Siamo animali sociali con un concetto di “gruppo” ben radicato in noi.
Cresciamo in famiglie, classi, comitive; frequentiamo stadi e i posti più affollati; condividiamo passioni per creare coesione e fratellanza.
La solitudine la patiamo e la evitiamo.
Poi, col tempo, impariamo a conviverci, ad amarla, a ricercarla perfino.
Ci allontaniamo da essa solo se ne vale davvero la pena, se la compagnia corrisponde esattamente a quello che cerchiamo, se è un arricchimento e non un obbligo da soddisfare, né un dovere da onorare, altrimenti evitiamo.
Non tutti, badate, alcuni la solitudine non la tollerano.
Sono quelli che vediamo sempre accompagnati, talvolta anche con soggetti improbabili o che, fino al giorno prima, non avrebbero mai guardato.
Loro lo vivono costantemente, noi soggetti solitari abbiamo delle sporadiche ricadute.
Ma alla fine, tutti, a un certo punto, subiamo quello che io ho chiamato l’effetto “Sally”.
Ovvero l’esigenza di un contatto vero, la necessità di umanità, amore, calore, condivisione. Cediamo alla terribile voglia di ricevere e donare “qualche candida carezza, data per non sentire l’amarezza”.
Ho vissuto per parecchio tempo sotto effetto “Sally”, quando pensavo che una compagnia sbagliata fosse preferibile al nulla; quando soffrivo talmente tanto il mio essere sola, da accontentarmi di quello che mi capitava; quando mi amavo davvero molto poco e ricercavo Amore in chiunque e in ogni dove.
Mi raccontavo che da questa ricerca selvaggia, queste presenze fittizie, questo donare affetto solo per riceverlo in cambio, potessi trarne solo benefici e non avessero controindicazioni.
Invece ho pagato tutto e anche caramente.
Per queste “candide carezze”, per ogni mia distrazione o debolezza mi sono punita io in primis
Pentendomi, recriminandomi, biasimandomi, accusandomi di non essere abbastanza indipendente e immune all’isolamento, di essere debole.
L’ho pagata accorgendomi che, a ogni scelta sbagliata, perdevo un pezzetto di me stessa, tonnellate di fiducia in me e negli altri e che – paradossalmente – appagare a tutti i costi quel disperato bisogno di amore mi stava trasformando in un essere non più capace di provarne.
E poi, ovviamente, l’ho pagata scontrandomi con la realtà, disilludendomi ogni volta, scoprendo come fossero realmente le persone alle quali mi accompagnavo che io avevo così tanto investito di affetto e aspettative.
Ho visto cosa ti può crollare addosso.
Ho capito che è meglio tenersi le carezze, piuttosto che regalarle per colmare un vuoto.
Tanto che ora è davvero molto difficile che le conceda, che mi conceda, che permetta a qualcuno di disturbare l’equilibrio della mia solitudine.
Eppure…
Anche adesso, anche se sono forte, anche se la solitudine è un qualcosa che spesso ricerco, a volte mi lascio sopraffare da questa esigenza di vicinanza.
Decido di essere più indulgente con me stessa.
Di non curarmi di quello che accadrà dopo, di pensare al contingente, di ricercare una soddisfazione subitanea.
Di provare, chissà, perché da qualche parte dovrà pur nascondersi questo decantato Amore, quindi bisogna tentare, anche se poi si paga.
Perché siamo animali sociali, gruppi, famiglie, classi, comitive, coppie.
E ogni tanto, o sempre, sentiamo il bisogno di ricordarcelo.
“Forse davvero ci si deve sentire alla fine un po’ male”
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Questa frase qui, in diverse salse e rivisitazioni, l’ho sentita non so quante volte.
Ogni volta ho pensato frettolosamente che non fosse proprio così e sono andata oltre.
Nell’ultimo periodo mi è stata riproposta, in maniera diretta e non, e mi ci sono soffermata di più.
Ho cominciato a ragionarci davvero, a cercare di capire se e quando ne abbia avuto conferma di veridicità.
Potremmo scomodare la LoA, la psicologia e la sua “profezia che si auto avvera”, ma è tutto molto più semplice:
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Se credi di meritare molto, quello avrai.
Se abbassi l’asticella delle pretese, ti accontenti, ti fai bastare la miseria, quello avrai.
Se ritieni di non essere degno di ciò che vorresti, desideri e ti auspichi, quello otterrai.
Se banchetti con le briciole, anziché ambire a un pasto migliore o preferire il digiuno in assenza di esso, le briciole saranno quel che penserai di meritare. Nulla di più.
Se ti racconti che nessuno mai potrebbe interessarsi a te, nessuno ti farà compagnia.
Se ti barrichi nel castello della tua solitudine, sarai il solo guardiano di te stesso.
Se ritieni accettabile essere una seconda scelta, una riserva, una tantum lo sarai.
Se ti fai bastare un rapporto superficiale, piuttosto che niente, delle limitazioni che contrastano con quel che vuoi davvero, delle etichette quali “solo sesso”, “solo quando non ho di meglio”, “solo quando va a me”, quello sarai.
Ho pensato a tutte le infinite volte in cui mi sono accusata (ed ero pure convinta) di aver sbagliato io ad agire o a comportarmi in una certa maniera.
Quanto mi sia incaponita, abbia giustificato, abbia lasciato correre, pienamente cosciente che NON era quello che volevo.
Quanto mi sia raccontata che le mie esigenze non fossero importanti, fossero dettagli, che il poco fosse comunque meglio di niente.
No, meglio niente!
Piuttosto che qualcosa che tradisca le nostre speranze.
A quanto spesso avessi forzato le cose nel sentire o nel vedere qualcuno, quasi “costringendolo”, quasi supplicandolo, non considerando che ME LO MERITO, eccome, uno non veda l’ora di vedermi, sentirmi, amarmi.
A un certo punto, abbiamo ritenuto che fosse “normale”attendere accanto a un telefono.
Accontentarsi dei ritagli di tempo, orari ben precisi, scampoli di momenti.
Rinunciare ad ambire a un rapporto pulito, semplice, paritario.
Abbiamo addirittura deciso che l’Amore, l’affetto, i sentimenti, fossero un qualcosa di cui dovessimo quasi vergognarci, un impedimento che rovina tutto, emozioni da non rivelare mai che poi – oh – scappa, non mi vuole più, si spaventa.
Non meritiamo TUTTI di essere amati?
Perché rinunciarci?
A tutto questo, a tutto quello che non ci fa stare bene, in pace, felice, occorre dire NO.
Rifiutare tutto quel che sia al di sotto delle nostre aspettative, di come intendiamo i rapporti, di quello che vogliamo ricevere.
Magari coscientemente nessuno si aspetta di essere maltrattato o tradito, che debba essere così una relazione.
Non meritavo le sparizioni.
Non meritavo di essere la seconda scelta o quella di riserva.
Non meritavo di essere lasciata per telefono, senza troppi complimenti.
Tutta questa gente qui, non meritava le mie lacrime, né le mie attenzioni, le cure, l’affetto, l’ostinazione.
Troppe volte abbiamo dato una possibilità a chi offriva miseria, perché – in fondo – era meglio di niente.
Permesso pedissequamente palesi mancanze di rispetto per paura di parlare, o di creare problemi, o porre realmente fine a un rapporto che non dà la reciprocità che dovrebbe.
È doloroso, oh sì, lo è.
Pure i rapporti insoddisfacenti lo sono.
Le delusioni continue.
La fiducia malriposta.
È tutto molto doloroso.
Ma se continuare a sopportarlo o meno, siamo noi a deciderlo.
Siamo noi a sapere se lo “meritiamo” o no.
Forse sono esagerata, le persone sbagliano, non possono essere all’altezza delle mie aspettative…
Ecco. Le aspettative.
Se ti aspetti mediocrità, quello avrai.
Pure in ambito di amicizia, vogliamo davvero che un amico sia colui che ti dà per scontato, che si è talmente abituato alla nostra presenza, da non apprezzarla più?
Se questo è quello che accettiamo, se fondiamo la nostra conoscenza dell’affettività su rapporti disparitari viziati e non appaganti, quello avremo.
Ho sempre pensato che, perdendo una persona, fossi io quella che ci rimetteva di più.
Ultimamente, no.
Ultimamente credo sia veritiero anche il detto “Chi non ti ama, non ti merita”, ovvero non ti capisce, non ti sa apprezzare, non si rendo conto di quello che potrebbe avere.
Quindi, perché dovrei essere io ad agire?
Perché abbiamo rinunciato pure alla cavalleria, alla galanteria, al corteggiamento?
Perché pensiamo di non meritarli più, di dover per forza darsi da fare, patire, subire un rapporto e non sceglierselo deliberatamente?
Meritiamo di essere trattate da DONNE.
Qualcuno me l’ha detto:
«Sei una donna, fatti trattare da tale»
Mentre mi toglieva di mano le valigie che volevo a tutti i costi portare da sola.
Stupita, da quelle piccole attenzioni che non si ricordano nemmeno più, perché cadute nella nostra quotidiana disabitudine.
Abbiamo messo da parte i privilegi che comporta l’essere donna, in nome di una parità di sessi che sottintende una contraddizione implicita.
Ci hanno creati diversi.
SIAMO diversi.
Questa cosa qui dell’indipendenza, dell’autosufficienza del femminismo, dell’emancipazione, l’abbiamo recepita male.
Non significa di certo rinunciare ad esserlo, donne, femmine, con onori e oneri.
E non contrasta per forza con l’autonomia e l’emancipazione.
Abbiamo i nostri “ruoli”, attitudini diverse, palese inferiorità fisica.
Il barattolo riesco pure ad aprirmelo da sola, ma quanto è più bello potertelo chiedere e sapere che dall’altra parte c’è una risposta entusiasta, un qualcuno che non vede l’ora di esserti di aiuto, di fare l’uomo di casa, di prendersi cura di te. Perché meritiamo qualcuno che si prenda cura di noi e dobbiamo permetterglielo.
Allo stesso modo, io ti posso pure invitare a uscire con me, e sicuramente tu mi diresti di sì, ma perché dovrei farlo?
Perché dovrei rinunciare al mio “ruolo” di preda che ha già scelto? Che lascia a lui il piacere della conquista, l’illusione di avercela fatta, mentre invece io ti avevo già puntato da prima che tu ti accorgessi di me, e avevo giurato che saresti stato mio.
Abbiamo permesso a noi stesse di convincerci di non meritare più la cavalleria, la galanteria, il corteggiamento.
Che fossero superati, desueti, non più importanti.
Invece, io me lo merito un cazzo di invito a cena.
Un uomo che non è in grado di alzare un dito per comporre un numero, non merita di certo che io gli faccia alzare altro.
Me la merito una cazzo di telefonata.
Mi merito una grandiosa “botta”, ma anche il prima e il dopo.
Mi merito il mare.
Le domeniche al mare, le passeggiate, il mano nella mano, i giochi, le discussioni, le coccole, i confronti, i salti mortali per riuscire a vedersi, i compromessi, le rinunce, le conquiste, la cura, l’affetto, l’Amore, mi merito TUTTO.
Merito di essere amata liberamente.
Adesso sono sola, è vero, ma non me ne dispiace.
Perché ho ben chiaro quello che finora mi è stato offerto.
E non perdo più tempo, pensieri, parole, opere e omissioni per chi non lo merita.
Non aspetto, non chiedo, non cerco di convincere, non supplico, non abbasso l’asticella.
Meglio niente, che meglio di niente.
Finalmente SO quel che merito io.
E tu, cosa pensi di meritare?
”Io sono un esperto di menefreghismo.
Il segreto è smettere di preoccuparsi per la salute delle chiappe degli altri e cominciare seriamente a pensare a quello che vuoi tu,
a quello che tu meriti e a quello che il mondo ti deve, capito?!”
Stamattina sono stata rimproverata da tre persone diverse. Tre delle persone che ho più care al mondo, per la precisione.
Soltanto perché, nottetempo, ho avuto l’ardire di recarmi al Pronto Soccorso da sola, con l’allerta meteo, il vento, una quantità imprecisata di alberi sparsi per la Capitale e un dolore lancinante che non mi abbandona da giorni.
“Soltanto”, per me.
«Ma che sei matta, mi dovevi chiamare!», per ciascuno di loro.
Sono davvero matta?
Eppure ci ho ragionato.
Ero stata in piedi almeno un’ora, prima di decidermi ad andare.
Avevo pianto, ero esasperata e non ce la facevo più a stare là, inerme e dolorante, ad attendere l’alba un’altra volta.
Quindi, mi sono avviata.
Struccata, con la tuta, il cappuccio della felpa tirato su a coprirmi parzialmente una faccia che tradiva la terza notte consecutiva in bianco.
Sono entrata pronunciando un timido «Buonasera».
Intorno pochissima gente a occupare l’immensa sala d’attesa: una famiglia; una donna sola; un signore che dormiva e russava sdraiato per lungo sulle poltroncine; un ragazzo.
Probabilmente avranno pensato che fossi una sbandata, forse una drogata, e – sicuramente – che fossi molto sola,
visto che così mi sono presentata al Pronto Soccorso, alle tre di notte, pallida come una maschera anticipata di Halloween, intenta a guardarmi i piedi per evitare i loro sguardi.
E mi ci sono sentita, sola. Ma sapevo pure che non avrei potuto fare altrimenti.
Sono poche le persone che chiamerei per un’emergenza, nel cuore della notte. Tre, forse quattro o cinque, non di più. Non so quante ne abbiate voi, non so cosa avreste fatto voi, ma il problema – se così si può chiamare – è che per me non erano contemplate altre opzioni. Visto che ero cosciente e in grado di guidare.
Perché avrei dovuto infliggere un mezzo infarto a qualcuno, chiedendo aiuto a tarda notte, dato che potevo farcela da sola?
Un’ora dopo, ero fuori.
Aveva ricominciato a piovere copiosamente. Un’ambulanza stava lasciando l’ingresso. Mi era parso di aver visto più gente nella sala d’aspetto, infatti.
Pensare che in questo posto avevo giurato che non ci avrei messo mai più piede, eppure…
Complice l’oscurità e la solitudine, molti ricordi mi sono crollati addosso. Tutti insieme.
Mentre rientravo, ripercorrevo tutte le tappe di questo accadimento surreale. Era successo davvero, o stavo sognando?
Ragionavo su come avrei potuto raccontare il tutto ridendoci su. Come sempre. La mia “Ghiandola della Sdrammatizzazione” deve essere iperattiva…
Ad esempio, dell’infermiera molto poco gentile che mi aveva accolta al triage con un:
«Non è che perché tu non dormi, noi qua ti possiamo risolvere i problemi!»
Alla quale avevo risposto solamente: «Se sto qui a quest’ora, con questo tempo, è perché sono disperata. Non credi?»
Pensando: «Non credi che avrei avuto più piacere nel trascorrere le mie ore da insonne dolente sotto il mio bellissimo e caldo piumone, in compagnia di un buon libro o di una maratona di serie tv? Brutta stronza, pure brutta?? Mi dispiace, sei brutta! E sei pure stronza! Probabilmente sei brutta perché sei stronza! Sicuro!»
Contrariata, magari, dal fatto che l’avessi svegliata. Perché, dopo aver atteso almeno un quarto d’ora che qualcuno si facesse vivo, avevo accettato l’esortazione di una signora a bussare alla porta per farmi accogliere.
«Mi spiace, però, sta dormendo…»
«Embè? Aho se stai qua è perché c’hai bisogno! Sta a lavora’, la sveji!»
C’hai ragione, Signo’…
E poi ho riso.
E poi ho considerato quanta pace ci fosse a quell’ora, quanto buio, quanto silenzio, mentre mi godevo la strada tutta per me che percorrevo lentamente, al contrario del solito.
E poi ho pianto.
E poi ho pensato alle due Voci nella testa che, da un po’ di tempo, duellano nella mia mente.
Una mi ripete ossessivamente che devo imparare a fare tutto da sola, a non appoggiarmi a nessuno, “Perché non si sa mai”. Era fiera di me.
L’altra che risponde che il “Non si sa mai” comprende infinite possibilità, anche positive. Era contrariata, a volte mi dice di non preoccuparmi.
Poi mi è tornata alla mente una frase che ho carpito “per caso” proprio in questi giorni. Lei che diceva a lui:
«Posso farcela da sola…»
E lui che, semplicemente, le rispondeva:
«Ma perché, DEVI?»
Che bello.
Ci ho pensato molto e mi è tornata utile in questa giornata.
Perché alla fine, ho concluso che non sono matta, né strana, né Wonder Woman, né asociale, né individualista.
Oggi, in questo momento, adesso, ora, io non so quale delle due voci abbia ragione. Non so cosa accadrà da qui all’immediato futuro.
So solo che adesso, DEVO.
Poi domani, “Non si sa mai”…
“C’è una ragione se dicevo che sarei stata felice da sola. Non è perché pensassi che sarei stata felice da sola. Era perché pensavo che se avessi amato un uomo e poi fosse finita, potevo non farcela. È più facile stare da soli: perché se impari che hai bisogno dell’amore, e poi non lo hai, e se ti piace, e ti appoggi ad esso, se fondi la tua vita su di esso e poi… tutto crolla? Potresti sopravvivere a un dolore del genere? Perdere l’amore è come una lesione fisica, è come morire. L’unica differenza però è che la morte è un attimo… e questo, Può andare avanti per sempre”.
Stanotte è successo un fatto abbastanza curioso.
Me ne stavo beatamente dormendo (e già questo era molto inusuale) quando un suono ha disturbato il mio sonno.
Dapprima ho faticato a capirne la provenienza. Poi mi sono resa conto che era il mio telefono a fare quel casino.
È la sveglia!
Ho fatto appena in tempo a considerare che mi sembrava che la notte fosse passata troppo velocemente per poi capire che no, non stavo ascoltando “L’amour toujours” come ogni mattina, quando mi annuncia che è ora di alzarci.
Mi stanno chiamando.
Cazzo.
Ricevere telefonate di notte, credo sia una di quelle esperienze che facciano infartare chiunque, anche chi ha nervi saldi ed è sano di mente.
Ricevere telefonate di notte quando sei ansiosa e fobica a livelli patologici – come me – rappresenta la manifestazione suprema di tutti gli incubi e le paure che ci portiamo dietro.
In un nanosecondo ho partorito una sequela inimmaginabile di scenari apocalittici che erano accaduti a qualcuno a me caro, tanto da indurlo a chiamarmi nel cuore della notte, conscio che avrei potuto non sopravvivere a questo.
Cazzo, no.
Che è successo?
Ho paura…
Poi un piccolo barlume di lucidità che ancora risiedeva nella mia testa, mi ha fatto notare che non era la canzone che mi comunica che qualcuno mi sta chiamando. Non era la mia storica suoneria “Sweet child o’ mine” (sì, sono coatta e tamarra inside e ne vado anche abbastanza fiera). No.
Ma che cazzo di musica è che non l’ho mai sentita??
Ecco, questo è stato il limpido pensiero successivo.
Avrei potuto scoprirlo solo prendendo in mano quel telefono che – intanto – continuava a strombazzare quel motivetto inconsueto.
Così ho fatto. Con gli occhietti appiccicati, una tachicardia furiosa che mi ballava in petto e madida di sudore.
Ci ho messo un po’ a realizzare, non mi sembrava possibile. Ho creduto anche che stessi sognando perché era molto…strano. Ma la musica era reale, il rincoglionimento da sonno interrotto pure, la mia vescica che stava scoppiando anche. Ma era davvero troppo… strano.
Mentre lo osservavo, tenevo in mano quel telefono con distacco e accortezza, come qualcosa con la quale non ci si vuole sporcare, per paura di rispondere o fare casini.
Finalmente ha cessato di squillare.
Era una videochiamata.
Una cazzo di videochiamata da Messenger.
Una fottuta videochiamata da Messenger da uno che conosco appena e che troverei strano perfino se mi inviasse un messaggio normale.
Vi lascio intuire il mio sobrissimo commento. …mavvafanculova’m’haifattoperdedieciannidevitaaa!!
Manco a dirlo, non ho più dormito.
Ripresa coscienza e conoscenza, ho iniziato ad analizzare quel che era appena accaduto, cercando di entrare nella testa di costui.
Era ubriaco, la prima considerazione.
Non voglio pensare che da sobrio uno possa compiere un tale gesto, no. Dovresti essere deficiente e pure un bel po’.
Sì, era per forza ubriaco.
Be’, da ubriaco chiama me?? Anzi, videochiama??
Oddio non è che pensa che sono una sempre disponibile?? E poi perché la videochiamata?? Che voleva fare?? Oddio non è che pensa che sono una che fa le cosacce per video e a qualsiasi ora?? Ma perché lo pensa?? Oddio ma chi altro lo penserà?? E poi perché?? Oddioddioddiooo…
Vabbè le paranoie è preferibile lasciarle per un altro momento, ora pensiamo solo al resto.
Il tizio in questione – come detto – lo conosco, so chi è, ciao come stai e convenevoli standard quando ci vediamo (una volta per secolo) e finisce lì. Punto.
Recentemente gli ho accettato la richiesta di amicizia e non mi ha nemmeno scritto un saluto, però gli è sembrato più che lecito disturbarmi di notte con una videochiamata. Logico, molto logico.
Ora mettiamoci nei suoi panni: cosa abbia scatenato questa voglia di me non lo so e non voglio saperlo.
Ribadisco che una chiamata di notte (perlopiù a qualcuno con il quale non hai tutta ‘sta confidenza) è figlia dell’alcool. È una di quelle genialate che ti sembrano tali quando hai in circolo più gradi che sangue.
Una videochiamata, poi, richiede una pregressa approvazione per iscritto. Un “Ok, ora puoi farlo”. Che significa che mi sono resa presentabile, truccata, pettinata e pronta per affrontarla. Non si fanno le videochiamate a sorpresa! (se vuoi che venga accettata…)
Se invece fosse stato sobrio?
Se avesse lucidamente deciso che poteva disturbarmi a tutte le ore, anche quelle piccole?? È possibile?
Le opzioni sarebbero state due: o dormivo o ero a spasso.
La prima ipotesi: sto dormendo. Essendo notte, oltretutto di un giorno feriale, è contemplato che io abbia questa bizzarra abitudine di riposare, no? Tu te ne fotti e mi chiami. Quindi mi vai irrimediabilmente sulle palle per le motivazioni sopra descritte, perché sei inopportuno, maleducato e quant’altro.
Seconda ipotesi: sto a spasso. Se sto a spasso è presumibile che sia in compagnia, altrettanto desumibile che mi stia divertendo (altrimenti sarei a casa) quindi come puoi pensare che mi vada di videochiamare con te??
Se fossi con un uomo, come potrei spiegare a costui che mi è oscuro il motivo per cui tu ti senta in diritto di farmi una conferenza notturna?? Sarebbe stato davvero imbarazzante e difficile da giustificare (cazzarola, che illuminazione! A volte effettivamente, le cose NON sono come sembrano!!)
Quindi preferisco pensare che fosse ubriaco.
E per questo non me la sento di biasimarlo e infierire ulteriormente.
È capitato a tutti.
Magari lui non si è formato un’esperienza preventiva tale da impedirgli certe scelleratezze. Una cautela postuma forgiata a suon di figure di merda epocali, da smaltire insieme agli altri postumi, quelli da sbornia.
Magari non ha avuto dei risvegli tragici urlando dei:
«Fammi subito controllare il telefono che mi sa che stanotte ho fatto qualche cazzata!»
Non ha visto gente intorno rendersi ridicola e regalarti dei “Ti amo”, mentre tu rispondevi:
«Certo che mi ami! Poi domattina, quando pubblicherò gli screenshot, mi amerai ancora di più!!»
Non ha avuto amici accanto pronti a sequestrargli il telefono per metterlo al riparo da colossali catastrofi.
Non ha dovuto, né ricevuto, messaggi di scuse nel day after.
Forse non ha ancora superato quel limite che ci ricorda cosa sia la “dignità”.
Magari è successo stanotte.
O magari no.
Rimane il mistero del perché abbia scelto proprio me da importunare, ma penso che continuerò a vivere ignorando queste risposte, perché ho deciso che io non ne darò alcuna a questo suo gesto.
Credo sia più dignitoso per entrambi.
Magari stamattina non gli sembra più quell’ideona di stanotte, magari si sta già mortificando da qualche parte, o magari mi reputa un’immensa cafona per non aver risposto (io, eh??). Tutto ciò non mi interessa.
Mi interessa ricordarvi l’assioma basilare che: O bevi, o guidi, o telefoni.
Ricordatevi questo.
Ricordatelo sempre.
E io mi ricorderò di riprendere la mia sanissima abitudine di staccare la connessione, nottetempo.
Guardo avanti. Le mani poggiate sull’imboccatura della voragine e le gambe penzolanti che giocherellano picchiettando il muretto.
Sono già stata qui.
Blocco le gambe.
Mi fermo.
Guardo dietro, oltre le mie spalle e osservo il nero dell’abisso.
Ciao, ti ricordi di me?
Sono già stata qui.
Perché non torni quaggiù?
Sono stata qui per mesi, nel buio. Quando niente era più importante.
Ora, che faccio?
È un periodaccio.
Annunciato così, senza preamboli.
Mi sono ripetuta che c’entrasse la fine dell’estate. La mia anima leonina e solare la patisce sempre. Ma, no. Non è solo questo.
Si sono accumulati pensieri, preoccupazioni, tutte quelle paranoie (che tanto paranoie non sono) che mi lasciano sveglia di notte a discettare sul senso della vita, l’utilità di certe esperienze, la presenza o assenza di certe persone, la validità di certi rapporti…
Sono stanca.
Esamino i vari aspetti della mia vita:
Qui? Qui schifo.
Qui? Qui merda.
Qui? Qui lascia perdere!
Sì, sicuramente a ben guardare SONO molto FORTUNATA. Ok.
Lo so, ne sono consapevole e quando voglio essere ottimista lo penso e ne prendo coscienza.
Però…
Ecco, ultimamente ci sono dei “però” importanti.
Sono stanca.
Non è da me fare piagnistei.
«Lo sai, non mi lamento mai, però…»
«…però a un certo punto, basta!» ha finito per me la frase, il mio interlocutore.
«Esattamente, basta. A volte è semplicemente troppo»
Sono arrivata al “troppo” al punto di rottura, seduta sul ciglio del baratro che ben conosco.
Mi annoia sentire lamentele, davvero. Del tipo che la gente mi parla, fingo di ricevere una telefonata e mi allontano.
Mi vergogno un po’ di certi sentimenti (neanche tanto) ma, certe volte, quando qualcuno mi rovescia addosso la propria immondizia mentale, vorrei dargli una testata sui denti. Far tacere l’incessante lamentela a oltranza.
C’è gente che credo lo faccia di professione. “Trova ogni giorno nuovi motivi per lamentarti!” gioca anche tu!
Ecco perché detesto lamentarmi, non vorrei mai essere così.
Ma sono stanca.
Ha già cominciato.
È così che inizia, piano piano. Dapprima col prendersi meno cura di sé, piccolezze – forse – ma fondamentali.
Vabbé, i capelli li lavo domani…
Lo smalto può resistere un’altra settimana…
Poi continua alternando la bulimia famelica all’inappetenza. L’accidia più completa all’iperattività.
Cercando di riempire tempo, spazio, pensieri, per non vedere la voragine che si fa sempre più strada e ingoia ogni cosa.
Poi ti suggerisce di non interagire con nessuno, facendoti sentire inadeguata e fuori posto, ovunque.
No, non mi va di uscire…
Meglio chiudere tutto e mettersi al riparo.
Affrettarsi a rispondere degli insulsi “Tutto ok!” se qualcuno ti chiede come stai.
Non parlare, non spiegare, non far entrare, sparire.
Meglio questo stato di apatica atarassia, del dolore.
Meno persone vedi, meno possibilità c’è che tu venga ferito.
Non che ci sia la fila alla mia porta, chiaro.
Chi c’era quando? Nessuno…
E quando? Nessuno.
Ah…
Forse dovrei lasciarmi andare solo un po’, sprofondare appena, cadere quel tanto che basta.
Vieni, dài, vieni giù.
Potrei riposarmi un pochino, ne ho bisogno.
Scendi, vieni qui. Niente più sveglie, niente più doveri, niente più è importante.
Niente, non voglio sentire più niente.
Mi siedo a cavalcioni sul muretto, una gamba fuori e l’altra dentro. Verso il nero profondo.
Poi le posiziono entrambe all’interno. Picchiettando coi talloni la bocca e osservando giù, nel fondo, l’oscurità.
Fai un saltino e scendi, vieni qui.
Sono già stata qui.
Perché non torni quaggiù?
Sono stata qui per mesi, nel buio. Quando niente era più importante.
Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.
Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…
La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.
Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?
Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.
Non sarei dovuta neanche essere lì…
Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.
Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.
Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.
«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»
Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!
Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.
…BB, c’è posto per te!
Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.
In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.
Che ne siamo coscienti o no.
Che lo vogliamo o no.
Come era successo a me.
Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.
E allora…
Metti una Barbie sul Mar Rosso.
Metti una lussuosa barca di 40 metri.
Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.
Metti 20 Sub insieme.
Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.
Isolati.
Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.
E lontana…
In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.
“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.
Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.
Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.
Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.
Mi piace. Cavolo, questo mi piace.
Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.
Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.
Eppure…
Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.
Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.
In tutti i sensi.
“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.
Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.
Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.
Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.
Come… come un’abitudine.
Ora sembrava tutto così lontano…
Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.
Una settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.
Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.
Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…
E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.
Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.
Non va bene neanche sentirsi dire:
«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»
Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?
Ma tutto questo non va bene.
Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.
Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?
Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??
Ma QUANDO è successo?
Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?
La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…
Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.
Non andava bene per niente.
Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.
Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.
Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.
Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.
Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.
E ne sono stata felice.
A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…
Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.
Un’isola tra le isole, ma non più isolata.
A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»
Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.
Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:
“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,
all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.
Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.
Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di “Carpe Diem” ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.
Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.
Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.
Fa parte delle maschere che indossiamo.
Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.
Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.
Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.
Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.
Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità.
Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.
E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.
Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.
La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.
Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.
Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.
Ho sorriso.
Tu non sai chi sono io.
Ho sorriso di nuovo.
Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…
Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.
«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.
Non credo c’entri questo.
Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali…
La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.
È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.
Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.
Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.
In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.
Io ho immaginato la scena più o meno così:
«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»
E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.
Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.
Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.
Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.
Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.
Come quando nessuno ti conosce.
Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.
Magari risiede in questo la differenza.
O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.
Capita.
Perché c’è speranza, Signori.
C’è sempre speranza.
Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.
Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.
Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.
E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.
Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.
Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!
Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.
Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.
Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo. Che culo! (appunto)
Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.
Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.
Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.
Magari imparo davvero.
Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.
C’è speranza Signori.
C’è sempre speranza.
Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.
Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.
Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.
Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.
Ma ne vale la pena.
Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.
Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.
VOLENDO.
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.
John Donne
Ai miei compagni di questo viaggio,
alle picchiate a cinquanta metri,
le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.
Grazie 😉
NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”
[…]
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
[…]
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe.
[…]
“Addio”, disse.
“Addio”, disse la volpe.
“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.
Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.
Se ti dicessero: “Dammi questa cifra e potrai comprare l’Amore”, la sborseresti?
Tutte abbiamo visto il film “The wedding date” in cui lei affitta il super figherrimo per farle da cavaliere in occasione del matrimonio della sorella. E anche per far ingelosire l’Ex, lì presente.
Da quando l’ho visto, ho iniziato a chiedermi se questa pratica fosse diffusa anche da noi.
E chissà se la nuova frontiera dei rapporti sia rappresentata da questo: un Amore a noleggio, senza implicazioni, prendendo solo il meglio. D’altronde – come recita un vecchio adagio – perché comprare tutto il maiale, solo per avere una piccola quantità di carne?
Io mi ritengo una donna media, non di quelle che schioccano le dita e hanno uomini ai loro piedi, né di quelle che forse hanno già bisogno di pagarne uno. Però ammetto di averlo pensato diverse volte che magari una sera mi andava di cenare in un certo posto con un uomo e che magari questa possibilità non c’era. O vedere un dato film, e non mi andava di farlo con un’amica.
Sarebbe bello poter dire a uno – non amico – senza implicazioni, ma mantenendo una certa componente romantica, di farmi da cavaliere.
Oggi, è possibile.
A onor del vero, la “prostituzione” è considerata – per antonomasia – il mestiere più antico del mondo.
Ma se quella femminile è fin troppo sdoganata, l’esistenza e fruizione di quella maschile rimane ben più celata.
Forse a causa di banali tabù sociali che non contemplano che anche le donne possano cercare questo tipo di “intrattenimento”, a qualsiasi livello.
Mentre i bigotti son lì a puntare il solerte ditino, la Compagnia degli Accompagnatori si arricchisce ogni giorno di più. Chiaro sintomo che la domanda c’è, eccome se c’è.
Già dal ‘700, le dame potevano contare sui fidi cicisbei, i loro cavalier serventi, sempre disposti a soddisfare qualsivoglia richiesta della donzella. Qualsiasi.
Oggi c’abbiamo i trombamici, che non ti accompagnano nemmeno a fare la spesa. Che culo, ve’?
Ma cosa cerca una donna da un gigolò?
Cosa se ne fa di un puttano?
Cerca solo qualcuno con il quale andare a cena o – orrore, orrore – va anche oltre perché preferisce la carne al dildo?
Curiosity killed tha cat. Forse, davvero, un giorno la mia curiosità atavica mi ucciderà, oggi invece mi ha condotta al cospetto di un gigolò vero. Perché tutti questi interrogativi li ho rivolti a Michele, Accompagnatore professionista da più di un lustro, sebbene non abbia neanche trent’anni.
Avendo pensato, pure io, molteplici volte di intraprendere l’antico mestiere ho cercato di documentarmi su tutti i fronti per capire bene, da dentro, come si svolga l’escort-lavoro.
Michele e io ci incontriamo in un bar del centro di Roma, davanti a un calice di rosso.
Il vantaggio di condurre interviste vis-à-vis – piuttosto che nelle asettiche risposte di un foglio Word – è che si possono scorgere anche altre risposte, oltre quelle date dalle parole. Nelle inflessioni della voce, nello sguardo, nelle pause. Per chi sa andare oltre, un incontro “dal vivo” rivela molto più delle parole.
Lo svantaggio è che, spesso, si divaghi nei discorsi e non ci si focalizzi sulle domande che avevo diligentemente preparato sul mio bel foglio bianco, da riempire di risposte.
D’impatto Michele è un ragazzo comune. Vedendolo non penseresti mai cosa si cela dietro la sua faccia pulita che non ha niente a che vedere con lo squallore che, per pregiudizio, si presuppone debba coesistere e accompagnare chi fa del sesso il proprio sostentamento.
No, nulla di tutto questo.
Il primo dato allarmante che mi rivela è che– purtroppo – l’85% delle donne vengono tradite.
Quindi, spesso per vendetta, assoldano uno stallone a pagamento per pareggiare i conti.
Oltre questa legittima motivazione, le più disparate: cene; convegni di lavoro; procurare gelosia; far desistere un pretendente inopportuno; guida turistica per Roma; incarnare il finto fidanzato da presentare in famiglia per le lesbiche; evadere dalla routine; coach sessuale.
Soffermiamoci su questo: se alcuni uomini si rivolgono alle prostitute perché con la propria compagna “certe cose” non le fanno; se – sempre questi – trovano inappropriato che la bocca che bacia i propri figli, sia la stessa che commetta atti impuri; se non riescono a vedere la propria donna oltre i confini della dicotomia Santa-Puttana, senza considerare una pletora di vie di mezzo e – su tutti – che una sana libido è alla base di ogni rapporto felice; di contro, abbiamo donne insoddisfatte e sessualmente frustrate che si affidano a un professionista per riuscire finalmente a godere.
Quindi, sostanzialmente, se in giro ci fosse un po’ meno ipocrisia, apertura e complicità, forse ci sarebbero meno tradimenti, da ambo le parti.
Questo spiega anche perché Michele lavori prettamente di giorno, ovvero quando le donne riescono a congedarsi temporaneamente dal sacro vincolo del matrimonio.
Costoro hanno un’età compresa tra i 18 e i 70 anni (complimenti, Signo’! No, non sono ironica…) di tutti i tipi: studentesse, casalinghe, libere professioniste.
Le tariffe partono dai cinquanta euro in poi, a seconda della prestazione e del tempo impiegato.
Chiaramente, in caso di trasferte, si devono aggiungere le spese di viaggio e soggiorno. Idem per le cene.
Tutto è a carico delle clienti.
Nota dolente: non porta la macchina. No, non ci siamo Miche’! Se ti pago per illudermi di avere compagnia, minimo mi devi pure scarrozzare mentre io me ne sto tranquilla sul lato passeggero a lisciarmi i capelli e a fare la faccia sognante.
Migliorare questo servizio, please.
Ma come e perché si diventa gigolò?
In questo caso, grazie al precedente lavoro, Michele ha avuto modo di appurare nello specifico come si sviluppava tale professione, onori e oneri, sponsorizzazione e presenza sui social e sul web.
Formatosi da autodidatta, ha deciso di entrare in affari, sfruttando e sicuro anche dell’interesse che le signore più agée gli manifestavano (ricordiamoci che ha iniziato poco più che ventenne. Potrei essere anche io considerata agée, rispetto a un ventenne…) appagato anche dal piacere personale che ne ricavava, semplicemente relazionandosi con loro.
Quindi perché non farne una professione vera e propria?
Un perfetto Accompagnatore deve curare la propria persona (si presume pure qualsiasi essere umano, ma va be’…) allenarsi con costanza, essere presente in ogni social, sito specifico (con dei costi notevoli), essere colto e preparato e capace di affrontare qualsiasi situazione e “pubblico”.
Perché se è vero che – statisticamente – gli uomini, cerchino nelle escort prettamente sesso, è altresì vero che – viceversa – le donne cerchino maggiormente compagnia. Nel senso più ampio possibile.
Lo Stallone da monta che faccia gridare, quello si rimedia al bar. Gratis.
A volte una donna ha bisogno solamente di una conversazione decente. È stereotipato anche questo, ma inconfutabilmente vero.
Tanto che, talvolta, si sviluppano soltanto relazioni virtuali, surrogato del reale, quel tanto che basta per tappare quel buco che si chiama solitudine.
Michele ha con sé una tracollina, dove – mi spiega – custodisce tutto il necessaire del perfetto gigolò sempre pronto: fazzoletti, preservativi, deodorante, spazzolino…
Così, se per caso arriva all’improvviso una chiavat… ehm… CHIAMATA, può raggiungere la donzella subitamente in ogni dove.
Ovviamente gli ho posto anche la domanda del secolo, uno dei motivi principali per cui sto meditando di compiere il grande salto… sul letto:
«Ma le paghi le tasse?»
«No…»
Ecco, adesso sì che sono convinta!
In realtà, mi spiega che – anni fa – ci fu una proposta di legge che prevedeva un’iscrizione a un cd “Albo ufficiale degli Accompagnatori/trici”, con rilascio di apposito patentino che garantiva la professionalità, regolare partita iva e conseguente regime contributivo. Tutto per la modica cifra di seimila euro da versare a Papà-Stato.
Non se ne fece nulla e tutti siamo ancora in attesa di sviluppi in tal senso.
Sarebbe curioso scoprire cosa succederebbe se fosse “regolarizzata” la professione. Se cambierebbe qualcosa, se ci sarebbe un incremento o una deflazione. Se risulterebbe – così – più semplice e naturale dichiarare che lavoro si svolge nella propria vita.
Perché – udite, udite – la famiglia di Michele non sa di cosa lui si occupi.
«Per non farli preoccupare» dice lui.
Comprensibile, ma un pochino triste.
Per lo stesso motivo, non ha una ragazza, né la prevede. A questo motivo, si aggiungono anche tutti gli scenari poco simpatici che ha visto e ascoltato per lavoro e che non hanno certo contribuito a fargli formare un’immagine felice della vita di coppia. Un ultimo innamoramento – e relativa delusione – che risale addirittura ai tempi dell’asilo. O forse una delle tante scusanti che si dà. Ognuno di noi ne produce in quantità industriale, no?
Scontata, la domanda correlata:
«Ti sei mai innamorato di una tua cliente?»
«È capitato di provare un interesse…»
«E cosa hai fatto?»
«Nulla, lascio andare. Lascio passare il tempo, poi mi scordo. Poi mi passa…»
Molto più frequente, il vecchio cliché incarnato dalla cliente che si innamora del suo perfetto cavaliere.
Come è capitato a tutte noi, si è dovuta beccare il due di picche e – stavolta lei – farsela passare e dimenticare.
La mia curiosità non poteva non porgli la domanda più succulenta:
«Le richieste più strane che ti sono state avanzate?»
Sospiro, sorriso e via…
«La più classica, quella di farlo senza preservativo. In luoghi strani, tipo in Chiesa. Farlo davanti ai figli. Richieste davvero troppo sadomaso o troppo strane. Tipo una che voleva che la osservassi mentre si dilettava nella Coprofagia (a proposito di parafilie, consiglio di leggere QUI)… »
«E tu che hai fatto?»
«Non ho soddisfatto nessuna di queste richieste».
Infine non potevo non chiedermi/gli cosa succede se, ad assoldarti per il sesso, sia una che proprio non ti piace.
Per le donne è più facile, il non gradimento non è visibile. Una donna può essere semplice oggetto passivo e “subire” un amplesso da parte di chi non le piace, per denaro.
Come diceva Karen Walker:
«Oh tu lo farai. Lo farai allo stesso modo in cui qualsiasi altra donna che si rispetti lo fa! Ti sdrai, punti i tacchi verso il cielo e pensi alle borse!»
Per gli uomini è diverso:
«Semplicemente, rifiuto…»
No, il denaro non compra esattamente TUTTO…
Saluto Michele che si rende disponibile a rivederci, qualora avessi ulteriori domande da porgli. Non a pagamento.
Mi avvio verso casa.
In macchina, da sola, ripercorro con la mente tutti i discorsi che abbiamo affrontato. Domande soddisfatte e altre che mi si sono proposte.
Penso che è tardi, non ho per niente sonno e ho fame.
Decido di fermarmi in un ristorante che conosco, vicino casa. Sarei sola, mi è già capitato di cenare da sola, ma lì è diverso, mi conoscono, mi sento come in famiglia, non sarei a disagio lì, a cenare da sola.
Forse…
Ecco, vedi, è indispensabile a volte avere compagnia. Tutto questo sviscerare sulla solitudine, mi ha fatto sentire ancora più sola.
Vado a casa.
Se ti dicessero: “Dammi questa cifra e potrai comprare l’Amore”, la sborseresti?
Una volta uno mi disse: “Pagherei per una notte con te” io risposi, sorridendo:
“Per te, gratis!”
“Non hai capito quello che voglio dire…”
E invece avevo capito. Avevo capito, eccome.
Intendeva che, se data una somma, avesse potuto trascorrere una sera con me, ovvero averne la possibilità, senza gli impedimenti che – in realtà – c’erano, se, d’incanto, una qualsiasi cifra potesse rendere possibile tutto e azzerare i problemi, lui l’avrebbe pagata.
E la pagherei anche io.
Ma questo, ancora non è possibile.
Illudersi di averlo l’Amore, o farlo credere a qualcuno, o evitare di essere l’unica single all’ennesima cerimonia, di essere sola a cena, o al cinema, invece, è possibile.
Forse è vero che i soldi non comprano né la felicità, né l’amore, ma possono aiutare a “comprare” della compagnia per distrarsi un po’ dalla solitudine. E qualsiasi risorsa spesa per noi stessi, materiale e non, è sempre un ottimo investimento.
Ma non posso fare a meno di chiedermi quale delle due solitudini sia quella da lenire.
Se quella di chi paga, o quella di chi si offre.
« Una storia come la mia non andrebbe mai raccontata, perché il mio mondo è tanto proibito quanto fragile, senza i suoi misteri non può sopravvivere. Di certo non ero nata per una vita da geisha, come molte cose nella mia strana vita ci fui trasportata dalla corrente… […] Mia madre diceva sempre che mia sorella Satsu era come il legno, radicata al terreno come un albero sakura. Ma a me diceva che ero come l’acqua: l’acqua si scava la strada attraverso la pietra e, quando è intrappolata, l’acqua si crea un nuovo varco. »
Memorie di una Geisha.
PS: Mie care lettrici, se decidete di contattare Michele, ditegli: “Mi manda BB!” avrete uno sconto. Non male, no? 😉
Avrei potuto ricordare la serata del 03 Giugno 2017 come una delle più squallide della mia vita, invece preferisco pensarvi come quella volta che un tassista sconosciuto mi ha regalato un Chupa Chups, mentre stavo piangendo, per strapparmi un sorriso.
Quella sera, la Juve disputava la finale di Champions, io ignoravo i terribili fatti di Torino e Londra mentre – nel mio piccolo mondo – era la prima volta della stagione in cui indossavo un vestito sbracciato. Calzavo scarpe nuove, borsa coordinata, i capelli sciolti sulle spalle nude, la pelle un poco ambrata, la matita fuxia sulle labbra, ed ero contenta.
Per quei pochi che ignorano da cosa derivi “Barbie Bastarda”, glielo spiego: mi viene spesso detto che sono una Bambola. Trucco e parrucco sempre impeccabili; mani e piedi coordinati e curati; perenne tacco dodici; sorriso; vestitini corti.
Nonostante questo, nonostante qualcuno si affretti a giudicarmi una sgallettata tutta apparenza e mascara, ben presto si accorge di quanto il mio aspetto cozzi col mio carattere crudo e risoluto, forse troppo forte, ma altrettanto fragile.
Non so fingere, parlo poco e – se lo faccio – dico le cose come stanno, totalmente prive di filtri.
Non ho mai lesinato un grandioso Vaffa a chi lo meritasse. Sono una Principessa diversa che ha imparato a salvarsi da sola. Sempre e in ogni circostanza. Che preferisce la solitudine a una finta compagnia, che sa dire “NO”, subendone le conseguenze. E so essere una vera stronza, nell’accezione più ampia possibile, con chi riesce a meritarselo.
Questo a dispetto del pensiero comune che vorrebbe noi fanciulle sempre gentili, debolucce, accondiscendenti e incapaci di stare al mondo da sole senza un pene al proprio fianco e che spesso si annientano per la conquista di questo.
Col cazzo. (appunto…)
Perché, quando si oltrepassa la linea demarcata dal rispetto è doveroso girare il tacco dodici e andarsene sbattendo la porta, dimenticandosi le buone maniere.
Ed è esattamente quello che ho fatto quella sera.
Circa alle 23.30 del 03 Giugno 2017, ero in mezzo alla strada aspettando un taxi che non arrivava. Arrabbiata, delusa, ferita, ma assolutamente certa di stare facendo la cosa più giusta, seppure folle e magari pericolosa.
Non era la prima volta che compivo gesti quasi melodrammatici, in risposta a condotte squallide, ma è l’unico modo che conosco di agire, quando vengo sopraffatta dallo schifo.
Scappo via, lontano, veloce, basta.
Ho iniziato a pensare a colui che mi diceva sempre che ero troppo impulsiva, cocciuta, troppo tosta, ma troppo fragile, a cosa avrebbe pensato vedendomi lì, così.
Alla mia amica che mi aveva suggerito di non andare quella sera; all’ultima volta che ero stata esattamente da quelle parti e con CHI; a quel ragazzo con il quale parlavamo giusto il giorno prima, dello squallore di certi rapporti e di certe persone; alle tante occasioni in cui mi ero ritrovata a fuggire, per mettermi in salvo da queste.
Che nessuna favola contemplava quel che mi era appena capitato e nemmeno il comune buon senso, l’educazione, il RISPETTO che si dovrebbe a qualsiasi essere umano e soprattutto a quelli che ti sono accanto. Che magari aveva ragione chi mi stava dicendo che ero esagerata, ma il senso di disgusto che provavo dissentiva totalmente.
Che in qualche modo sarei riuscita a cavarmela e da sola, anche quella sera, e che forse avrei dimenticato presto quanto mi sentissi profondamente sopraffatta e distrutta.
Che, tra qualche tempo, sarei anche riuscita a raccontare l’accaduto ridendo – come faccio sempre – ricordando quella volta che quello mi aveva fatto, e allora – cazzomene – io ero scappata e correvo come un’invasata sui tacchi, mentre qualcuno dalle macchine ferme al semaforo mi avanzava un: «Aho a bella che te serve aiuto?» pensando che, vista dal di fuori, dovesse essere davvero una scena divertente da rimirare. Ma non da dentro…
Ho iniziato a chiedermi quante umiliazioni si debbano subire finché l’Universo Karmico non decida di ricompensarti con un premio. E, soprattutto, al misterioso motivo che mi poneva sempre dinanzi individui inqualificabili e al fottuto talento che ho nello scovarli. Se fosse colpa mia, se non dovessi crearmi più aspettative, che – sì -l’aspetto da bambolina dà un’idea di me quanto più possibile lontana dalla mia persona.
Che ho sbagliato tutto, ancora, un’altra volta, di nuovo, come sempre…
Circa alle 23.30 del 03 Giugno 2017, In mezzo alla strada, mentre aspettavo il taxi della salvezza che non arrivava – d’improvviso – mi è caduta la maschera e ho iniziato a piangere. Di lacrime troppo spesso contenute che però, prima o poi, devono uscire e sfogare. Di delusioni che si erano riproposte una a una, in un loop di fallimenti sentimentali che sarebbe potuto risultare persino comico, se non fosse stato così dannatamente doloroso. Lacrime ingrossate da speranze svanite, sogni infranti, volti da dimenticare.
Dai soliti, tanti, troppi pensieri che si accalcavano nella mia mente, mentre un copioso e moccioloso pianto rovinava la perfetta riga del mio perfetto eyeliner e io mi sentivo così ridicola e vulnerabile a piangere in mezzo alla strada, sui miei sandali nuovi, aspettando un taxi che non arrivava.
E sola.
Mai sentita più sola di così…
In quel momento è arrivato. Il mio taxi bianco, in luogo del cavallo, che mi avrebbe salvato. Il secondo che mi era stato destinato quella sera, visto che il primo – a quanto pare – non mi aveva trovato. Perché la vita ci pone davanti sempre e solo le persone di cui abbiamo bisogno per imparare, per insegnare o per essere salvati.
Sono entrata pronunciando un debole: «Buonasera» mentre tiravo su col naso. Solo poco dopo, dopo aver parlato della destinazione (che non riuscivo neanche a spiegare) il tassista ha avanzato un discreto: «Tutto bene?»
Sì, adesso sì. Adesso mi sento al sicuro, ce l’ho fatta. Adesso va bene.
Ho risposto un frettoloso:
«Tutto bene» Scoppiando subito a ridere, per quanto le mie parole fossero evidentemente in contrasto col mio aspetto pietoso.
Lui ha iniziato a parlarmi, timidamente, con discrezione, per distrarmi.
Abbiamo conversato del lavoro notturno, delle persone che si incontrano, dei problemi, finché – non ricordo nemmeno a proposito di che – ha tirato fuori un concetto a me molto caro:
«Può essere buio quanto vuoi, ma tanto la Luce – prima o poi – vince. La luce è come l’acqua, si fa sempre strada…»
Vero. Lo penso anch’io. Lo penso da sempre.
Mi parlava per calmarmi, visto che si era accorto che, appena smetteva, io ricominciavo quel pianto soffocato e disperato.
«Ti ho aperto pure il tettino, così puoi guardare le stelle»
Ho fatto cadere indietro la testa e ho ammirato: il cielo della mia Roma era splendido attraverso il vetro.
«Wow allora è proprio una carrozza!»
«Occhio, che è quasi Mezzanotte…»
«La scarpetta però col cavolo che me la perdo! Mi piacciono troppo queste!»
«La vuoi una gomma?»
«No, grazie…»
Pausa. Silenzio.
«Tieni, allora prendi questo»
Ed eccolo lì, il Chupa Chups, il vero protagonista della serata.
Sono scoppiata a ridere e ho ringraziato. L’ho osservato per un po’ e l’ho risposto in borsa.
Mi sono sentita come una bimba da coccolare, viziare. Felice per tutta l’umanità che avevo percepito durante quel breve tragitto e da un gesto così semplice e apparentemente insignificante.
«Che fai, lo conservi?»
«Sì, me lo tengo. Così, ogni volta che lo guarderò, penserò al bel gesto che ho ricevuto da uno sconosciuto, una sera che piangevo»
«Certe volte una piccola cosa fa un’enorme differenza»
«Vero. Nel bene e nel male…»
Pensando a colui che, ormai lontano, avrebbe dovuto trattarmi da Principessa almeno per quella sera e invece aveva confuso la favola.
«Comunque sei molto più bella adesso di quando sei salita. Perché adesso stai sorridendo».
Ed è stato solo merito tuo Parma non-mi-ricordo-il-numero del Radio Taxi 3570 di Roma. Di cuore, GRAZIE. Per avermi salvata e per avermi trattato da Principessa, come meritavo. Come merito sempre.
Dobbiamo essere Principesse indipendenti che si mettono in salvo da sole, però a volte, è davvero bello deporre l’armatura e lasciarsi salvare, curare e consolare.
Io non lo chiedo mai: «Cosa fai a Natale?» o a Capodanno.
Il motivo è abbastanza semplice. Delle persone vicine, conosco perfettamente i programmi, degli altri, no. E non so se voglio saperne qualcosa.
Il periodo delle feste è un periodo strano.
Da bambini, lo amiamo tutti. Non solo perché ci regala due settimane di vacanza dalla scuola, ma – soprattutto – perché, in una notte magica, un Babbo buono ci porta dei doni. Ci svegliamo la mattina e li troviamo lì ad attenderci. Magia!
Addobbiamo le nostre case con alberi e lucine, facciamo il presepe, le strade vengono decorate e diventano tutte più belle. Ci facciamo gli auguri, le famiglie si riuniscono, si mangia tanto e ci sentiamo pervasi da tanto calore umano e fratellanza.
Il periodo delle feste è un periodo strano.
Troppo corto per chi è felice, troppo lungo per chi viene preso dalla malinconia.
Che fai a Natale?
Sì, in famiglia, sì il cenone, sì i regali, però… Però non è più come prima. Però è cambiato tutto. E, durante le feste, questi cambiamenti dolorosi, pesano di più.
C’è la tavolata e ci sono troppe sedie vuote. Alcune sono state riempite con nuovi elementi che prima non esistevano nemmeno, ma quelle vuote, be’ quelle vuote sono quelle che fissiamo di più.
Forse perché a Natale ci si riunisce, forse perché dovremmo essere tutti felici e spensierati, forse perché abbiamo più tempo per pensare, forse perché non siamo presi dagli stress quotidiani, ci fermiamo, e realizziamo quel che ci manca e CHI ci manca. Forse per tutti questi motivi, – a volte – sotto l’Albero, troviamo anche un bel po’ di tristezza, intrisa di spirito natalizio.
E allora non lo chiedo alle persone che conosco appena, cosa facciano a Natale o Capodanno. Perché ho paura che pensino a quelle sedie vuote, o che siano sole, o che nessuno abbia pensato a loro né per un invito, né per un regalo.
Ce ne sono tante di persone sole e credo che, durante le Feste, si sentano tali ancor di più.
A me capita sempre…
Quindi non voglio che ci pensino, perché io ho chiesto loro dei loro programmi natalizi. Non voglio che tentino di giustificarsi se non ne hanno, che si imbarazzino o intristiscano a causa mia e delle mie chiacchiere di intrattenimento.
Non vorrei mai che fossero assaliti dalla malinconia, a causa mia.
In fondo, tra detrattori delle Feste, ci si deve aiutare…
La prossima volta, quando qualcuno vi porrà le tremende domande: «Che fai a Natale? Che fai a Capodanno?» rispondete come me che, anche se non ci crede nessuno, replico sempre con uno schietto: