Dice: parti così non ci pensi, stacchi, ti svaghi e ti rilassi, sarà! A me sembra che i pesanti pensieri, le paranoie e le Vocine nella mia testa mi abbiano seguita, ma magari mi sbaglio… (No! Non sbagli!)
E infatti…
Quando decidete di prendere una vacanza, dovreste ricordare al vostro cervello di spegnersi, altrimenti vi troverete nella mia stessa situazione: dall’altra parte del mondo, ma – a quanto pare – con la medesima capoccia frullante.
Sono andata a fare immersioni a Sipadan, Malesia: undicimila chilometri, tre aerei, un pulmino, una barca e sei ore di fuso, da casa.
Da curiosa, bulimica di conoscenza e studiosa, innamorata – e a volte schifata – del genere umano, non potevo non affrontare anche questo viaggio col mio consueto spirito di osservazione e nuove riflessioni sempre pronte.
D’altronde è il mio modo di vivere e la vita stessa è un viaggio, di lunghezza variabile, di bellezza variabile, che affrontiamo come meglio possiamo, con compagni che si scelgono e altri che ci ritroviamo.
A spasso per il creato, impari sempre qualcosa da te stesso e dai tuoi colleghi d’avventura e apprendi molto dalle nuove realtà che scopri.
Asia, territorio a me sconosciuto, ma che – da sempre – mi rimanda ad atmosfere suggestive e quel fascino dell’Oriente che subisco proprio. Ad accoglierci uno stupendo resort di palafitte. Certo, decisamente non rispondente a quella genuinità e originalità che stavo ricercando, ma, confinante col nostro villaggio, si snodava il villaggio autentico, autoctono. L’ho osservato anche da lontano, pochi metri di ponticello e due mondi agli antipodi:
da un lato il lusso, il divertimento e i comfort. Dall’altro la povertà vera, quella che ti fa sanguinare il cuore, quella fatta di vestiti laceri e odori nauseabondi, quella che ti fa sentire fortunato e che ti tira fuori tutte le considerazioni grondanti retorica che – però – proprio poiché considerate tali, sono più che veritiere.
Perché quando ti lavi i denti la mattina con l’acqua salata e quando vedi raccoglitori per quella piovana, al fine di recuperarne il più possibile, davvero capisci di essere un re. Per circa cinque minuti, perché – poi – ti scordi e riprendi a lamentarti delle cazzate.
Un luogo fatto di bimbi nudi, sorridenti, che cercavano attenzioni e qualche “regalo”, perennemente immersi nell’acqua sotto le dimore, cercando stelle marine e pesci da mangiare e da vendere.
Qualcuno ha fatto chiedere a uno di loro quanti anni avesse, la risposta è stata:
«Non lo sa, qui non si “usa”…» Mi ha molto colpito.
Ho pensato a ogni festa organizzata, ogni anno, per celebrare il fatto che stessi invecchiando, a tutti i festeggiamenti in mio onore e a quanto rimanessi male se qualcuno dimenticava il mio compleanno. Chissà se questi bimbi soffrano del fatto che nessuno prepari loro torta e candeline.
Ma forse dipende tutto da come sei abituato, dalle priorità che si hanno nella propria vita, dalla realtà che ti circonda e se non hai termini di paragone e se non sai che esistono mondi diversi, non ne puoi soffrire e, magari, vivi bene lo stesso.
Le malesi sono molto belle e, appunto, è difficile dar loro un’età, sembrano tutte ragazzine. Quelle di credo musulmano indossavano dei veli ad adornar loro la testa, molto graziosi, ricamati e colorati. Mi ha fatto effetto vederne anche addosso ai manichini nei negozi degli aeroporti, ma, per loro, è ovviamente assoluta consuetudine.
La “severità” che io percepivo da quell’imposizione, ai miei occhi, contrastava coi loro sorrisi naturali e beati, quell’incarnato nocciola e quegli occhi scuri e brillanti. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se dietro al rigore della tradizione e quella serenità apparente, si nascondessero le nostre stesse seghe mentali fatte di «Ti ha scritto, che ha detto, fanculo stavolta non me ne frega più niente sul serio». O se siano soltanto squisita prerogativa di noi frivole donne occidentali. Chissà. Mi sono pentita di non averne “intervistata” nessuna, come mi era venuto in mente. Peccato.
Magari avrei avuto conferma del vecchio adagio secondo il quale: “Tutto il mondo è paese” perché ho imparato che uomini e donne, alla fine, parlano sempre di uomini e donne! In ogni parte del creato!
Così tra quello che ho visto, quello che mi è stato detto, quello che ho rubato con occhi e orecchie e fatto mio, ho arricchito ancor di più il mio già straripante bagaglio antropologico.
Ho imparato (ma lo sapevo già…) che le perle finiscono sempre coi porci e i pirloni con le porche, meglio conosciute come gatte morte/stronze/& affini; che gli uomini continuano a distinguere le donne in “sportive” e “pretenziose” e tutto ciò che può fare e sopportare un maschio, in nome della cara e vecchia faiga. O, in una visione più romantica, se DAVVERO ti vuole. Tanto per fare un mero esempio, centinaia di chilometri, perché lei: «Quanto era bella. Quanto…».
Ho pensato che, raramente, qualcuno avesse affrontato lunghi viaggi per vedere me, ma che – una volta – stavo per farlo io, totalmente rincitrullita dall’ormone e dal batticuore. A fermarmi erano state le Vocine e qualche amica che, gentilmente, mi avevano sussurrato:
«Ma dove cazzo vai?».
In effetti, dove cazzo andavo? Però lui è così speciale. Pure tu, Tesoro. Sappi che la distanza è la stessa per entrambi. Ah, vero.
E mi sono ricordata di tutti quelli che, durante il percorso della mia vita, mi hanno detto: «Sei una Stella, non te lo scordare mai…». Ma noi donne si sa, tendiamo sempre a dimenticarcene e a farci spegnere od offuscare la nostra splendida luce.
Allora ho osservato le Stelle marine. Loro mica si muovono, stanno lì immobili e si lasciano ammirare. Hai mai visto una stella marina rincorrere uno scorfano?
Quindi, anche dall’altra parte del mondo, mi sono prese innumerevoli paturnie su “Se pochi lo ha fatto, evidentemente io non sono abbastanza bella”. Che ve lo dico a fare?
Altrettante, e che mi hanno fatto annuire per un paio di giorni, mi sono nate udendo la sicura affermazione maschile che “se un uomo tiene a te”, scusate… “SE UN UOMO TIENE A TE”, non solo fa di tutto, ma ci tiene a gridarlo al mondo intero. Dall’altra parte e da questa parte.
Lo so che questa frase rappresenta l’ovvietà del secolo, ma – si sa – quando certe frasi le sentiamo pronunciare dagli altri ci sembrano sempre più sagge e brillanti, mi si accende un allarme mentale e tutte le Vocine in coro mi gridano:
«CHIAROOOOOOO??»
Ma quando sei immerso in qualcosa, è proprio il caso di dirlo, ti rendi poco conto del resto del mondo, sia bagnato che asciutto. Quando sei immerso, ti focalizzi unicamente su quello che riesci a vedere attraverso la maschera. Sapete che ingrandisce gli oggetti? Quindi ci offre una visione leggermente distorta della realtà. Di conseguenza, quando sei immerso, non riesci a vedere nitidamente. Mi ricorda un articolo di qualche tempo fa sulla Miopia femminile, ma – ho imparato – che anche i maschietti vengono accecati dalla faig… ehm… dall’amore.
Ho trovato una stupenda analogia tra la subacquea e le mie amate meditazioni: sono entrambi dei mondi ovattati e quasi totalmente privi di suoni, in cui – per lo più – odi solo il tuo respiro, di una cadenza rassicurante e rilassante.
Le profondità maggiori le raggiungi gradualmente, le discese sono come quelle nel profondo dell’anima. Se hai paura, non riesci a inabissarti completamente, a lasciarti trasportare, a scoprire dove puoi arrivare. Durante tutto questo, sì, sei concentrato su quello che stai facendo e ammirando, ma la mente viaggia. O, magari, capita solamente a me. Probabile.
Perciò, anche nel mondo sommerso, non ho potuto fare a meno di meravigliarmi del comportamento dei suoi abitanti.
Durante una notturna, ci siamo imbattuti in una tartaruga che dormiva beata, adagiata su una struttura di legno a
circa quattro metri di altezza dal suolo. Poco dopo, poco distante, ne è sopraggiunta un’altra, ha provato a coricarsi sul relitto di una barchetta a remi, ma era talmente grande che questo non riusciva a contenerla. Allora si è tolta. Ha puntato la collega beata, le ha dato una sonora beccata per svegliarla e spostarla e si è fregata il suo posto. La prima ha iniziato a risalire, senza protestare e – probabilmente – è andata a cercarsi un nuovo giaciglio.
Ho imparato, così, che la prepotenza vince anche sott’acqua.
Ma ho imparato anche, che gli esseri più spaventosi di tutti i mari, gli squali, incutono davvero timore quando li incontri, però se ti avvicini senza paura sono loro a scappare e che spesso questo accade anche con i predatori che incontriamo fuori dall’acqua.
Sul dorso di tartarughe e squali, vivono dei simpatici pescetti che si chiamano remore. Questi si cercano un “protettore” grosso, alle spalle di cui vivere, navi, squali, tartarughe, qualsiasi essere imponente. Nella vita terrena li chiamiamo “parassiti” e non voglio dire papponi che pare brutto. O forse significa che, per sopravvivere, abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci sia accanto e che ci aiuti, per difenderci, proteggerci, per pulirci e per vivere. E magari anche gli essere più grossi, che pensiamo siano autosufficienti, sono più felici di avere compagnia.
E poi c’è stato l’incontro col Pesce Pagliaccio-bullo.
Da quando abbiamo conosciuto Nemo, i pesci pagliacci li abbiamo tutti in simpatia, così, ogni volta che mi è capitato di vederli, mi sono soffermata a giocherellarci. Vivono davvero dentro le anemoni e dalle loro dimensioni puoi
facilmente distinguere i genitori e i cuccioletti. Con le dita sfioravo la loro casa morbida e accogliente e loro si nascondevano. Non appena mi scostavo, tiravano timidamente fuori la testa e io ricominciavo il mio trastullo stuzzicante. Finché uno di loro, presumo il capofamiglia, scocciato da questa interferenza ripetuta, è uscito fuori e ha cominciato a fissarmi.
Nei suoi occhietti minuscoli potevo leggere distintamente un chiaro e minaccioso:
«Che devi fa?? Hai finito de rompe li coj***?»
È stato incredibile! Vedere questo esserino grosso quanto il mio pollice affrontare me, un gigante cattivo, per difendere i suoi, è stato commovente. Perché è così che si fa quando devi curarti di chi ami. Te ne fotti se hai paura, te ne fotti se sei piccolo e indifeso e se, nel confronto, sei decisamente in svantaggio. Te ne fotti e agisci, affronti i colossi e vai!
Grande, pescetto!
Ma nella vita emersa, all’asciutto, non è sempre facile riuscire a proteggere chi amiamo e non sempre chi abbiamo accanto è disposto a farsi aiutare. Il mio modo invadente ma discreto di cercare di salvaguardare i miei affetti dalla sofferenza, mi imporrebbe di intromettermi a ogni costo, di correggere una visione alterata, di essere cruda, ma comprensiva, di aiutare anche a discapito del rapporto stesso. Perché non sempre si è pronti ad ascoltare la verità.
Perché a volte vorresti dir loro che certi atteggiamenti non vanno bene, non vanno bene per niente. Altre, che è giusto e sacrosanto pretendere di più, che sì, cazzo, fa male! Ma accontentarsi fa peggio. Tradire il nostro Amor proprio fa molto peggio, che imparando a raccogliere briciole, non ci si ricorda come sia mangiare davvero. A volte vorresti fare molto, ma occorre una gran dose di coraggio che non sempre si ha. E in fondo… io chi cazzo sono per dire agli altri come vivere, il viaggio ognuno se lo fa come meglio crede. Magari anche i cuccioli di pagliaccio si stavano divertendo con me che rappresentavo un’evidente minaccia e si sono scocciati che il padre abbia posto fine al divertimento. Ognuno sa cosa è meglio per sé, senza aiuti. Forse…
Ho imparato che, anche sott’acqua, si può ridere fino alle lacrime e, se nella vita asciutta mi è capitato molteplici volte di buttarmi a terra per sganasciarmi senza contegno, era la prima volta che mi succedeva nel regno sommerso.
Un episodio imbarazzante, al quale avrei potuto reagire arrabbiandomi o risentendomi, ma da questa parte del mondo e dall’altra, all’asciutto o al bagnato, ho scelto di ridere per esorcizzare qualsiasi situazione e così ho gestito anche questa.
E, grazie a questo, posso dire con fierezza: ridere fino alle lacrime sott’acqua, fatto!
Sono riuscita a ridere anche in una circostanza tutt’altro che comica. Quasi alla fine di un immersione, per la prima volta, mi si è materializzato l’incubo di tutti i subacquei: ho finito l’aria. Quando mi sono accorta che scarseggiava, ho sperato che mi bastasse fino alla fine, perché mi imbarazzava e poi avrei dovuto chiedere aiuto e, quindi, “disturbare” qualcuno. Le mie speranze si sono vanificate quando il manometro segnava impietoso “zero” e mancavano ancora almeno cinque minuti all’uscita. Così l’ho segnalato al mio istruttore, ma l’ho fatto, appunto, ridendo, tanto che – in un primo momento – pensava stessi scherzando. Non solo avevo messo in atto la regola basilare di non farsi prendere dal panico in nessuna situazione, ma, soprattutto, non era la prima volta che mi ritrovavo senza fiato. Quindi sono abituata. La Vocina che mi ripete in ogni circostanza nera “Te la caverai, tanto te la cavi sempre…” anche questa volta aveva ragione e ho imparato pure che, ogni tanto, non c’è proprio nulla di male nel lasciarsi aiutare.
Quindi ho imparato – ma lo sapevo già – che mentre c’è chi si crea problemi a parlare, c’è chi parla a prescindere e, spesso, solo per creare problemi. Chi fa della logorrea il proprio stile di vita, chi ha bisogno costantemente di stare al centro dell’attenzione, magari per insicurezza, ma queste stesse persone sono quelle che si curano meno degli altri.
Ho imparato che se sei buono e accomodante lo sei – purtroppo – da qualsiasi parte del cosmo. E ti capiterà sempre, sempre, sempre di sentirti ferito, deluso e amareggiato da qualcuno. Perché la propria natura difficilmente si può mutare, anche con una muta addosso.
Come quella tartaruga che se n’è andata senza ribellarsi. Io non lo so se quella beccata se la sia meritata, allora sarebbero pari. Comunque mi piace pensare – e sono abbastanza sicura – che, se dovesse ripetersi di nuovo, risponda con un morso e non si sposti. Perché anche le creature apparentemente più placide, alla fine, si incazzano. Fidatevi.
I miei affetti autentici non mi hanno abbandonata nemmeno dall’altra parte del mondo. È stato meraviglioso condividere con loro – in tempo reale – foto, esperienze e quant’altro e occorre ringraziare il signor internet per questo.
Ma, come ho già avuto modo di fare, mi sono chiesta quale fosse il confine tra utilità e ossessione. Se il nostro essere perennemente connessi al mondo virtuale, non ci faccia perdere di vista quello contingente. Talvolta si è così impegnati a controllare quel che succede nel luogo che abbiamo lasciato, da trascurare le meraviglie che abbiamo intorno.
Occhi puntati sugli smartphone e, troppo poco spesso, a contemplare la bellezza reale.
Forse ero anche rammaricata di non avere qualcuno da pensare. Non so se avete presente, qualcuno a casa che contasse i giorni che ci separavano. Forse solo qualcuno che mi sono imposta di non pensare, è vero che quando ti allontani riesci a vedere con più distacco i fatti. Dall’altra parte del mondo e da questa, ho smesso di rincorrere le persone e imporre la mia presenza, che dovrebbe essere un piacere. Faccio come le stelle marine. Chi vuole sa come e dove trovarmi. Chi vuole. Non ho mai impedito a nessuno di adagiarsi accanto a me.
Probabilmente per sentire più vicino quel mondo dal quale mi ero temporaneamente congedata, ho fatto qualcosa che non avevo fatto mai: ho postato una mia foto su
Instagram. Sono iscritta da oltre tre anni, ho svariati seguaci e non l’avevo mai usato. Ovviamente ai miei occhi il risultato non è stato granché, perché, nonostante gli splendidi colori verde-azzurri del mare, le palme, la spiaggia bianchissima e i filtri di Instagram, io non sembravo per niente una di quelle della pubblicità degli abbronzanti. Eccchecazzo.
Quindi, da oggi, ho un nuovo mezzo per biasimare me stessa.
Eppure non dovrei…
Ho constatato che le hostess della Malaysia Airlines sono probabilmente reclutate tra le modelle, tanto per far sentire le viaggiatrici sfrante da ore di cammino ulteriormente uno schifo.
Al ritorno, scesa nel primo aeroporto, attendevo di riunirmi col gruppo quando mi sono vista una fotocamera di un cellulare puntata sul viso e il suono dello scatto. A tenerla un sorridente “antaenne” dai lineamenti arabi.
L’immagine che offrivo di me stessa non era sicuramente delle migliori: pelle bruciata e screpolata dal sole, fisico risultante da una dieta a base di patatine fritte, capelli “scolpiti” da una settimana di mare e ore di sbattimenti, occhiaie, trucco sciolto e mise poco attraente, total black, composta da tuta, felpa e scarpa da ginnastica. Sì, un cesso praticamente! Perciò non sono riuscita nemmeno ad arrabbiarmi… Ho sorriso e ringraziato mentalmente, mentre pensavo:
Gentile hostess della Malaysia Airlines, a parte che per antonomasia incarni un desiderio erotico classico, quindi parti decisamente avvantaggiata, comunque ad essere figa con la divisa, truccata, senza sudare e coi tacchi, sono capaci tutte. Prova ad esserlo con l’outfit sopra citato, dimmi se qualcuno ti fotografa e poi ne riparliamo. Io la foto l’ho avuta, ciccia. Tiè!
Ancora una volta, ho imparato che gli altri – fortunatamente – sono molto più indulgenti con noi, di quanto noi non saremmo, probabilmente, mai. Purtroppo.
Peraltro in quei giorni era già capitato. Ho imparato che: «Is he your boyfriend?» é l’internazionale primo approccio con il quale ci si assicura via libera. Pure non ricambiare sguardi e sorrisi per scoraggiare è internazionale. E questo fa di me la regina internazionale della fuga.
Comunque sono fortunata ad avere ricevuto un’istruzione, ad aver passato ore a studiare e leggere. Qualsiasi conoscenza ti torna utile nella vita. Almeno posso essere abbordata anche in inglese. Che culo!
Amo definirmi un’asociale e anche un po’ solitaria. Non è totalmente vero, ma quello che è vero è che amo ritagliarmi degli spazi di assoluta solitudine. Ne sento la necessità e non tutti riescono a capirlo e accettarlo.
Anche essere undici milioni di metri da casa, con un nutrito gruppo di persone, non ha eliminato questa esigenza. Così mi ritrovavo spesso per conto mio con le mie Vocine e tutte queste riflessioni. Ma non solo…
Dirimpetto al nostro resort, sorgeva una piattaforma petrolifera in disuso, che era stata tramutata in un albergo e diverse sere si animava con musica che riuscivamo a sentire anche noi. In una di queste, mentre mi avviavo da sola sulla passerella in legno verso la nostra palafitta numero S120,
ho sentito iniziare una canzone a me molto cara. Ho sorriso. Solinga, al buio, mi sono fermata per ascoltarla e cantarla tutta. Stupenda, sporcata unicamente dal rumore del mare e dal mio tirare su con il naso.
“If I lay here, if I just lay here, would you lie with me and just forget the world?”
Anche dall’altra parte del mondo, mi sono sentita a casa. Allora non ero poi così lontana.
Forse è vero che i subbaqqui sono personaggi strani, diversi, metà esseri umani, metà pesci, che si rifugiano sott’acqua per sfuggire al mondo esterno, per non dover parlare e non dover ascoltare. Per sentire unicamente il proprio respiro e i propri pensieri. Forse è vero.
Ma ho imparato anche che se ascolti “Someone like you” da sola, di nascosto, sicuramente sarai colpita da Adelaide piangente acuta. Se – invece – la canti a squarciagola alle otto di mattina con due amiche è sempre deprimente, ma decisamente più divertente.
Perché è meraviglioso quando permetti a qualcuno, che una volta era uno sconosciuto, di entrare nella tua vita e perfino di volerti bene. È stupendo, anche, aprire nuovamente la porta per scoprire realtà nuove, persone nuove, affetti nuovi. Quando dei nomi e cognomi iniziano a diventare presenze e pensieri costanti, tanto da avvertirne la mancanza quando non li vedi, tanto da preoccuparti per loro e di esserne contenta, perché significa che, forse, così strana non sei e, alla fine, i bagagli negativi che ci portiamo dietro vengono sempre rimpiazzati da quel che di buono resta in noi.
Ho imparato che se ti scende una lacrima mentre sei sott’acqua, non si sa come, né perché, non si sa se di gioia o di malinconia, ma sai che avviene dopo tempo che non riuscivi a versarne, può aiutarti a sentirti nuovamente viva. Ed è stupendo.
A spasso per il mondo, impari sempre qualcosa da te stesso e dai tuoi colleghi d’avventura. Apprendi molto dalle nuove realtà che scopri e… ci sono cose che, purtroppo, perdi per sempre.
Ho perso qualcosa e mi scoccia da morire perdere ciò che possiedo. Mi capita raramente perché ci sto attenta, perché sennò poi ci sto male, eppure è successo. Ho smarrito il mio amato collo di lana nero che avevo usato per contrastare l’aria condizionata in aereo. Appena arrivata, colpita dai quaranta gradi, l’ho riposto chissà dove e non l’ho più trovato. Mi sono accorta della sua assenza solo quando stavo preparandomi per il rientro, nel momento in cui potevo averne ancora bisogno.
Ora chissà dov’è… Io lo lavavo, lo conservavo… A questo punto, non molto bene.
Ho perso anche un orecchino che ora giace adagiato in uno splendido fondale e magari la corrente lo sta portando a visitare luoghi e creature meravigliosi, beato lui. Però mi manca. Mi mancano entrambi.
Ma forse è questo quello che capita quando non ci si prende sufficientemente cura delle proprie cose. Quando ce ne scordiamo e le perdiamo di vista, quando le accantoniamo perché presi da altro e non ci servono. Non è detto che le troveremo lì ad attenderci, quando ne avremo bisogno. Se ci pensiamo bene, capita con tutto e tutti. D’ora in poi lo ricorderò.
Ricorderò anche di non abbandonare mai più i miei tacchi, neanche al mare.
La subacquea mi ha dato l’opportunità di fare esperienze inimmaginabili, ma ha anche causato grosse ferite al mio ego da superfemmina. L’essere costantemente struccata, in costume, coi capelli gretti e le infradito, mi fa sentire tutt’altro che una sirena. E poi, ci tenevo a dire a chi critica sempre i miei tacchi, che le infradito mi hanno procurato delle ferite sanguinanti alla base di entrambi gli alluci. I miei tacchi dodici non mi hanno MAI causato cose del genere. MAI, neanche da questa parte del mondo. Che si sappia.
Mi sono allontanata di undicimila chilometri, ma – niente – a quanto pare, anche lì, anche in viaggio, la mia mente che viaggia era la stessa.
Non ho ancora totalmente disfatto le valigie, ma – permettetemi una frase altamente poetica – ho imparato che il mio bel bagaglio interiore non mi lascia mai e sono finalmente molto soddisfatta di tutto quello che vi è rimasto dentro. Scremato, scelto, sudato con cura e, ora, ancora più ricco.
Perché se è vero che quasi tutti amano il mare, è altresì vero che non tutti hanno la curiosità e il coraggio di scoprire le meraviglie che cela. Accade anche con noi stessi e con le altre persone.
O forse un giorno imparerò a godermi i viaggi e il viaggio principale, senza formulare sofisticate elucubrazioni mentali, osservare qualsiasi dettaglio, memorizzare frasi e gesti e arricchire la mia conoscenza sull’umanità, i comportamenti, i rapporti e l’amore.
A proposito di amore, devo confessare che purtroppo non ho incontrato il mio Sandokan. O forse sì. Per la gioia internazionale, devo dirvi che sono dovuta arrivare dall’altra parte del mondo, ma finalmente ho trovato chi mi renderà felice: il Varano. È grosso, non parla, ma ha due metri di lingua.
E scusate se è poco.
«Forse in fondo è vero che per essere capaci di vedere cosa siamo,
dobbiamo allontanarci e poi guardarci da lontano…»
D. Silvestri
Se volete scoprire le meraviglie della subacquea, io vi consiglio la scuola Sea Walker Divers nella persona del sommo Boss Marco Cesaroni.
Non è per niente una marchetta e non avrò brevetti gratis per questo. Purtroppo.
Ai miei compagni di questo viaggio
e a quelli del viaggio della vita.
Grazie.