ABBRACCIAMI FORTE

Non ho vissuto la guerra.

Non avevo memoria di un evento, di qualsiasi tipo, che accumunasse tutti, ma proprio tutti noi, da Nord a Sud, belli e brutti, buoni e infami, virtuosi e peccatori.

E poi arrivasse perfino più in là, oltre il nostro orticello tricolore, che penetrasse con prepotenza in ogni casa sparsa nel globo donandoci la certezza che i sentimenti che albergavano in ciascuno di noi erano (sono…) condivisi da milioni di altre persone. Da tutto l’intero mondo.

Potente, vero?

La prima nozione fondamentale che abbiamo imparato da questa situazione è che NON siamo eterni e anzi parecchio effimeri.

Ok, grattatevi, scongiurate, insultatemi, ma è l’unica certezza della quale veniamo dotati sin dalla nascita.

Ed è curioso che tendiamo sempre a rimuoverla dalla nostra mente.

Poi ci siamo dovuti confrontare con l’utopia dei tempi moderni che si chiama “Non avere tempo”. Rimandiamo a oltranza giustificandoci che non abbiamo abbastanza tempo.

Abbiamo riscoperto lunghe giornate di solitudine da riempire alla meglio, in costante connessione con le nostre più intime riflessioni.

Abbiamo pulito e riordinato.

Ci sono dei cassetti che non apriamo mai: quelli più in disordine, quelli che sappiamo essere un disastro. Li teniamo sempre chiusi perché per sistemarli impiegheremmo davvero tantissimo tempo (che non abbiamo) ed energie.

Io lo faccio anche con i cassetti mentali. Ci sono pensieri e ricordi che sono certa che sono lì, ma ho scelto di ignorarli.

I “Vasi di Pandora” non andrebbero mai scoperchiati. Sappiamo benissimo cosa c’è dentro e soprattutto gli effetti che produrrebbero su di noi. Dei gesti faciliterebbero la loro apertura: posti, persone, canzoni, vecchi messaggi sul telefonino e vecchie mail. Per questo, in genere, evitiamo tutto ciò.

Invece in questi giorni ho coscientemente deciso di pulire tutto, pur sapendo che facendolo avrei aperto qualche cassetto scomodo.

Ho deciso finalmente di affrontare tutto. Di setacciare ogni piccolo e buio anfratto occultato fuori e dentro di me.

Di aprire tutti i vasi nella mia testa e quelli materiali che ristagnavano a prendere spazio, dall’ultimo trasloco di dodici anni fa.

Ho trovato il coraggio di passare in rassegna un’intera vita di scatole, libri, lettere, attestati, targhe, scontrini, manuali, portagioie, ninnoli, vestiti, scarpe, borse, regali, musicassette (MUSICASSETTE…!), vhs, cd, quadri, oggetti di uso comune e dimenticati, istantanee…

Le fotografie non le butto mai. Credo siano il modo migliore di colmare le lacune dei ricordi. Trovo rassicurante sapere che, da qualche parte, vivi in uno scatto in un posto preciso, in un dato momento, in un luogo specifico che magari non rammenti nemmeno.

Nonostante questo, alcune foto (persone) preferisco non contemplarle più e, temendo delle visioni “accidentali”, le ho chiuse tutte in una scatola, sul coperchio ho scritto: «Queste foto non voglio vederle» e l’ho riposta in uno dei famosi cassetti.

Il resto è stato un susseguirsi di emozioni e precise ricostruzioni temporali.

Tutto custodito con una meticolosità maniacale che mi è ben nota ma che riesce sempre a stupirmi.

Tutto accuratamente conservato, catalogato ed etichettato affinché sopravvivesse al passare del tempo.

Tutto legato a vari luoghi, persone, episodi.

«Ma certo non ti ricordi di quella volta?» La Vocina nella mia testa che tutto rammenta e tutto sa.

«Quella volta bellissima con…» E un nome e cognome che non sentivo pronunciare né pronunciavo (volutamente) da tanto tempo.

A prescindere da quello che era successo dopo, in quel momento, in quel preciso momento, ero felice. Ecco. È quell’ero che ha iniziato a stonarmi. Perché conservare ricordini di un attimo di felicità, essendo consapevole di quanto fosse effimera? Conoscendo perfettamente gli avvenimenti successivi che hanno cancellato e insozzato quegli attimi?

Testimonianze piccole e grandi di un passato vissuto appieno, dalle quali non avrei mai potuto separarmi e che invece, oggi, ho eliminato senza sofferenza.

Forse perché si cresce, si cambia, si hanno altri gusti e priorità, o forse perché ho imparato la meravigliosa arte del non-attaccamento.

Ho rimirato ogni singolo biglietto di auguri scritto o ricevuto; inviti; bomboniere; fattura di “quella” cosa comperata per “quella” occasione e, magari, mentre ero in compagnia di “quella” persona.

Diari, innumerevoli, pezzi di carta di fortuna che in quel momento avevano raccolto le mie considerazioni. Tantissimi.

Parole, confidenze, battute, sogni, speranze, strazi, dolori, delusioni, sentimenti, gioie, resoconti.

Ho riconosciuto la mia ossessiva e atavica voglia di fissare pensieri e tormenti. Ne ho letti solo alcuni, ho provato emozioni diverse, paure conosciute, tenerezza.

Il timore di perdere qualche pezzetto di vita, di dimenticare qualcosa, di rammentare concetti fondamentali alla futura me stessa. La voglia di ricordare tutto.

Proprio in questi giorni, non per “caso”, ho letto la differenza tra “dimenticare” e “scordare” che è anche abbastanza lampante, ma non mi ci ero mai soffermata. Dimenticare significa farsi uscire dalla mente; scordare, togliere dal cuore.

Una delle più grandi paure degli esseri umani è quella di essere dimenticati e scordati.

Nessuno di noi vuole incarnare l’inglorioso ruolo della meteora nella vita di qualcun altro. Penso che conservare moniti per la memoria, trattenendo a noi le persone, alimenti la sciocca illusione di non essere noi stessi dimenticati. Come se con quei ricordi mantenessimo un filo invisibile di congiunzione tra noi e loro, in modo da tenerci almeno nei ricordi.

Mi sono guardata intorno: alle pareti ho appese le foto dei miei affetti più cari, quelli che ci saranno sempre, comunque vada. Così mi sento circondata dal loro amore e quello sì, voglio ricordarlo e averlo sotto agli occhi tutti i giorni.

Il passato si lascia andare e si fa spazio al nuovo.

Avevo dei cassetti che non aprivo mai, ora ho un cestino molto grande.

Ho perso il conto dei sacchi di spazzatura che ho riempito e di roba che ho destinato a regali e beneficenza.

Mi sono liberata di tutto quel che è inutile e non necessario. Come è mia abitudine recentemente conquistata in qualsiasi ambito della mia vita.

Lascia andare. Oggetti, luoghi, ricordi, persone…

Abbiamo imparato il “non potere”. Non poter prendere un caffè, andare a cena fuori, passeggiare, lavorare, andare a trovare gli amici, andare in palestra, fare shopping, abbracciarci e fare l’amore.

Non potere.

Te lo proibisco.

Il corollario a tutto questo è che fino a questi giorni abbiamo sempre potuto, ma magari non voluto, o procrastinato.

Abbiamo dato per scontato la nostra libertà e la nostra possibilità di scelta. Abbiamo rimandato sempre convinti che ci fosse un tempo eterno e qualcuno o qualcosa sempre pronti ad aspettarci.

Ci hanno dovuto imporre delle restrizioni per farci capire che non è e non è mai stato così.

Abbiamo esperito nuovi outfit corredati da guanti e mascherine. Ridisegnato il nostro modo di fare acquisti, stando composti in fila e a distanza, vulnerabili, interrogandoci su quanto durerà.

Abbiamo letto e ci siamo informati ma senza capire a fondo. Almeno io. E, in tutto questo, sono sempre affascinata dai soliti detentori della verità assoluta.

Abbiamo riso dell’intera faccenda in tutti i modi. Abbiamo tirato fuori la nostra innata capacità di sdrammatizzare e ironizzare per esorcizzare un mostro che non siamo in grado di controllare in altra maniera.

Sono fiera di questa nostra attitudine, di provare a sorridere anche in momenti davvero poco divertenti. Ho visto dei meme fenomenali, geniali, esilaranti.

Ho riso molto, mentre ero preoccupata come tutti noi.

(poi avete rotto pure un po’ il cazzo su WhatsApp co’ seimilioni di video al minuto, diciamolo).

Sono stati creati dei momenti di coesione nella distanza: canti, balletti, flash-mob. Mi piacerebbe che fossimo uniti per davvero e non solo in questa circostanza. Che questa fratellanza e appartenenza tra sconosciuti provassimo a sentirla realmente tutti i giorni. Ma, a dire il vero, ci credo poco.

Ci hanno privati della possibilità di toccarci e vederci per farci capire quanto la nostra dimensione umana si esplichi attraverso tutti e cinque i nostri sensi.

Di quanto nei rapporti sia necessaria l’estensione fisica.

Le persone che amo, amo toccarle, sentirle con naso e le orecchie, rimirarle, coccolarle, ascoltarle, vederle ridere.

Tutte meraviglie degli umani esseri che, in alcuni casi, abbiamo demandato alle emoticon illudendoci che sia lo stesso.

Ho ricevuto messaggi da gente che sta dall’altro capo del mondo, solo per sapere come andasse.

Ci siamo organizzati con lunghe telefonate e videochiamate, per sincerarci con gli occhi che i vari “Sto bene” scritti corrispondessero a verità.

Ho esperito la bellezza consolatoria degli AperiVideo organizzati per sopperire a quell’esigenza, urgenza, bisogno umano dettato dall’amore di vedere e viversi le persone alle quali si tiene davvero. Seppur costretti dietro a uno schermo.

Ho percepito la vivida mancanza di qualcuno, in maniera quasi insopportabile. Ho derogato ai musi lunghi e incomprensioni per sapere, sentire, sincerarmi. Mi sono chiesta se questi sentimenti fossero autentici o amplificati dalla situazione e non sono riuscita a darmi una risposta.

Sebbene sia parecchio abituata a starmene per conto mio, parlare poco e riflettere molto, ho patito questa condizione di eremi coatti.

Ma, come sempre, alla solitudine non rinuncio per chicchessia…

Sono tornati TUTTI, come era prevedibile.

Mi manca solo il bimbo che all’asilo mi mostrava con fierezza le proprie caccole. Peccato.

Gente che non sentivo perfino da anni (ANNI!).

Occorre fare un distinguo ben preciso da chi ti cerca perché non ha di meglio da fare e chi lo fa perché VUOLE avere tue notizie.

In questo siamo allenati.

Basta chiedersi dove siano collocate queste persone quando va tutto bene.

Indi, dove hai passato i giorni belli, passa pure la quarantena, dài.

In tutto questo, come sempre, abbiamo contato le assenze.

Ora, venuta meno la scusa principe del “non avere tempo” – come se in giorni normali fosse poi ammissibile ma in questi decisamente pleonastica – ci ha ribadito con violenza la differenza tra potere e volere. Tra dire e fare.

Ci ha sbattuto in faccia un elenco di persone per le quali contiamo qualcosa e quelle che – ahimè – vivono benissimo senza di noi.

Ho notato le mancanze. Di quei latori facili di “Ti voglio bene”.

Hanno rimarcato come le azioni abbiano un peso prepotente rispetto alle belle frasi.

Il silenzio è stato una risposta ben precisa a quella domanda che spesso ci poniamo, di come sarebbero certi rapporti se noi non fossimo una parte attiva, propositiva, istigatrice e non recriminante.

Un solo messaggio neanche degnato di una risposta mi basta per qualificare il destinatario e la considerazione che ha di me.

Vale lo stesso per quelle chiamate mai ricevute, perfino quando si era detto di vedersi, cascasse il mondo.

Il mondo non è caduto, ma ci ha isolati e resi più fragili, e quelle telefonate non sono comunque arrivate.

Ma i nostri responsi, sì.

Prego, agire di conseguenza.

Tutto questo non è mai un fatto di orgoglio, ma di amor proprio.

Ci hanno imposto una distanza per salvarci la vita e, spesso, lo facciamo anche noi.

Trattare con distacco.

Allontanarsi.

Erigere un muro.

Credetemi, non è questione di superbia, alterigia, o stronzaggine a prescindere, no. È stanchezza.

Sono davvero stanca di interagire con soggetti intermittenti, ambigui, re delle mezze parole e mezze verità, inconcludenti, millantatori e che non fanno seguire i fatti alle belle parole. Sono stanca di attendere e giustificare e di fingere di non capire.

Sono stanca. Non occorre che dedichi loro ulteriore tempo.

Forse abbiamo finalmente imparato, e spero che non ce ne dimentichiamo, che la felicità risiede nella semplicità.

Di quanto i rapporti umani siano semplici e scanditi da “regole” spontanee dettate dall’importanza che quelle persone rivestono per noi e viceversa.

Alla fine di tutta questa storia, sapremo con esattezza – e spesso ancor di più – che abbiamo un tempo e degli spazi limitati.

Che c’è una notevole differenza tra farlo passare, il tempo, e impiegarlo al meglio.

Che per essere umani degni di questo nome, abbiamo necessità di vedere, sentire, toccare, respirare e assaggiare chi amiamo.

Che ora, mentre scrivo, da sola e lontana da tutti, il solo pensiero di poter sfiorare qualcuno mi fa commuovere.

Non dimentichiamo CHI e COSA ci è mancato. CHI ci è stato vicino. Di CHI e COSA non siamo più disposti a fare a meno. E, magari, diciamoglielo.

Sapremo, infine, chi continuare a tenere a distanza di sicurezza per il nostro bene.

E chi, invece, andare ad abbracciare di corsa, come prima cosa. Appena ne avremo la possibilità.

Abbracciami forte.

Più forte…

PS: Abbiamo pure avuto ulteriore conferma dell’esistenza del Karma. E ce l’ha data Boris Johnson.

ALL BY MYSELF

Stamattina sono stata rimproverata da tre persone diverse. Tre delle persone che ho più care al mondo, per la precisione.

Soltanto perché, nottetempo, ho avuto l’ardire di recarmi al Pronto Soccorso da sola, con l’allerta meteo, il vento, una quantità imprecisata di alberi sparsi per la Capitale e un dolore lancinante che non mi abbandona da giorni.

“Soltanto”, per me.

«Ma che sei matta, mi dovevi chiamare!», per ciascuno di loro.

Sono davvero matta?

Eppure ci ho ragionato.

Ero stata in piedi almeno un’ora, prima di decidermi ad andare.

Avevo pianto, ero esasperata e non ce la facevo più a stare là, inerme e dolorante, ad attendere l’alba un’altra volta.

Quindi, mi sono avviata.

Struccata, con la tuta, il cappuccio della felpa tirato su a coprirmi parzialmente una faccia che tradiva la terza notte consecutiva in bianco.

Sono entrata pronunciando un timido «Buonasera».

Intorno pochissima gente a occupare l’immensa sala d’attesa: una famiglia; una donna sola; un signore che dormiva e russava sdraiato per lungo sulle poltroncine; un ragazzo.

Probabilmente avranno pensato che fossi una sbandata, forse una drogata, e – sicuramente – che fossi molto sola,

visto che così mi sono presentata al Pronto Soccorso, alle tre di notte, pallida come una maschera anticipata di Halloween, intenta a guardarmi i piedi per evitare i loro sguardi.

E mi ci sono sentita, sola. Ma sapevo pure che non avrei potuto fare altrimenti.

Sono poche le persone che chiamerei per un’emergenza, nel cuore della notte. Tre, forse quattro o cinque, non di più. Non so quante ne abbiate voi, non so cosa avreste fatto voi, ma il problema – se così si può chiamare – è che per me non erano contemplate altre opzioni. Visto che ero cosciente e in grado di guidare.

Perché avrei dovuto infliggere un mezzo infarto a qualcuno, chiedendo aiuto a tarda notte, dato che potevo farcela da sola?

Un’ora dopo, ero fuori.

Aveva ricominciato a piovere copiosamente. Un’ambulanza stava lasciando l’ingresso. Mi era parso di aver visto più gente nella sala d’aspetto, infatti.

Pensare che in questo posto avevo giurato che non ci avrei messo mai più piede, eppure…

Complice l’oscurità e la solitudine, molti ricordi mi sono crollati addosso. Tutti insieme.

Mentre rientravo, ripercorrevo tutte le tappe di questo accadimento surreale. Era successo davvero, o stavo sognando?

Ragionavo su come avrei potuto raccontare il tutto ridendoci su. Come sempre. La mia “Ghiandola della Sdrammatizzazione” deve essere iperattiva…

Ad esempio, dell’infermiera molto poco gentile che mi aveva accolta al triage con un:

«Non è che perché tu non dormi, noi qua ti possiamo risolvere i problemi!»

Alla quale avevo risposto solamente: «Se sto qui a quest’ora, con questo tempo, è perché sono disperata. Non credi?»

Pensando: «Non credi che avrei avuto più piacere nel trascorrere le mie ore da insonne dolente sotto il mio bellissimo e caldo piumone, in compagnia di un buon libro o di una maratona di serie tv? Brutta stronza, pure brutta?? Mi dispiace, sei brutta! E sei pure stronza! Probabilmente sei brutta perché sei stronza! Sicuro!»

Contrariata, magari, dal fatto che l’avessi svegliata. Perché, dopo aver atteso almeno un quarto d’ora che qualcuno si facesse vivo, avevo accettato l’esortazione di una signora a bussare alla porta per farmi accogliere.

«Mi spiace, però, sta dormendo…»

«Embè? Aho se stai qua è perché c’hai bisogno! Sta a lavora’, la sveji!»

C’hai ragione, Signo’…

E poi ho riso.

E poi ho considerato quanta pace ci fosse a quell’ora, quanto buio, quanto silenzio, mentre mi godevo la strada tutta per me che percorrevo lentamente, al contrario del solito.

E poi ho pianto.

E poi ho pensato alle due Voci nella testa che, da un po’ di tempo, duellano nella mia mente.

Una mi ripete ossessivamente che devo imparare a fare tutto da sola, a non appoggiarmi a nessuno, “Perché non si sa mai”. Era fiera di me.

L’altra che risponde che il “Non si sa mai” comprende infinite possibilità, anche positive. Era contrariata, a volte mi dice di non preoccuparmi.

Poi mi è tornata alla mente una frase che ho carpito “per caso” proprio in questi giorni. Lei che diceva a lui:

«Posso farcela da sola…»

E lui che, semplicemente, le rispondeva:

«Ma perché, DEVI?»

Che bello.

Ci ho pensato molto e mi è tornata utile in questa giornata.

Perché alla fine, ho concluso che non sono matta, né strana, né Wonder Woman, né asociale, né individualista.

Oggi, in questo momento, adesso, ora, io non so quale delle due voci abbia ragione. Non so cosa accadrà da qui all’immediato futuro.

So solo che adesso, DEVO.

Poi domani, “Non si sa mai”…

 

“C’è una ragione se dicevo che sarei stata felice da sola. Non è perché pensassi che sarei stata felice da sola. Era perché pensavo che se avessi amato un uomo e poi fosse finita, potevo non farcela. È più facile stare da soli: perché se impari che hai bisogno dell’amore, e poi non lo hai, e se ti piace, e ti appoggi ad esso, se fondi la tua vita su di esso e poi… tutto crolla? Potresti sopravvivere a un dolore del genere? Perdere l’amore è come una lesione fisica, è come morire. L’unica differenza però è che la morte è un attimo… e questo, Può andare avanti per sempre”.

Gey’s Anatomy 7×22

 

INTENZIONALMENTE INFELICI

Entrando alla festa, il mio ingresso era stato accolto da Rino Gaetano e una delle mie canzoni preferite.

Il caso, che non è mai a “caso”, aveva voluto così.

Ero contenta, anche se da un po’ di tempo ascoltarla mi faceva pensare a Lui.

Mi rammentava quando l’avevamo cantata insieme, felici, spensierati, in uno di quei momenti perfetti.

«…dammi la mano e torna vicino…»

Ora – invece – rimandava ai ricordi successivi, poco piacevoli, da botta allo stomaco, che mal si addicevano a una serata di bagordi sulla spiaggia.

Che cazzo, però.

Una ci mette tutta la vita a scegliersi le proprie canzoni, la colonna sonora della propria esistenza,  e poi a causa di un ricordo te le mandano di traverso. Arriva un tizio qualsiasi che te le guasta, te le “rovina”, che ti fa storcere il naso quando le ascolti, che ti demolisce l’umore in un attimo.

Non va bene.

Quando l’ho permesso?

Avevo cercato di distogliere la mente dal pensiero di lui, col fiero intento di divertirmi.

Eppure si riaffacciava.

Lui non c’era, ma era lì.

Concentrati su altro, cavolo!
Guardati intorno: sei a un “White Party”. Ci sono centinaia di uomini in camicia bianca, C-A-M-I-C-I-A B-I-A-N-C-A, e tu pensi all’ultimo al quale dovresti pensare!

Credi che lui si stia consumando per te?

Che ci posso fare?

Sono una che pensa, che rimugina, che si fissa.

Sono così.

Mi sono tornate in mente tutte le serate che ero riuscita a rovinarmi da sola con le mie mani o, meglio, coi miei pensieri, a tutte le volte che, con la testa altrove, non mi ero goduta il presente, il posto, la musica e diverse persone.

Che stupida.

Ho sentito un pianoforte, familiare.

Einaudi.

Il MIO Ludovico suonato a una festa sulla spiaggia. Curioso.

Le mie canzoni, il mio stabilimento, la mia estate, la mia festa, perché devo guastarmi tutto questo?

Non poteva essere una serata qualsiasi, passata col muso a rimuginare.

Infatti, la ricorderò come la sera che ho fatto pace col mio ex.

Il mio ex liquore.

Ho bevuto nuovamente il Gin, dopo quindici anni che non lo toccavo.

Se dovessi associare un sapore a tutte le serate passate in discoteca in gioventù, vi accosterei senz’altro quello acre e profumato del Gin Lemon.

Era il mio cocktail preferito, finché una volta mi fece male e non lo toccai più.

Non ho mai riprovato a berlo, mi sono limitata a schivarlo con attenzione, senza concedergli appelli.

Era diventata anche una delle mie battute preferite: «Posso ingurgitare tutto, tranne il Gin!»

Un’etichetta, un paletto, un limite. Uno dei tanti che ci affibbiamo.

Sono così. Punto. Questo lo faccio, quello no. È sempre stato così, perché dovrei cambiare?

Poi se qualcosa mi ha fatto già male una volta, la eviterò sempre.

Ecco il punto.

Invece quella sera, complice il caos e la fretta, ho deciso che avrei potuto dargli un’altra possibilità.

Che magari sarei stata male di nuovo, ma poi sarei sopravvissuta. Come sempre, come tutti.

Invece, non solo non mi ha fatto male, ma mi sono accorta di quanto, nella mia vita, fosse mancato per tre lustri il Gin, a causa dei limiti che ci auto imponiamo. Della paura di farci male di nuovo. Dei ricordi dolorosi passati che condizionano le nostre scelte nel presente. Degli scudi che ergiamo per difesa e di quanto siamo bravi nel farlo.

Potrei tenere dei corsi sul tema: “Manuale di tutela personale – Vol. I, II e III”.

Come è molto più facile passare una serata in disparte, a rimuginare, nel proprio orticello sicuro, piuttosto che buttarsi nella mischia, mettersi in gioco, parlare, scherzare e – orrore, orrore – flirtare e socializzare. Scoprire uno sconosciuto.

La settimana precedente mi era successo qualcosa di simile con lo smalto. Porto il french semplice da sempre, mi conoscono tutti così. Mi sono sempre detta che gli altri colori non mi donassero che non mi piacessero addosso a me e alle mie manone. Così, d’improvviso, ho deciso di osare un rosa pallido e devo dire che mi piace parecchio.

Sono piccolezze, magari. Ma rappresentano un’uscita dagli schemi, dal conosciuto, dai paletti del “Sono fatta così, non posso cambiare”.

Non lo posso fare;

Mi dà fastidio;

Non è da me;

Non ci riesco;

Non lo faccio;

Mi fa male;

Mi fa male pensare;

Mi fa male ascoltare;

Quante di queste frasi pronunciamo?

Quanto è più sicuro nasconderci dietro a esse?

Come se volessimo rimanere attaccati al nostro dolore, alla nostra convinzione, per sicurezza.

Perché non abbiamo il coraggio di (ri)scoprire qualcosa di nuovo.

Esattamente come stavo permettendo a un uomo di rovinarmi la serata e una delle mie canzoni preferite, solo perché avevo scelto di farlo.

E se tutti paletti, i limiti che ci poniamo o i pensieri consolidati che continuiamo a perpetrare, sebbene li riconosciamo come dannosi, non contribuiscano a renderci INTENZIONALMENTE INFELICI?

Se fosse vero?

Se la nostra infelicità dipendesse solo da noi e da pensieri e azioni che scegliamo deliberatamente di compiere, seppur consci di quanto siano dannosi?

O se, al contrario, preferiamo restare immobili, fermi nelle nostre convinzioni, come vigliacchi impauriti?

Se ci ostinassimo a complicarci la vita e focalizzarci su quello che non dovremmo?

Come quando vogliamo a tutti i costi conoscere una verità che sappiamo, per certo, che ci farà del male, o – viceversa – quando fingiamo di ignorare una realtà, mentendo solo a noi stessi.

Sembra facile… Ma se lo fosse davvero?

Se la nostra infelicità fosse una condizione nella quale ci piace crogiolarci?

Se la smettessimo di dare potere a pensieri o persone deleteri?

E se iniziassimo a scardinare tutte le nostre credenze negative, le barriere, i pensieri limitanti, le convinzioni consolidate, per scoprire un mondo nuovo, diverso, che non possiamo neanche lontanamente immaginare?

Che poi, diciamocelo, io mi sono anche parecchio frantumata le ovaie di stare a pensare a gente che non mi pensa o che non me lo dice.

Di ripensare al passato, di rivivere ricordi brutti, di restare ancorata e stazionaria per la paura di agire, di evolvere, di crescere, perfino.

Di continuare a dare importanza a gente davvero poco importante.

Di autoimpormi dei limiti che sono stati creati e alimentati solo da me.

Quindi, perché farlo?

Ho compiuto ben due azioni che mai nella vita avrei pensato di riuscire a fare.

Potrei continuare questa scia di stravolgimenti, compiendo quella che tutti mi stanno suggerendo di fare, ma che continuo a ripetere di non poter riuscire a mettere in pratica: invitare a cena un uomo.

Potrei farlo.

Potremmo cenare insieme, io e te.

E poi brinderemo col Gin, ascoltando Rino , magari con uno smalto rosso.

(vabbè, adesso non esageriamo…)

RICORDI DI FERRAGOSTO…

Non festeggio Ferragosto da non so più quanto tempo. È una delle ansie che, nel corso degli anni, ho voluto perdere. Come il “Che facciamo a Capodanno” e l’uscita del sabato sera a tutti i costi.

Stanotte ho dormito poco, pensavo, ricordavo, mi è salita della malinconia prepotente, di quelle imprevedibili e che ti lasciano senza fiato. 

Nei pochi momenti di assopimento, ho anche sognato cose belle e molto brutte, non so perché, non so come mai e proprio oggi.

E mi sono tornati in mente dei ricordi legati a questo giorno: il posto preso la mattina molto presto, l’odore della carne arrostita e io che dopo pranzo non volevo mai dormire.

Le canoniche tre ore da aspettare prima di fare il bagno, lunghe, interminabili. “Mi bagno solo i piedi” e poi, invece, finivo sempre in acqua, finché qualcuno non mi tirava fuori con forza, con le dita ormai lesse, un’enorme felicità e un urlato “Dài, ancora cinque minuti!”. Allora la felicità era fatta da quello, da quei cinque minuti rosicchiati.

Con la mente ero lì. 

In un posticino della Sicilia a me molto caro, quaranta gradi, un’ombra costruita ad arte, con tutti i miei affetti al proprio posto e al sicuro. 

Appena alzata, ho acceso il telefono e sono stata travolta da una tarantella di auguri (che poi non ho mai capito perché a Ferragosto si facciano gli auguri…) sorrisi, baci, abbracci e brindisi.

Ho risposto a tutti, impegnandomi a dare il meglio di me stessa, mentre il mio umore racconta tutt’altro.

Allora ho pensato che – nonostante tutto – di affetti ne ho parecchi anche oggi. E che, forse, tra di loro e non, qualcuno condivide con me uno stato d’animo che contrasta col goliardismo dei gavettoni.  

Che è giusto – ogni tanto – lasciarsi cullare dalla nostalgia e dai ricordi, rosicchiarsi cinque minuti di riflessioni, riassaporare con la mente momenti vicini e lontani che ci hanno fatto stare bene, e che hanno contribuito a renderci ciò che siamo, per poi tornare all’oggi. Goliardici e gagliardi, come sempre.

Buon Ferragosto così. 😉