Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.
Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…
La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.
Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?
Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.
Non sarei dovuta neanche essere lì…
Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.
Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.
Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.
«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»
Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!
Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.
…BB, c’è posto per te!
Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.
In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.
Che ne siamo coscienti o no.
Che lo vogliamo o no.
Come era successo a me.
Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.
E allora…
Metti una Barbie sul Mar Rosso.
Metti una lussuosa barca di 40 metri.
Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.
Metti 20 Sub insieme.
Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.
Isolati.
Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.
E lontana…
In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.
“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.
Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.
Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.
Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.
Mi piace. Cavolo, questo mi piace.
Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.
Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.
Eppure…
Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.
Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.
In tutti i sensi.
“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.
Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.
Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.
Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.
Come… come un’abitudine.
Ora sembrava tutto così lontano…
Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.
Una settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.
Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.
Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…
E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.
Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.
Non va bene neanche sentirsi dire:
«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»
Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?
Ma tutto questo non va bene.
Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.
Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?
Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??
Ma QUANDO è successo?
Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?
La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…
Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.
Non andava bene per niente.
Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.
Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.
Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.
Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.
Che fatica, gente.
Interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi.
Ne vale la pena?
La vale davvero.
Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.
E ne sono stata felice.
A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…
Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.
Un’isola tra le isole, ma non più isolata.
A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»
Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.
Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:
“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,
all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.
Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.
Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di “Carpe Diem” ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.
Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.
Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.
Fa parte delle maschere che indossiamo.
Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.
Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.
Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.
Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.
Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità.
Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.
E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.
Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.
La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.
Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.
Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.
Ho sorriso.
Tu non sai chi sono io.
Ho sorriso di nuovo.
Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…
Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.
«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.
Non credo c’entri questo.
Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali…
La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.
È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.
Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.
Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.
In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.
Io ho immaginato la scena più o meno così:
«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»
E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.
Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.
Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.
Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.
Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.
Come quando nessuno ti conosce.
Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.
Magari risiede in questo la differenza.
O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.
Perché c’è speranza, Signori.
C’è sempre speranza.
Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.
Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.
Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.
E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.
Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.
Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!
Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.
Mentre scrivevo la bozza di questo articolo il mio telefono ha scelto dal lettore “Someone like you” come l’anno scorso, quando l’avevo cantata con due amiche ed era stato decisamente più divertente.
Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.
Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo. Che culo! (appunto)
Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.
Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.
Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.
Magari imparo davvero.
Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.
C’è speranza Signori.
C’è sempre speranza.
Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.
Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.
Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.
Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.
Ma ne vale la pena.
Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.
Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.
VOLENDO.
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.
John Donne
Ai miei compagni di questo viaggio,
alle picchiate a cinquanta metri,
le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.
Grazie 😉
NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”
[…]
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
[…]
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe.
[…]
“Addio”, disse.
“Addio”, disse la volpe.
“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.
Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.
Il Piccolo Principe
Antoine de Saint-Exupéry
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