CRONACHE DI DISAGI IMPRENDITORIALI

Salve, dovrei fare la SPID aziendale.

Sicura?

Be’, Oddio… Sì, dai.

Paga, compila il modulo, paga, scarica l’App, paga, carica tutti i documenti  e le foto di sguincio e d’obliquo, paga, scarica l’altra App, paga, aspetta che ti chiamiamo noi, paga e, visto che ti serve, prega!

Non ho capito…

Sei stupida?

No, scusate. Tutto chiarissimo.

Hai pagato?

Sì.

Allora aspetta col telefono in mano che ti chiamiamo noi per fare il riconoscimento.

Cioè?

Per verificare che tu sia effettivamente tu.

Ah.

Eh.

Mi pare improbabile che qualcuno paghi al posto mio tutto ‘sto casino, però, vabbè. C’è un altro modo?

Puoi andare allo sportello, a settanta chilometri da te.

Comodissimo…

Oppure alla Posta.

E fare a botte coi vecchietti in fila dal giorno prima?? No, grazie.

Allora aspetta la videochat.

Drin. Drin.

Salve. Lei è effettivamente lei?

Credo di sì.

Mi mostri un documento.

Ecco.

Non si vede nulla.

Così?

No, guardi c’è poco campo. Aspetti che la chiami un collega che io non vedo.

Ma no, che asp-

Tututututu.

(bestemmie diffuse)

Drin drin.

Salve.

Salve.

Lei, è proprio lei?

A ‘sto punto, boh. Mi state facendo venire i dubbi.

Mi mostri un documento.

Ne avete seicento copie…

MI MOSTRI UN DOCUMENTO!

Prego.

È peggiorata.

Scusi??

Non la sento molto.

Quando dovete rompere il ca per pubblicità, ci sentite sempre.

Che ha detto?

Nulla.

Non si vede bene, si potrebbe mettere a cavalcioni di un’antenna?

Certo, provvedo subito.

Meglio, ora. Sì, lei pare proprio lei.

Meno male.

E lei è titolare della BB SRL?

Ovvio, altrimenti perché avrei voluto fare tutta ‘sta caciara??

A posto. Ma ha pagato?

Certo, sennò coll’antenna che mi chiamavate…

Ok, allora attenda qualche giorno e controlli sul sito l’avanzamento della pratica e inserisca la password e ricambia la password e fai una giravolta, falla un’altra volta. E, soprattutto, preghi.

Perfetto.

Stato avanzamento pratica: risultano incongruenze.

Che??

Mi perdoni, sul sito mi dice questo, che vuol dire?

Che ci sono incongruenze.

Ah, perfetto, ora è chiarissimo.

Anfatti.

Scusi, di grazia, quali potrebbero essere, dal momento che avete documenti, visure, codici fiscali, misura delle scarpe e dell’intimo, risonanze dei lobi, mi avete fatto scaricare quattordici App per accedere e acclarare che io fossi proprio io, quali caspiterina di incongruenze potrebbero esservi?

Ah, boh.

Bene.

Potrebbe gentilmente segnalare che la documentazione è a posto, il riconoscimento pure e, quindi, gradirei l’attivazione di un servizio che ho già profumatamente pagato?

Uhmmm… Vabbè, giusto perché me stai simpatica.

Pensa se ve stavo sul ca…

Che?

Nulla.

*** Sette giorni dopo ***

Complimenti! La tua SPID aziendale è attiva!

Oddio, finalmente, mi serviva proprio.

Ora posso risolvermi un bel po’ di problemi.

Proviamo a fare l’accesso.

Questo sito non accetta le SPID aziendali.

EH?

Ah!

Ma se la posizione è aziendale perché non accetta la SPID aziendale??

Gnegnegne!

Devi fare quella personale.

Che?

Sei stupida?

Ma che vuol dire? E adesso con la SPID aziendale che ci faccio?

Vuoi davvero che ti risponda a questa domanda?

No, è chiaro.

Brava.

Salve, dovrei fare la SPID personale.

Paga, compila il modulo, paga, scarica l’App, paga, carica tutti i documenti e le foto di sguincio e d’obliquo, paga, scarica l’altra App, paga, aspetta che ti chiamiamo noi, paga e, visto che ti serve, prega!

Sì, ma le abbiamo già fatte queste cose, non si potrebbe saltare questo passaggio, dal momento che avete tutti i documenti e già appurato che io sono io, con la App, la chiamata, il riconoscimento e BlaBlaBla? Oh, l’avete fatto voi! E il rilascio della SPID attesta chiaramente che sapete che io sono io!

Ma chi sei? Chi ti conosce?

Quindi devo ricominciare tutto daccapo?

Certo. Se no il divertimento dov’è?

Ma io ve odio!

Gnegnegne!

(bestemmie diffuse)

Mi vado a mettere accanto al telefono…

*** Sette giorni dopo ***

Complimenti! La tua SPID personale è attiva!

Accediamo.

Ok, perfetto.

Finiamo la pratica e…

Per proseguire, ti serve la firma digitale.

Ma è uno scherzo?

Avoja, comincia a ride.

(bestemmie diffuse)

Salve, dovrei fare la firma digitale.

Paga, compila il modulo, paga, scar-

NO!

Non lo faccio! Sapete chi sono, avete ben due SPID che lo attestano, di cui una inutile. Adesso mi fate il favore e mi attivate ‘sta cosa così io posso lavorare.

No, è la procedura.

Sapete che ci potete fare con la procedura??

Quello che ci fai tu con la SPID aziendale??

Esatto.

Gnegnegne!

Ah sì? E io mi trovo un altro provider più intelligente che me la rilascia con la SPID, sapendo che significa che io sono io.

Buona ricerca!

‘fanculo!

Ma, in tutto questo, hai pagato?

 

Salve, dovrei fare la firma digitale con la SPID.

Non c’è problema, sappiamo già chi sei, sarà semplice, devi solo pagare!

Ottimo! Che bello! Quant’è?

Mezzo rene e una cornea.

Eh?

…oppure puoi ricominciare la procedura daccapo. O attendere il fregnetto per posta che impiegherà circa un movimento di rivoluzione terrestre per arrivare, o recarti presso lo sport-

No, per carità, pago.

Bene.

Vabbè, almeno tutti questi costi alla fine me li scarico.

No, non si può!

E perché??

Perché sono intestati a te, mica alla società!

Che c’entra? Servono alla società! Intestati alla società non me li prendevano! Sono stata costretta!

E a noi che ce frega?

Bene.

Un’ultima cosa, perché forse non hai ancora ben chiaro il tutto…

Dimmi.

Suca!

 

No, ma fatevela la Partita Iva. È uno spasso.

 

SCENE DA UN COLLOQUIO DI LAVORO

Non mi capitava da anni di fare un colloquio di lavoro, un concorso, una selezione. Di essere dalla parte dei “giudicati”, di sperare di essere scelta tra tanti candidati. Fatta eccezione per il piano sentimentale, ovvio.

Mi ero già stupita che non ci fosse un limite di età nel bando; di aver superato senza difficoltà la preselezione in inglese; di essere convocata nemmeno una settimana dopo per il test scritto e colloquio vero e proprio.

Possibile sia così facile?

Mi volevano.

Poi è arrivato il fatidico giorno, quello che ho ribattezzato il “MiSonoAmmazzataDalleRisateDay”.

Sveglia alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette, pronta!

Mi sono avviata in una non meglio specificata zona nei pressi di Tor Bella Monaca, fior fiore della Capitale.

Ritengo da sempre che chi non ha mai guidato a Roma, non sa fino in fondo cosa voglia dire guidare: la precedenza è di chi se la prende; ti sorpassano a sinistra, destra e – a volte – anche sotto e sopra; si può parcheggiare OVUNQUE, tranne che sulle strisce pedonali. A quelle teniamo parecchio. Il clacson è abusato e pure il “Mortacci Tua!” è un segnalatore acustico molto in voga.

Questo vuol dire che siamo tutti sempre abbastanza attenti, e – soprattutto – che ci concediamo quasi tutto, visto che lo facciamo pure noi. Non ci stupiamo, insomma.

Fa’ un po’ come cazzo te pare! È la prima norma del nostro codice della strada.

Quindi, in una strada a due corsie, vedendo un bus fermo sulla destra per la salita e discesa dei passeggeri, è normale che si sorpassi. Anzi, è obbligatorio!

Questo dovevo fare, notando che avevo un Mezzo SUV che sopraggiungeva nella corsia di sinistra che sarei andata a occupare.

Il mezzo SUV è quello “Vorrei, ma non posso” non è un SUV cazzuto vero, che non ti puoi permettere, ma quello che riesci a rimediare volendo a tutti i costi una macchina imponente.

È come una mansarda che vuoi spacciare per attico.

Quando vedo i SUV, penso sempre a quella leggenda metropolitana compensatoria che vuole che maggiore sia la dimensione della macchina, minore sia la grandezza… Vabbè, avete capito. E quindi un po’ mi fanno pena, porelli.

Il bus accostato impegnava mezza carreggiata, neanche tutta.

Stimando che quello dietro fosse abbastanza distante e andasse a una velocità moderata tanto da non creargli problemi, ho messo la freccia e sono passata. Superato l’autobus, sono rientrata. Avrò sbordato una cinquantina di centimetri, tempo della manovra pari a un paio di secondi.

Avevo già da tempo terminato lo spostamento, quando il guidatore del mezzo SUV ha iniziato a suonarmi e a lampeggiare.

Manco gli avessi tagliato la strada a centotrenta all’ora, manco – viceversa – mi fossi piazzata dinnanzi a lui a quaranta, costringendolo a inchiodare, manco gli avessi esplicitato quale mestiere esercitassero le sue parenti prossime, di sesso femminile.

Reazione lievemente esagerata.

Mi sono svegliata alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette e tu mi provochi? No, dai.

Sicché ho reputato opportuno iniziare a gesticolare dallo specchietto, dapprima chiedendogli esattamente quale pene, nello specifico, desiderasse e poi gli ho indicato precisamente dove recarsi.

Perché Torbella è così. Ti entra subito dentro, ti adegui.

Un classico: mi si è affiancato, inveendomi contro.

Come spesso faccio, ho replicato tirandogli baci. Li spiazzo sempre.

Rettifico: non siamo poi così tolleranti. Ma giuro che non me lo meritavo.

Peripezie stradali incluse, arrivo nel luogo del colloquio, notando già una discreta folla ad attendere sebbene fossi mezzora in anticipo.

Circa un’ottantina di candidati, atmosfera abbastanza rilassata e amichevole, nonostante fossimo tutti in competizione. Ghiotta occasione per me di osservare – come sempre – l’umanità.

E, per fortuna, non ero la più vecchia.

Non sapevamo che il colloquio sarebbe stato condotto esclusivamente in inglese.

Dall’accoglienza, la registrazione, l’esibizione dei documenti, l’illustrazione del futuro lavoro e – infine – la somministrazione del test, anch’esso in inglese.

La sala conferenze era abbastanza grande, un ampio tavolo al centro, proiettore alle sue spalle, una platea composta da due blocchi di diverse file di poltrone dirimpetto.

Entrando, il blocco sulla destra era quasi tutto occupato, tranne le prime file perché nessuno ha l’ardire di mettersi nei “primi banchi”, come a scuola.

In quello di sinistra, una sola ragazza piazzata in mezzo.

«Che coraggio!» ho pensato «col cavolo che io mi sarei messa lì esposta, da sola»

E con gli occhi le ho domandato perché stesse in disparte, lei mi ha sorriso.

Mi sono scelta un posto sul corridoio delle ultime file e mi sono accomodata.

Poco dopo mi si è affiancata una ragazza chiedendomi di farla passare.

In inglese.

Una squinzietta supponente, pure per sedersi, ha scomodato la lingua albionica per sfoggiare conoscenza.

Infine mi ha ringraziato.

Pensavo scherzasse.

Ho sorriso, io.

Quanto sono ingenua.

Era proprio convinta.

L’anima di Torbella ha risposto mentalmente per me:

«Te chiamerai Addolorata Concetta Qualcosa, verrai da un paesino tipo Vermiglione sul Tevere ma abbarbicato sul Soratte, e fai così la Splendida? Anche meno, ragazza, anche meno».

Invece, verbalmente, le ho regalato il mio più convinto, quanto fintissimo:

«You are welcome!»

Un’ora di presentazione e mezzora di test dopo, eravamo tutti fuori a goderci il sole e quattro chiacchiere, in attesa di conoscere i risultati dello scritto.

Addolorata Concetta Qualcosa in disparte, che non rivolgeva parola a persona alcuna.

Io sempre occupata a studiarmi la ricca e variegata fauna antropologica che quella giornata mi offriva.

Quelle ore in qualche modo dovevo farle passare!

C’erano quelli arrivati abbondantemente in ritardo che, voglio dire, non palesavano una grossissima affidabilità e professionalità.

Quelli che si vantavano di essere riusciti a sbirciare “Google Translate” durante lo scritto (immagino sia stato utilissimo…)

Quelli corrosi dall’attesa:

«Oddioc’honansiaaa!»

«Perché?»

«Come perché??»

«Vabbè, che te “ansi” a fa??»

Mentre tutti elogiavamo il mio essere così tranquilla e continuare a sorridere.

Il primo fattore credo sia un mix tra la propria indole e un bel po’ di vissuto: no, non mi sconvolgo per queste cose, non più. Anzi, a dire il vero, non mi sconvolge e turba quasi più niente e – a volte – lo vorrei tanto…

Non so se sia una perdita o una conquista. Devo ancora deciderlo.

Sulla risata a oltranza, se solo la gente avesse accesso alla mia mente, capirebbe perché rido di continuo…

Quel giorno, hanno contribuito al mio buonumore gli outfit improbabili degli altri candidati.

Nonostante nella mail di conferma ci fosse stato ribadito il dress code abbastanza rigido – o comunque appropriato a un ambiente di lavoro formale – da adottare per quel giorno, alcuni hanno sfoggiato creazioni degne di Carnevale.

Per esempio Lui: jeans (dei quali era stato fatto specifico divieto nella predetta scrittura); scarpa da ginnastica sporca e sformata; camicia fuori dai pantaloni che sottolineava un grembo di circa sette mesi; giacca della tuta BLUETTE con le strisce bianche.

Abbiamo un vincitore.

Kavolo cuanto sei trasgry a fregartene così della regola sull’abbigliamento! Da grande vorrei essere come te!

Se volete facciamo mezzora di manfrina sull’abito che non fa il monaco e altri modi di dire sui generis. Però, è altresì innegabile che certi luoghi di lavoro impongono un determinato abbigliamento. Altri (ed era questo il caso) prevedono anche una divisa. E, soprattutto, se è stato richiesto espressamente un dato dress code, non mi pare questa gran furbata fregarsene, visto che chi ti guarda è la stessa persona che deciderà se assumerti o meno.

La prima impressione, in questi casi, è quella che conta. Non possiamo farci granché. Un reclutatore non ha il tempo di scoprire quello che si cela dietro quelle scarpe che invocano pietà, il trucco sbavato o la camicia stropicciata. Possiamo non essere d’accordo, ma è così.

La mia Prof di Italiano ci ripeteva ossessivamente:

«L’ordine esteriore riflette l’ordine interiore!»

Quando mi vesto, penso sempre a lei e a quanto avesse ragione.

A quanto, in effetti, nei periodi di furioso caos nella mia testa e nella mia vita, io peschi roba a caso dall’armadio e l’accozzi alla bene e meglio.

Viceversa, quando sono serena, riesca e goda perfino nell’abbinare la mutanda che nessuno vede al vestito.

LO FACCIO PER ME.

Mi piace, mi fa sentire meglio e in pace.

Per questo rompo le scatole a chi inizia a trascurarsi, abbrutirsi, non tenerci più.

Non si deve fare.

Perché? Quando basta così poco per sentirsi a posto.

Quel giorno ho visto gente coi capelli unti e il mollettone.

Vestiti come ti pare, ma almeno lavati, cazzo!

Scelte sbagliate che non valorizzavano la persona, errori basilari che Enzo Miccio vi fulminerebbe all’istante, tipo la calza nera col sandalo. Questa s’è messa IL SANDALO GIOIELLO E LA CALZA NERA, DIO DEL BUONGUSTOOO!! Ti prego, se ci sei scendi e vieni a punire questa peccatrice!!

Convincendomi che se non mi fosse andata bene quel giorno, potevo sempre riciclarmi come “Consulente d’immagine”. C’è bisogno di bellezza nel mondo. #nosciatteria, lo dico sempre!

Proprio mentre stavo per iniziare a prendere sotto braccio qualcuno per riportarlo sulla retta via, ci hanno annunciato che erano arrivati i risultati.

Due erano quelli che ci avrebbero fatto il colloquio successivo: “Il figo atomico” e “Quello che faceva più paura” e che si capiva poco quando parlava. (Doveroso messaggio all’amica “Almeno un reclutatore è figo, la prossima volta devi venire”).

“Quello che faceva più paura”, test alla mano, ha invitato coloro che venivano chiamati ad accomodarsi nella sala conferenze.

Mentre vedevo sfilare uno ad uno i miei colleghi scelti, che udivano esclamare il proprio nome – Addolorata Concetta Qualcosa inclusa – esultavano e si accomodavano – mentre a noi veniva chiesto di aspettare – ho realizzato che non ero stata chiamata.

Non sono stata chiamata.

In me si è fatto strada quel senso di mestizia che ci accompagna sempre quando non veniamo scelti, quando restiamo per ultimi, a partire dai giochi a squadre da bambini, passando per i colloqui di lavoro, fino ad arrivare alle relazioni.

Non essere scelti è una merda, diciamolo.

Questo pensavo, quando ho udito la ragazza che era accanto tirare fuori un liberatorio:

«Edddaaajeee!»

«Perché, scusa?»

«Non hai capito? Hanno chiamato dentro quelli che non sono passati!»

«EH??»

«Sì, fanno vedere loro gli errori dello scritto e li congedano»

«Davvero?»

«Ce l’abbiamo fatta!!»

Mi correggo. A volte, non essere scelti è una gran fortuna.

Ah! Ed è sempre la convinzione quella che fotte la gente. (Me dispiace, Addolora’)

Ovviamente, nel colloquio successivo, come sempre nella mia vita mai in discesa, a me è capitato “Quello che faceva più paura”.

Finito il tutto, ho salutato i pochi colleghi rimasti, continuato a sorridere e trascinato i miei esausti tacchi dodici verso la macchina.

Anche il mio di aspetto era da biasimare e non mi sentivo affatto in ordine esteriormente.

Figuriamoci interiormente.

E poi ho incrociato lui:

«Wowww… Ti posso offrire un caffè?»

Dopo dieci ore sui trampoli, il sonno, una mezza febbretta che non mi abbandona da più di un mese, uno sfogo cutaneo dovuto allo stress (sì, sto messa benissimo) be’, la mia autostima l’ha amato.

Quindi, non mi sono sentita di replicargli un secco: «No».

Non lo meritava.

Meritava maggiore gentilezza.

In perfetta linea con la giornata, ho sorriso e replicato un dolce:

«Le faremo sapere!»