SCENE DA UN COLLOQUIO DI LAVORO

Non mi capitava da anni di fare un colloquio di lavoro, un concorso, una selezione. Di essere dalla parte dei “giudicati”, di sperare di essere scelta tra tanti candidati. Fatta eccezione per il piano sentimentale, ovvio.

Mi ero già stupita che non ci fosse un limite di età nel bando; di aver superato senza difficoltà la preselezione in inglese; di essere convocata nemmeno una settimana dopo per il test scritto e colloquio vero e proprio.

Possibile sia così facile?

Mi volevano.

Poi è arrivato il fatidico giorno, quello che ho ribattezzato il “MiSonoAmmazzataDalleRisateDay”.

Sveglia alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette, pronta!

Mi sono avviata in una non meglio specificata zona nei pressi di Tor Bella Monaca, fior fiore della Capitale.

Ritengo da sempre che chi non ha mai guidato a Roma, non sa fino in fondo cosa voglia dire guidare: la precedenza è di chi se la prende; ti sorpassano a sinistra, destra e – a volte – anche sotto e sopra; si può parcheggiare OVUNQUE, tranne che sulle strisce pedonali. A quelle teniamo parecchio. Il clacson è abusato e pure il “Mortacci Tua!” è un segnalatore acustico molto in voga.

Questo vuol dire che siamo tutti sempre abbastanza attenti, e – soprattutto – che ci concediamo quasi tutto, visto che lo facciamo pure noi. Non ci stupiamo, insomma.

Fa’ un po’ come cazzo te pare! È la prima norma del nostro codice della strada.

Quindi, in una strada a due corsie, vedendo un bus fermo sulla destra per la salita e discesa dei passeggeri, è normale che si sorpassi. Anzi, è obbligatorio!

Questo dovevo fare, notando che avevo un Mezzo SUV che sopraggiungeva nella corsia di sinistra che sarei andata a occupare.

Il mezzo SUV è quello “Vorrei, ma non posso” non è un SUV cazzuto vero, che non ti puoi permettere, ma quello che riesci a rimediare volendo a tutti i costi una macchina imponente.

È come una mansarda che vuoi spacciare per attico.

Quando vedo i SUV, penso sempre a quella leggenda metropolitana compensatoria che vuole che maggiore sia la dimensione della macchina, minore sia la grandezza… Vabbè, avete capito. E quindi un po’ mi fanno pena, porelli.

Il bus accostato impegnava mezza carreggiata, neanche tutta.

Stimando che quello dietro fosse abbastanza distante e andasse a una velocità moderata tanto da non creargli problemi, ho messo la freccia e sono passata. Superato l’autobus, sono rientrata. Avrò sbordato una cinquantina di centimetri, tempo della manovra pari a un paio di secondi.

Avevo già da tempo terminato lo spostamento, quando il guidatore del mezzo SUV ha iniziato a suonarmi e a lampeggiare.

Manco gli avessi tagliato la strada a centotrenta all’ora, manco – viceversa – mi fossi piazzata dinnanzi a lui a quaranta, costringendolo a inchiodare, manco gli avessi esplicitato quale mestiere esercitassero le sue parenti prossime, di sesso femminile.

Reazione lievemente esagerata.

Mi sono svegliata alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette e tu mi provochi? No, dai.

Sicché ho reputato opportuno iniziare a gesticolare dallo specchietto, dapprima chiedendogli esattamente quale pene, nello specifico, desiderasse e poi gli ho indicato precisamente dove recarsi.

Perché Torbella è così. Ti entra subito dentro, ti adegui.

Un classico: mi si è affiancato, inveendomi contro.

Come spesso faccio, ho replicato tirandogli baci. Li spiazzo sempre.

Rettifico: non siamo poi così tolleranti. Ma giuro che non me lo meritavo.

Peripezie stradali incluse, arrivo nel luogo del colloquio, notando già una discreta folla ad attendere sebbene fossi mezzora in anticipo.

Circa un’ottantina di candidati, atmosfera abbastanza rilassata e amichevole, nonostante fossimo tutti in competizione. Ghiotta occasione per me di osservare – come sempre – l’umanità.

E, per fortuna, non ero la più vecchia.

Non sapevamo che il colloquio sarebbe stato condotto esclusivamente in inglese.

Dall’accoglienza, la registrazione, l’esibizione dei documenti, l’illustrazione del futuro lavoro e – infine – la somministrazione del test, anch’esso in inglese.

La sala conferenze era abbastanza grande, un ampio tavolo al centro, proiettore alle sue spalle, una platea composta da due blocchi di diverse file di poltrone dirimpetto.

Entrando, il blocco sulla destra era quasi tutto occupato, tranne le prime file perché nessuno ha l’ardire di mettersi nei “primi banchi”, come a scuola.

In quello di sinistra, una sola ragazza piazzata in mezzo.

«Che coraggio!» ho pensato «col cavolo che io mi sarei messa lì esposta, da sola»

E con gli occhi le ho domandato perché stesse in disparte, lei mi ha sorriso.

Mi sono scelta un posto sul corridoio delle ultime file e mi sono accomodata.

Poco dopo mi si è affiancata una ragazza chiedendomi di farla passare.

In inglese.

Una squinzietta supponente, pure per sedersi, ha scomodato la lingua albionica per sfoggiare conoscenza.

Infine mi ha ringraziato.

Pensavo scherzasse.

Ho sorriso, io.

Quanto sono ingenua.

Era proprio convinta.

L’anima di Torbella ha risposto mentalmente per me:

«Te chiamerai Addolorata Concetta Qualcosa, verrai da un paesino tipo Vermiglione sul Tevere ma abbarbicato sul Soratte, e fai così la Splendida? Anche meno, ragazza, anche meno».

Invece, verbalmente, le ho regalato il mio più convinto, quanto fintissimo:

«You are welcome!»

Un’ora di presentazione e mezzora di test dopo, eravamo tutti fuori a goderci il sole e quattro chiacchiere, in attesa di conoscere i risultati dello scritto.

Addolorata Concetta Qualcosa in disparte, che non rivolgeva parola a persona alcuna.

Io sempre occupata a studiarmi la ricca e variegata fauna antropologica che quella giornata mi offriva.

Quelle ore in qualche modo dovevo farle passare!

C’erano quelli arrivati abbondantemente in ritardo che, voglio dire, non palesavano una grossissima affidabilità e professionalità.

Quelli che si vantavano di essere riusciti a sbirciare “Google Translate” durante lo scritto (immagino sia stato utilissimo…)

Quelli corrosi dall’attesa:

«Oddioc’honansiaaa!»

«Perché?»

«Come perché??»

«Vabbè, che te “ansi” a fa??»

Mentre tutti elogiavamo il mio essere così tranquilla e continuare a sorridere.

Il primo fattore credo sia un mix tra la propria indole e un bel po’ di vissuto: no, non mi sconvolgo per queste cose, non più. Anzi, a dire il vero, non mi sconvolge e turba quasi più niente e – a volte – lo vorrei tanto…

Non so se sia una perdita o una conquista. Devo ancora deciderlo.

Sulla risata a oltranza, se solo la gente avesse accesso alla mia mente, capirebbe perché rido di continuo…

Quel giorno, hanno contribuito al mio buonumore gli outfit improbabili degli altri candidati.

Nonostante nella mail di conferma ci fosse stato ribadito il dress code abbastanza rigido – o comunque appropriato a un ambiente di lavoro formale – da adottare per quel giorno, alcuni hanno sfoggiato creazioni degne di Carnevale.

Per esempio Lui: jeans (dei quali era stato fatto specifico divieto nella predetta scrittura); scarpa da ginnastica sporca e sformata; camicia fuori dai pantaloni che sottolineava un grembo di circa sette mesi; giacca della tuta BLUETTE con le strisce bianche.

Abbiamo un vincitore.

Kavolo cuanto sei trasgry a fregartene così della regola sull’abbigliamento! Da grande vorrei essere come te!

Se volete facciamo mezzora di manfrina sull’abito che non fa il monaco e altri modi di dire sui generis. Però, è altresì innegabile che certi luoghi di lavoro impongono un determinato abbigliamento. Altri (ed era questo il caso) prevedono anche una divisa. E, soprattutto, se è stato richiesto espressamente un dato dress code, non mi pare questa gran furbata fregarsene, visto che chi ti guarda è la stessa persona che deciderà se assumerti o meno.

La prima impressione, in questi casi, è quella che conta. Non possiamo farci granché. Un reclutatore non ha il tempo di scoprire quello che si cela dietro quelle scarpe che invocano pietà, il trucco sbavato o la camicia stropicciata. Possiamo non essere d’accordo, ma è così.

La mia Prof di Italiano ci ripeteva ossessivamente:

«L’ordine esteriore riflette l’ordine interiore!»

Quando mi vesto, penso sempre a lei e a quanto avesse ragione.

A quanto, in effetti, nei periodi di furioso caos nella mia testa e nella mia vita, io peschi roba a caso dall’armadio e l’accozzi alla bene e meglio.

Viceversa, quando sono serena, riesca e goda perfino nell’abbinare la mutanda che nessuno vede al vestito.

LO FACCIO PER ME.

Mi piace, mi fa sentire meglio e in pace.

Per questo rompo le scatole a chi inizia a trascurarsi, abbrutirsi, non tenerci più.

Non si deve fare.

Perché? Quando basta così poco per sentirsi a posto.

Quel giorno ho visto gente coi capelli unti e il mollettone.

Vestiti come ti pare, ma almeno lavati, cazzo!

Scelte sbagliate che non valorizzavano la persona, errori basilari che Enzo Miccio vi fulminerebbe all’istante, tipo la calza nera col sandalo. Questa s’è messa IL SANDALO GIOIELLO E LA CALZA NERA, DIO DEL BUONGUSTOOO!! Ti prego, se ci sei scendi e vieni a punire questa peccatrice!!

Convincendomi che se non mi fosse andata bene quel giorno, potevo sempre riciclarmi come “Consulente d’immagine”. C’è bisogno di bellezza nel mondo. #nosciatteria, lo dico sempre!

Proprio mentre stavo per iniziare a prendere sotto braccio qualcuno per riportarlo sulla retta via, ci hanno annunciato che erano arrivati i risultati.

Due erano quelli che ci avrebbero fatto il colloquio successivo: “Il figo atomico” e “Quello che faceva più paura” e che si capiva poco quando parlava. (Doveroso messaggio all’amica “Almeno un reclutatore è figo, la prossima volta devi venire”).

“Quello che faceva più paura”, test alla mano, ha invitato coloro che venivano chiamati ad accomodarsi nella sala conferenze.

Mentre vedevo sfilare uno ad uno i miei colleghi scelti, che udivano esclamare il proprio nome – Addolorata Concetta Qualcosa inclusa – esultavano e si accomodavano – mentre a noi veniva chiesto di aspettare – ho realizzato che non ero stata chiamata.

Non sono stata chiamata.

In me si è fatto strada quel senso di mestizia che ci accompagna sempre quando non veniamo scelti, quando restiamo per ultimi, a partire dai giochi a squadre da bambini, passando per i colloqui di lavoro, fino ad arrivare alle relazioni.

Non essere scelti è una merda, diciamolo.

Questo pensavo, quando ho udito la ragazza che era accanto tirare fuori un liberatorio:

«Edddaaajeee!»

«Perché, scusa?»

«Non hai capito? Hanno chiamato dentro quelli che non sono passati!»

«EH??»

«Sì, fanno vedere loro gli errori dello scritto e li congedano»

«Davvero?»

«Ce l’abbiamo fatta!!»

Mi correggo. A volte, non essere scelti è una gran fortuna.

Ah! Ed è sempre la convinzione quella che fotte la gente. (Me dispiace, Addolora’)

Ovviamente, nel colloquio successivo, come sempre nella mia vita mai in discesa, a me è capitato “Quello che faceva più paura”.

Finito il tutto, ho salutato i pochi colleghi rimasti, continuato a sorridere e trascinato i miei esausti tacchi dodici verso la macchina.

Anche il mio di aspetto era da biasimare e non mi sentivo affatto in ordine esteriormente.

Figuriamoci interiormente.

E poi ho incrociato lui:

«Wowww… Ti posso offrire un caffè?»

Dopo dieci ore sui trampoli, il sonno, una mezza febbretta che non mi abbandona da più di un mese, uno sfogo cutaneo dovuto allo stress (sì, sto messa benissimo) be’, la mia autostima l’ha amato.

Quindi, non mi sono sentita di replicargli un secco: «No».

Non lo meritava.

Meritava maggiore gentilezza.

In perfetta linea con la giornata, ho sorriso e replicato un dolce:

«Le faremo sapere!»

SORELLANZA & PORACCITUDINE

Mi fanno sorridere quando mi dicono che ce l’ho a morte con gli uomini.

Non è vero.

Sono cresciuta in mezzo agli uomini, sono sempre stata la compagnona e loro amica. Li conosco così a fondo perché li ho frequentati moltissimo e ho accolto le loro confidenze.

Mi sono sempre trovata bene con gli uomini.

Casomai ce l’ho con le donne…

 

 

Anni fa, ero a cena col mio fidanzato dell’epoca e ci stavamo divertendo molto.

Locale intimo, ambiente curato, gente rilassata, buon cibo e risate. Una serata perfetta.

Il nostro idillio fu ben presto interrotto quando, poco distante da noi, una coppia iniziò a litigare in maniera violenta.

In questi casi, si viene pervasi da un certo imbarazzo, una lotta interiore tra il desiderio di intervenire e il pudore che ci spinge a far finta di niente. Noi altri commensali rimanemmo tutti così, sospesi, finché l’uomo iniziò a colpire la donna sul volto. Fortunatamente, intervenne subito il personale di sala che lo condusse fuori.

Lei continuò a piangere e rimase seduta al tavolo, da sola.

Mentre pian, piano nelle altre cene riprendevano i discorsi e l’atmosfera distesa che vi albergavano prima dell’interruzione.

Sono passati anni, ma non ho mai scordato tutta quella scena.

Poco dopo mi alzai per andare in bagno. Tornando, incrociai lo sguardo di quella donna che cercava di concludere la sua cena, come se nulla fosse accaduto. Le abbozzai un sorriso, al quale lei rispose, ricominciando a piangere.

Fu l’istinto a muovermi, perché ricordo che non ci riflettei per nulla, fu un attimo, uno slancio. Mi avvicinai a lei e l’abbracciai. Forte. Lei ne fu così grata che offrì da bere a me e al mio ragazzo, ci invitò a sedersi con lei e noi le regalammo un’oretta di risate in un finale di serata che, altrimenti, non le avrebbe affatto previste.

Avevo circa vent’anni, ma sapevo che, se fosse successo a me, di essere picchiata e umiliata in pubblico e di restare poi da sola, avrei voluto che qualcuno mi avesse abbracciato.

Un’amica, una sorella, magari.

Ero molto pura, ingenua, con una bontà d’animo innata, amplificata dalla giovane età.

Di quella bontà che, scontrandosi con la vita e l’esperienza, inizia ad avvizzire, per poi quasi sparire.

I maschietti di qua, le femminucce di là. Ci dividono, ci raggruppano, a scuola, nei bagni, nei giochi, veniamo cresciuti con un senso di appartenenza di genere ben delineato.

Per questo, da piccola vedevo le altre donne come sorelle da difendere e spalleggiare, custodi comuni della femminilità, delle forme aggraziate, perfino della debolezza e delle paturnie.

Le altre donne sono mie sorelle. Solo loro possono comprendere certe cose, sono il mio confronto, il mio conforto, il mio specchio.

Questo pensavo, sicuramente fino ai vent’anni.

Poi le donne mi hanno delusa.

Si sono trasformate in sorellastre.

Questo legame dato dal genere capii che era un qualcosa che percepivamo in poche.

Le altre… Be’, le altre mi hanno insegnato a evitare l’intera categoria.

Biasimiamo gli uomini, ma non teniamo conto che loro di certe meschinità non sono capaci. Ne siamo coscienti, eccome, ma non lo proclamiamo a voce alta, per paura che qualcuno pensi a noi e ci omologhi come quelle arpie che ha avuto il dispiacere di incontrare.

Ma lo sappiamo, certo che lo sappiamo.

Ci sono sempre piaciuti di più gli insegnanti di sesso maschile; sul lavoro speriamo di interagire con uomini; quando ci presentano una donna abbiamo sempre il timore che possa rivelarsi un’immensa stronza, non è forse vero?

Io stronza lo sono, ma con chi sa meritarselo.

Invece di stronze gratis ne ho incontrate tante: quelle acide, eccessivamente dure senza motivo, abbrutite nei modi e nella parvenze, meschine e snob. Quelle donne che mi fanno rinnegare il mio genere.

Sono molta più prevenuta nei confronti delle donne che degli uomini, lo ammetto. Ma sono sempre ben lieta di ravvisare un cambio di opinione sulle persone, specie se prima era negativo.

Perciò, una volta, fui molto felice di annunciare alle mie amiche che, quella che prima avevamo etichettato come brutta arpia, avendola frequentata un po’ di più, non lo era per niente.

Era cambiata, o l’avevamo giudicata male e frettolosamente, che – sul serio! – non è male, anzi!

Ragazze, ve lo dico, è stata una gran sorpresa.

Ne ero contenta.

Poi il destino volle che ci ritrovammo una sera una mia amica e io, l’ex iena e innumerevoli altre persone.

Fu in quell’occasione che la redenta stronza ebbe la cura di rivelare un mio dettaglio intimo e riservato, davanti a una pletora di una quindicina di persone che – oh mannaggia – avevano tutte sentito, ma certo.

Io guardai qualcuno di questi per coglierne l’espressione: i sorrisi trattenuti e pure lo stupore nell’udire l’esternazione, mi confermarono che su quell’argomento ne erano già stati fatti parecchi di commenti, ovviamente.

Lei mi fissava con un sorriso stolido che si beava della cattiveria gratuita appena regalata.

Anche io le mostrai il mio sorriso, ma di disprezzo.

Quello muto che, però, esprime molto bene i miei sentimenti. Quello che riservo a esemplari di una “poraccitudine” leggendaria. Che non è povertà economica, nemmeno povertà d’animo, quelle spesso sono condizioni involontarie. La poraccitudine è un’altra cosa: è compiacimento della propria grettezza; il provare gusto dalle cattive azioni; godere dei colpi bassi e miserrimi, pochezza estrema, questo è.

Questa qui, fulgidissimo esempio di poraccitudine femminile nei confronti di un’altra donna.

E gratuita, soprattutto.

Perché io questa qui, più di tanto, non l’ho mai coperta – come si dice a Cambridge – e forse questo è il suo grazioso modo di attirare attenzione. Mi fa quasi pena, togliendo il quasi.

Ho sorriso alla mia amica e commentato con un:

«No, rettifico. È sempre una grandissima stronza

Lo è davvero e non mi prenderò più la briga di scoprire se, sotto sotto, riserva anche del buono.

Queste donne qui mi confermano che la solitudine è sempre preferibile a certe compagnie.

Può inoltre capitare, e spesso, che signore che nemmeno conosci impieghino parte del proprio tempo a parlare di te. Rilevo sempre un certo moto di orgoglio e di soddisfazione, apprendendolo, perché io – invece – non me lo sognerei mai di sprecare i miei preziosi minuti per sparlare di illustri sconosciuti. Grazie per l’attenzione, davvero.

Quel che mi ha lasciato abbastanza interdetta è stato il fatto che questa donna (manco ragazzina e discretamente più grande di me) perdesse del tempo della propria vita a commentare i miei outfit. Ovvero di una che non conosce nemmeno il suo nome.

Tanto per completezza di informazioni, prediligo i vestiti perché sono più pratici e “tattici”, conosco il buongusto e, purtroppo, ho una fisicità già appariscente che – quindi – può facilmente scadere nella volgarità, che detesto. Perciò evito gonne inguinali, scollature esagerate e tutto ciò che reputo “troppo”, ma questi sono ragionamenti troppo elevati per le menti piccole.

Nella fattispecie, la signora aveva commentato i miei vestiti invernali, che accompagno a calze coprenti da cento (100!!) den, e stivali. Quindi vi lascio immaginare la quantità di carne che fosse visibile. Zero.

Non scordando di chiedersi perché mai ogni giorni fossi vestita e truccata di tutto punto (Cazzi miei, magari? Svegliati prima e fallo anche tu, tesoro! Io sono sempre per il movimento “No sciatteria!”);

Domandandosi ancora chi mi credevo di essere (seria?! Se una osa non trascurarsi si crede chissà chi, logico);

E, infine, rammentando che non ero una ragazzina e non potevo andare in giro come mi pareva (che autogol clamoroso! Dare della tardona a una che ha vent’anni meno di te! Un giorno facciamo lezione di insulti, dai).

Ah! Ovviamente tutto questo mica l’ha detto a me, figuriamoci! Ma alle mie graziose terga debitamente agghindate.

Neanche ci credevo io a questa cosa dell’invidia, ma – col tempo – mi sono parecchio ricreduta.

 

Mi fanno sorridere quando mi dicono che ce l’ho a morte con gli uomini.

Non è vero.

Sono cresciuta in mezzo agli uomini, sono sempre stata la compagnona e loro amica. Li conosco così a fondo perché li ho frequentati moltissimo e ho accolto le loro confidenze.

Mi sono sempre trovata bene con gli uomini.

Casomai ce l’ho con le donne.

Queste donne qui che sviliscono la categoria, che ci fanno passare tutte per un branco di meschine mestruopatiche.

Quelle che danno voce all’invidia e alla cattiveria gratuite.

Quelle che ti fanno notare a voce alta, tra la folla, se non hai qualcosa a posto.

Quelle che ti squadrano, senza mai complimentarsi.

Quelle in competizione continua con le altre che, spesso, ne sono pure inconsapevoli.

Quelle che devono essere sempre e comunque protagoniste, a discapito di tutto e tutti, che distruggono rapporti pur di non scendere dal loro piedistallo immeritato e auto-costruito.

Quelle perennemente incazzate col mondo, con la puzza sotto il naso che, probabilmente, proviene da loro stesse.

Quelle che hanno dimenticato cosa significhi ridere con gli altri e non degli altri, o che additano come pennuta starnazzante qualsiasi collega d’utero che ha imparato a vivere con leggerezza e che della vostra severità d’animo se ne strafotte, perché le donne intelligenti sanno anche quando sorridere.

Quelle, invece, col sorriso finto più dei miei ventinove anni. Il sorriso rabbonitore atto a ottenere perché loro – oh sì – sono proprio furbe e ammaliatrici! E che malcela un’anima infima che non lesina di vomitare improperi sovente alle spalle di quelli ai quali hanno appena sdoganato gli incisivi.

Quelle che non coltivano amicizie, ma rapporti di convenienza. E scaricano chicchessia, non appena ha asservito al loro scopo.

Queste donne qui, che mi hanno insegnato a evitare l’intera categoria.

A distinguere tra “Amiche” e “Appena conoscenti”.

A vergognarmi di condividere con costoro il genere, la capacità di procreare e quel senso di appartenenza che, ora, è solo un bel ricordo.

A rammentarmi che il mio essere diversa che dapprima vivevo con disagio, oggi mi fa essere davvero fiera di me!

Queste donne qui, che ogni giorno mi ricordano che c’è molto più affetto autentico nei vari «Brutta zoccola!» che ci scambiamo con le mie (poche) amiche, che in tutti i vostri finti «Amore! Tesoro!”»