gli svariati annunci ad uopo presenti ne ‘Il Messaggero’.
Non lo sentii più.
Nel corso di questi anni, ebbi modo di vederlo altre volte, di sfuggita, in diverse circostanze.
Entrambi ci guardammo bene dal rivolgerci la parola.
“Chissà se si ricorda di me?”
Mi sono domandata, in queste occasioni.
Stamani, ho avuto la mia risposta.
All’inizio credevo che scherzasse, che giocasse agli “sconosciuti”, poi ho capito che non aveva la benché minima idea di chi fossi.
Non ricordava di avermi già conosciuta, già baciata, già trattata di merda.
Non ricordava nulla.
Ma io sì.
Ho riassaporato lo stesso modo di abbordare, neanche affinato dal tempo trascorso, le medesime frasi, battute e complimenti.
Gli anni non lo avevano cambiato, ma a me sì.
Solo per un attimo sono stata tentata di rivelargli chi fossi, ma ho concluso che fosse molto più divertente non farlo.
O forse sarebbe stato troppo umiliante da sopportare un “Non ricordo” di risposta e non volevo rischiare.
Gli ho dato giusto un indizio, quando mi ha chiesto che lavoro facessi:
“La massaggiatrice” ho sghignazzato.
Ma lui non ha colto. Ha solo fomentato il suo interesse.
Ho fatto finta di non capire, quando mi ha chiesto – nuovamente- il numero e ho continuato a farlo parlare, a fargli dare il meglio di sé, in questa complicata jungla dei rapporti umani, in cui un giorno sei cacciatore e l’altro preda.
Mentre aspettavo solo il momento più opportuno per colpire…
Ha, quindi, dichiarato che gli avrebbe fatto piacere vedermi questa settimana, a cena.
“Ho solo il sabato sera libero…”ho risposto.
“Perfetto. Allora ci vediamo sabato!”
Ho sorriso.
L’ho scansionato dalla testa ai piedi, lentamente, passandomi la lingua sulle labbra, come una fiera che pregusta il proprio pasto.
Ho puntato i miei occhi dentro i suoi, senza smettere di sorridere.
Infine gli ho detto:
“Ma ti pare che spreco il mio sabato sera, per uscire con te??” 😉
Qualche giorno fa mi è capitato tra le mani un libro intitolato “Donne che odiano le donne”. Ho dato un’occhiata alla descrizione, ho sorriso e l’ho chiuso. Non lo leggerò mai. “Le prime nemiche delle donne sono le donne” è tristemente vero e non voglio leggere un testo che me lo confermi.
Diciamoci la verità: dagli uomini certe meschinità ce le aspettiamo, dalle altre donne quasi mai. Da donne che dicono di volerti bene, decisamente no. Eppure capita molto, molto spesso… Nessun uomo, per quanto cattivo, potrà mai raggiungere la perfidia di una donna. Quella stessa perfidia che troppo frequentemente viene indirizzata verso altre fanciulle: invidie, gelosie, ripicche… Quanta energia sprecata! Ci saranno sempre donne più belle e più intelligenti di noi, ma è vero anche il contrario, per fortuna! Perché farsi una guerra inutile, continua, alimentata dall’insicurezza, piuttosto che allearci e aiutarci l’una con l’altra?
Le sorellastre erano donne, le matrigne cattive pure, anche nelle favole più belle risiede la mesta consapevolezza che sul tuo cammino incontrerai molte streghe. Allora cerchiamo di avere cura delle nostre fate. Alcune sono sempre al nostro fianco, altre a chilometri di distanza, altre ancora sono presenti da anni ma magari non costantemente, ma ci va bene così e alcune hanno arricchito da poco la nostra esistenza.
Le nostre amiche ci ricordano che non siamo sole, MAI. Certi uomini sono di passaggio, le donne della nostra vita sono PER SEMPRE. Non dimentichiamolo. Un appuntamento non ha importanza se non puoi chiedere consiglio su cosa indossare, un pianto non è lo stesso se non c’è nessuno che ti abbraccia, un problema fa meno paura se viene condiviso e una bella notizia non è tale se non hai delle amiche cui raccontarla. Ricordiamolo, tutti i giorni.
Siate sorelle, siate buone e amatevi tanto, vi siete scelte PER SEMPRE.
È un periodo particolare, ma non voglio dimenticarmi di voi. A voi e alle donne della mia VITA, tutti i giorni…
BBxx
Per telefono, raccontavo ad un’amica gli ultimi disastrosi aggiornamenti. Dopo aver ascoltato, lei aveva concluso con un: «Il problema è che tu sei troppo buona e dai sempre un sacco di possibilità».
Ho sorriso. Pensando a tutti (tanti) quelli che, invece, pensano che io sia un’immensa stronza. E hanno anche ragione, a dire il vero.
Eppure lei aveva emesso un giudizio obiettivo sulla base dei fatti, al netto dell’affetto che nutre per me, considerandomi fin troppo buona e disponibile.
È stato in quel momento che ho capito tutto: in me – e in quasi tutti – si compenetra un dualismo di personalità ben definito buona/stronza.
Poi scelgo quale mostrare, a seconda di chi ho davanti.
Ti tratto come mi tratti.
«Non è così» ha tuonato lui «Se fosse in questo modo, saremmo esseri privi di personalità che replicano i comportamenti altrui. Tu cambi? Sei diversa a seconda dell’individuo con il quale ti rapporti? Non è così. Una persona non può cambiare…».
Ho iniziato a domandarmi se – invece – non avesse ragione lui…
Esistono due scuole di pensiero ben distinte:
la prima fa propri i motti citati: “Tratta come ti trattano, che non è mai sbagliato” e il più efficace: “Tratta come ti trattano, poi vedi come si incazzano!” Una pratica di preciso dare-avere, in cui le aspettative sono rapportate e commisurate e non può sorgere delusione.
La seconda, più nobile, asserisce che bisogna comportarsi secondo la propria natura, indipendentemente da quel che si riceve indietro. Volendo, può essere complementata dal “Ciò che darai, riceverai”. Così è scritto, perciò tu fai e fregatene se non ricevi, perché – prima o poi – accadrà, ti sarà dato.
Comportati rettamente, in attesa che il karma, la Legge del Contrappasso, o quel che è, faccia il proprio corso e restituisca ad ognuno ciò che – nel bene e nel male – ha dato e si è meritato.
Questa, presuppone una sicurezza e una nobiltà d’animo incondizionate, una fede ferma sulla certezza di una ricompensa futura interiore o materiale, o, semplicemente, un’integrità che non viene scalfita dalle risposte e dalle condotte altrui.
Lui è così. E anche io lo ero, una volta.
Un concentrato di massima disponibilità, attenzioni e bontà d’animo che qualcuno, spesso, scambia per stupidità.
Lui è così.
Eppure…
A rafforzare le sue argomentazioni, la lettura casuale, di qualche giorno precedente, di un articolo che metteva in guardia dall’eccessiva intransigenza e invitava alla tolleranza, all’accettazione dell’altro e all’empatia a tutti i costi, pena la solitudine. Ho annuito e pensato che non ci fosse niente di più vero.
…fino al giorno successivo, quando – ripensandoci – ho trovato quelle affermazioni delle boiate pazzesche.
L’umano essere è incline ad approfittarsi dei più deboli, a sopraffarli e, spesso, il popolo dei “PorgiL’AltraGuancia” – che tende ad evitare discussioni per mantenere rapporti – viene soggiogato da coloro che la tolleranza non sanno manco che è; che sono accomodanti, finché non si fa solo quel che dicono loro.
Mi ricorda una persona che replicava sempre alle angherie con la gentilezza. Quando le domandavo come ci riuscisse, come facesse ad essere cortese con individui che non lo meritavano affatto, mi sorrideva e rispondeva con un candido: «Perché io non sono come loro…»
Ho invidiato e tentato di emulare il suo esempio. Ma non posso fare a meno di chiedermi se, al posto di sorridere e porgere l’altra guancia, non sarebbe doveroso porgere, ogni tanto, un bel destro e un calcio in culo.
Perdona; dimentica; accetta; non curarti; non raccogliere provocazioni e offese; sorridi e sii gentile sempre; non fare agli altri ciò che vorresti non fosse fatto a te; non aspettarti mai nulla; comportati bene in primis per te stesso; tutte belle frasi nobili e condivisibili, ma credo sia inevitabile che, prima o poi, bussiamo ai nostri creditori per riscuotere i corrispettivi.
Non penso sia sbagliato pretendere di essere trattati in un certo modo.
Né stancarsi e dire basta a “trattamenti” non proprio impeccabili.
Allontanarci o cambiare atteggiamento, quando consideriamo prioritarie persone per le quali noi rappresentiamo solo una delle infinite opzioni.
La differenza, ciò che distingue i nostri individui speciali dai semplici conoscenti, è l’aspettativa.
Se una persona ci è cara, vicina, ci aspettiamo che si comporti da tale. O no?
Forse è vero che non dovremmo mai aspettarci niente da nessuno per non rimanere delusi. Ma è altresì vero che sia lecito e inevitabile aspettarsi che persone vicine si rapportino a noi in un determinato modo. O, per lo meno, “come avremmo fatto noi”. Ma non siamo tutti uguali, però! Ma i comportamenti decenti sono universali, invece.
Ma quanto ci fa bene aspettarsi azioni che, se disilluse, ci creano sofferenza? Se la smettessimo di crearci aspettative per farci sorprendere dalle meraviglie dell’inaspettato? Dovremmo condonare tutte le condotte indecenti, però…
In generale, alle persone che ci piacciono, permettiamo (quasi) tutto. Viceversa, non condoniamo nulla a coloro che non ci sono particolarmente simpatici.
Ma un punto di rottura, arriva sempre.
Perché anche le persone che ci aggradano, prima o poi, cozzano contro la nostra pretesa che loro corrispondano alle nostre aspettative, all’affetto che nutriamo per loro, al ruolo di protagonisti che gli abbiamo conferito nella nostra vita.
Semplicemente, col nostro desiderio di essere trattati da loro come li trattiamo noi.
Altrimenti, è doveroso attuare un demansionamento affettivo. Per non incorrere in ulteriori delusioni.
Avrete sicuramente fatto quel giochino: «Ok, io ora non ti cerco, per vedere se mi cerchi tu…» È davvero divertente scoprire che, nove volte su dieci, rimaniamo in attesa di visite, messaggi o chiamate che non arrivano mai.
È parecchio esilarante appurare che, a volte, certi rapporti si reggono solo col quel che noi facciamo. Univoci. Perfetta idiosincrasia con la definizione di rapporto stesso: biunivoco, paritario e, soprattutto, reciproco.
Che dall’altra parte la nostra assenza non viene percepita o non si tramuta in mancanza o in necessità di azione.
Uno dei principi fondamentali che ho imparato nella vita, è che non si DEVE mai imporre la propria presenza a nessuno.
Allo stesso modo, non si devono mai elemosinare Amore e attenzioni.
Per questo motivo, quando mi rendo conto che la mia presenza non è apprezzata, né fondamentale, mi allontano.
È doloroso – da una parte – scoprire che, spesso, non venga neanche notato. Ma – dall’altra – è senz’altro salvifico per noi stessi.
Poi viene il giorno in cui, invece, se ne accorgono. Dov’è quella persona che faceva molte cose per me? Dove sono i messaggi e le telefonate? E le cure? La presenza e le attenzioni?
È spassoso, constatare che si apprezza una fissa presenza, solo quando questa diventa assenza. E, tutto quello che hai fatto per loro, solo quando smetti di farlo.
In genere quel giorno cade di Troppotardì.
Tratta come ti trattano.
O tratta a prescindere?
Eppure anche lui, nella sua immensa bontà d’animo che qualcuno scambia per stupidità, l’ho visto stancarsi e chiudere rapporti. L’ho visto infine trattare esattamente come lo avevano trattato.
Alla fine, anche se cerchiamo di addossare la colpa agli altri, siamo sempre noi a permettere a costoro la maniera in cui trattarci; a decidere se e quanto tollerare; a sapere fino a che punto il bene che facciamo – disinteressato – faccia bene pure a noi. O quando, invece, la mancanza di trattamenti adeguati – percepiti come mancanze di rispetto – ci crei sofferenza.
Fino a quando sopportiamo, fino a quando ne vale la pena, fino a quando non ci rompiamo, ma rompiamo davvero. Allora, in quel momento, nessun proverbio ha più importanza.
Quando decidiamo che certi “trattamenti” non fanno per noi, non li meritiamo, che – forse, magari, prima o poi – la ricompensa arriverà, ma nel frattempo perché martoriarsi, aspettando?
Sostanzialmente, possiamo tollerare e permettere, finché ci fa star bene con noi stessi, a prescindere dalle risposte degli altri. Se stiamo bene, continuiamo ad oltranza a fare del bene.
Perché poi, se – invece – iniziamo a soffrire per i nostri e gli altrui comportamenti, cambiamo.
Come ho già detto, c’è una linea sottile tra orgoglio e Amor proprio. E, se il primo è deleterio, il secondo è necessario.
Perché come le situazioni, gli umori, gli amori, le stagioni, i rapporti, anche le persone cambiano. Crescono, si sviluppano, evolvono, involvono, mutano, migliorano e, sì, magari peggiorano pure.
Fa parte dell’esperienza, della crescita e da quanto e come qualcuno ci ha “trattati”.
Magari quegli stessi “qualcuno” che ora sono da qualche parte a domandarsi dove siamo e perché.
Ogni femmina che si rispetti opera una doviziosa attività di stalkeraggio e controllo nei confronti del maschio oggetto dei propri desideri.
Tutte, nessuna esclusa, anche quella che dice di non farlo. Stateci, è così!
Nell’era dei social network, tale attività si manifesta anche nel setaccio minuzioso delle amicizie virtuali e delle interazioni ricevute dal suddetto maschio.
In anni e anni di onorata carriera da stalker ho imparato a riconoscere una categoria di femmine a dir poco invadenti e notevolmente fastidiose: le “MI PIACINE”. Le suddette, evidentemente, non hanno vita propria, ma fissano lo schermo del pc o dello smartphone in attesa di “mi piacere” qualcuno.
Ucci ucci, CHI ha messo “Mi piaciucci”?! ‘sta grandissima zoc***la!!!
Il commento è opzionale. Le seriali dei commenti sentenziano su ogni cosa, anche con un semplice smiley, giusto per marcare la propria presenza.
«Ooohiii… maschiettooo!! Sono quiiiiiii!!»
Ma la “Mi piacine” non fanno mai mancare la loro polliciata all’uomo, indipendentemente da cosa pubblichi, loro ci sono!
Anche nei maschi si annoverano esponenti di tale categoria, ma non raggiungeranno mai la costanza e l’onnipresenza delle femmine.
Ammetto che ho scoperto una funzione da stalker professionista: la notifica ogni volta che tizio/caio pubblica qualcosa. Ma devo dire che non l’ho mai attivata per nessuno, perché neanche io arrivo a tanto. Sospetto, però, che le “Mi piacine” se ne avvalgano costantemente, sennò non mi spiego come facciano a polliciare in maniera così repentina!
C’è da dire anche che non tutte quelle che esprimono apprezzamento ci arrecano un fastidio fisico, solo “certe”, in virtù di una Regola base: ogni donna SA di CHI deve essere gelosa. Ricordatelo sempre! Se la vostra lei, o se voi, nutrite una particolare antipatia per una fanciulla “vicina” al vostro uomo, un motivo c’è! Sempreee!!
Una volta ebbi l’incredibile opportunità di conoscere dal vivo una “Mi piacina” che mi stava violentemente sulle palle, in quanto apprezzava qualsiasi elemento – qualsiasi! – postasse il ragazzo con il quale, all’epoca, condividevo la vita.
Incontrata casualmente (o magari lo seguiva…), il maschio di BB, ignaro, ci presentò…
Eccola lì, proprio di fronte a me, colei che soleva “mi piacere” ogni cosa, in tutta la sua bassezza/bruttezza/insulsatezza/antipatichezza e… dai, c’è bisogno che continui??
«BB, lei è Gina…»
«Aaahhh! TU sei Gina. Tu sei quella baldracca che apprezza ogni cosa che fa il mio uomo! MIO, ciccia. MIO!! Ti è chiaro? Comunque la foto del profilo non ti rende giustizia, dal vivo sei molto più trucida. Se continui, dovrai metterne un’altra in cui sei senza denti. Ti è chiaro, tesoro?»
Questo è quello che avrei voluto dire.
Decisi fosse meglio filtrare un pochino il mio astio – onde evitare di dare spiegazioni al maschio sul motivo del suddetto, dando così prova inconfutabile della mia totale follia – perciò dissi semplicemente:
«Aaahhh! TU sei Gina. Ma che piaceeereee… Dove “piacere” è la parola chiave!!» Mentre le stritolavo la mano, le mostrai i canini, accompagnando il gesto da uno sguardo solo velatamente da serial killer e Il mio miglior ghigno da “TU-PROVA-A-RIMETTERGLI-MI PIACE-E-POI-VEDI-DOVE-TE-LO-FICCO-QUEL-CAZZO-DI-POLLICE”!
Sebbene non avessi proferito parola a riguardo, la fanciulla – da quel giorno in poi – non si azzardò più ad esprimere il proprio gradimento verso il maschio di BB.
Da qui, impariamo un altro principio fondamentale: le donne comunicano attraverso un linguaggio corporeo tutto loro, ma ben compreso da qualsiasi femmina.
Come avrete intuito, l’indagine piaciatoria avviene all’oscuro del pover’uomo per cercare di non arrivare a dire frasette del tipo:
«Chi è quella che ti mette sempre “Mi piace”??»
«Certo che je piace proprio tutto, eh!!»
«A cena vacci con quel troione che t’ha messo il cuore sulla foto!!!»
Su signore, manteniamo almeno una dignità apparente!
Va detto anche che lo stalkeraggio avviene nella fase iniziale dell’approccio, per cercare di capire chi abbiamo accanto, se ci sono altre giocatrici in campo e il ruolo che ci è stato affidato in questa partita. Ma quanto serve?
La tecnologia è incrementata e con lei, purtroppo, anche i social network. Sicché, se prima bastava aprire solo “Faccia libro”, ora – per operare un controllo chirurgico – occorre sbirciare anche Twitter, Instagram, Google+… e qualsiasi altro mezzo di socializzazione utilizzi il nostro uomo… In buona sostanza, bisognerebbe dedicarci tutta la giornata.
Il dilemma è quindi scegliere se immolarsi a costanti indagini, o… vivere. Io ho optato per la seconda.
Innanzitutto, poiché sposo il vecchio principio che “Se uno te deve frega’, te frega”, a prescindere dai controlli.
Poi perché sono consapevole che non potrei MAI arrivare a sapere tutto quel che succede al mio lui, con chi parla, con chi si scrive e quante sono ad apprezzarlo, non solo virtualmente.
Per cercare di capire impazzirei ancora di più e comunque rimarrei col dubbio. Non mi resta che fidarmi e affidarmi. Dopotutto anche io pollicio, in modo molto parco, poiché, come noto, non mi trovo bene nei pollai ma prediligo gli alveari, ma – magari inconsciamente – sono oggetto di altrui gelosie, sebbene sia disinteressata.
E, sopra ogni altra cosa, “Mi piaci” preferisco dirlo e sentirmelo dire e per questo sì, che vale la pena spendere il proprio tempo. Ma, se questo non avviene nel reale, tenere sott’occhio il virtuale servirà a ben poco.
PS: Ragazze, scusatemi. So bene di aver mentito, ma devo dare un piccolo spiraglio agli uomini, sennò, poverini, questi capiscono di non avere scampo e che saranno sempre soggetti a controlli continui. Non glielo diciamo, che è meglio…