SCENE DA UN COLLOQUIO DI LAVORO

Non mi capitava da anni di fare un colloquio di lavoro, un concorso, una selezione. Di essere dalla parte dei “giudicati”, di sperare di essere scelta tra tanti candidati. Fatta eccezione per il piano sentimentale, ovvio.

Mi ero già stupita che non ci fosse un limite di età nel bando; di aver superato senza difficoltà la preselezione in inglese; di essere convocata nemmeno una settimana dopo per il test scritto e colloquio vero e proprio.

Possibile sia così facile?

Mi volevano.

Poi è arrivato il fatidico giorno, quello che ho ribattezzato il “MiSonoAmmazzataDalleRisateDay”.

Sveglia alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette, pronta!

Mi sono avviata in una non meglio specificata zona nei pressi di Tor Bella Monaca, fior fiore della Capitale.

Ritengo da sempre che chi non ha mai guidato a Roma, non sa fino in fondo cosa voglia dire guidare: la precedenza è di chi se la prende; ti sorpassano a sinistra, destra e – a volte – anche sotto e sopra; si può parcheggiare OVUNQUE, tranne che sulle strisce pedonali. A quelle teniamo parecchio. Il clacson è abusato e pure il “Mortacci Tua!” è un segnalatore acustico molto in voga.

Questo vuol dire che siamo tutti sempre abbastanza attenti, e – soprattutto – che ci concediamo quasi tutto, visto che lo facciamo pure noi. Non ci stupiamo, insomma.

Fa’ un po’ come cazzo te pare! È la prima norma del nostro codice della strada.

Quindi, in una strada a due corsie, vedendo un bus fermo sulla destra per la salita e discesa dei passeggeri, è normale che si sorpassi. Anzi, è obbligatorio!

Questo dovevo fare, notando che avevo un Mezzo SUV che sopraggiungeva nella corsia di sinistra che sarei andata a occupare.

Il mezzo SUV è quello “Vorrei, ma non posso” non è un SUV cazzuto vero, che non ti puoi permettere, ma quello che riesci a rimediare volendo a tutti i costi una macchina imponente.

È come una mansarda che vuoi spacciare per attico.

Quando vedo i SUV, penso sempre a quella leggenda metropolitana compensatoria che vuole che maggiore sia la dimensione della macchina, minore sia la grandezza… Vabbè, avete capito. E quindi un po’ mi fanno pena, porelli.

Il bus accostato impegnava mezza carreggiata, neanche tutta.

Stimando che quello dietro fosse abbastanza distante e andasse a una velocità moderata tanto da non creargli problemi, ho messo la freccia e sono passata. Superato l’autobus, sono rientrata. Avrò sbordato una cinquantina di centimetri, tempo della manovra pari a un paio di secondi.

Avevo già da tempo terminato lo spostamento, quando il guidatore del mezzo SUV ha iniziato a suonarmi e a lampeggiare.

Manco gli avessi tagliato la strada a centotrenta all’ora, manco – viceversa – mi fossi piazzata dinnanzi a lui a quaranta, costringendolo a inchiodare, manco gli avessi esplicitato quale mestiere esercitassero le sue parenti prossime, di sesso femminile.

Reazione lievemente esagerata.

Mi sono svegliata alle 6 e 30. Doccia, trucco, piastra, calze, gonna, tacchi, camicetta, giacca-che-mi-strizza-le-tette e tu mi provochi? No, dai.

Sicché ho reputato opportuno iniziare a gesticolare dallo specchietto, dapprima chiedendogli esattamente quale pene, nello specifico, desiderasse e poi gli ho indicato precisamente dove recarsi.

Perché Torbella è così. Ti entra subito dentro, ti adegui.

Un classico: mi si è affiancato, inveendomi contro.

Come spesso faccio, ho replicato tirandogli baci. Li spiazzo sempre.

Rettifico: non siamo poi così tolleranti. Ma giuro che non me lo meritavo.

Peripezie stradali incluse, arrivo nel luogo del colloquio, notando già una discreta folla ad attendere sebbene fossi mezzora in anticipo.

Circa un’ottantina di candidati, atmosfera abbastanza rilassata e amichevole, nonostante fossimo tutti in competizione. Ghiotta occasione per me di osservare – come sempre – l’umanità.

E, per fortuna, non ero la più vecchia.

Non sapevamo che il colloquio sarebbe stato condotto esclusivamente in inglese.

Dall’accoglienza, la registrazione, l’esibizione dei documenti, l’illustrazione del futuro lavoro e – infine – la somministrazione del test, anch’esso in inglese.

La sala conferenze era abbastanza grande, un ampio tavolo al centro, proiettore alle sue spalle, una platea composta da due blocchi di diverse file di poltrone dirimpetto.

Entrando, il blocco sulla destra era quasi tutto occupato, tranne le prime file perché nessuno ha l’ardire di mettersi nei “primi banchi”, come a scuola.

In quello di sinistra, una sola ragazza piazzata in mezzo.

«Che coraggio!» ho pensato «col cavolo che io mi sarei messa lì esposta, da sola»

E con gli occhi le ho domandato perché stesse in disparte, lei mi ha sorriso.

Mi sono scelta un posto sul corridoio delle ultime file e mi sono accomodata.

Poco dopo mi si è affiancata una ragazza chiedendomi di farla passare.

In inglese.

Una squinzietta supponente, pure per sedersi, ha scomodato la lingua albionica per sfoggiare conoscenza.

Infine mi ha ringraziato.

Pensavo scherzasse.

Ho sorriso, io.

Quanto sono ingenua.

Era proprio convinta.

L’anima di Torbella ha risposto mentalmente per me:

«Te chiamerai Addolorata Concetta Qualcosa, verrai da un paesino tipo Vermiglione sul Tevere ma abbarbicato sul Soratte, e fai così la Splendida? Anche meno, ragazza, anche meno».

Invece, verbalmente, le ho regalato il mio più convinto, quanto fintissimo:

«You are welcome!»

Un’ora di presentazione e mezzora di test dopo, eravamo tutti fuori a goderci il sole e quattro chiacchiere, in attesa di conoscere i risultati dello scritto.

Addolorata Concetta Qualcosa in disparte, che non rivolgeva parola a persona alcuna.

Io sempre occupata a studiarmi la ricca e variegata fauna antropologica che quella giornata mi offriva.

Quelle ore in qualche modo dovevo farle passare!

C’erano quelli arrivati abbondantemente in ritardo che, voglio dire, non palesavano una grossissima affidabilità e professionalità.

Quelli che si vantavano di essere riusciti a sbirciare “Google Translate” durante lo scritto (immagino sia stato utilissimo…)

Quelli corrosi dall’attesa:

«Oddioc’honansiaaa!»

«Perché?»

«Come perché??»

«Vabbè, che te “ansi” a fa??»

Mentre tutti elogiavamo il mio essere così tranquilla e continuare a sorridere.

Il primo fattore credo sia un mix tra la propria indole e un bel po’ di vissuto: no, non mi sconvolgo per queste cose, non più. Anzi, a dire il vero, non mi sconvolge e turba quasi più niente e – a volte – lo vorrei tanto…

Non so se sia una perdita o una conquista. Devo ancora deciderlo.

Sulla risata a oltranza, se solo la gente avesse accesso alla mia mente, capirebbe perché rido di continuo…

Quel giorno, hanno contribuito al mio buonumore gli outfit improbabili degli altri candidati.

Nonostante nella mail di conferma ci fosse stato ribadito il dress code abbastanza rigido – o comunque appropriato a un ambiente di lavoro formale – da adottare per quel giorno, alcuni hanno sfoggiato creazioni degne di Carnevale.

Per esempio Lui: jeans (dei quali era stato fatto specifico divieto nella predetta scrittura); scarpa da ginnastica sporca e sformata; camicia fuori dai pantaloni che sottolineava un grembo di circa sette mesi; giacca della tuta BLUETTE con le strisce bianche.

Abbiamo un vincitore.

Kavolo cuanto sei trasgry a fregartene così della regola sull’abbigliamento! Da grande vorrei essere come te!

Se volete facciamo mezzora di manfrina sull’abito che non fa il monaco e altri modi di dire sui generis. Però, è altresì innegabile che certi luoghi di lavoro impongono un determinato abbigliamento. Altri (ed era questo il caso) prevedono anche una divisa. E, soprattutto, se è stato richiesto espressamente un dato dress code, non mi pare questa gran furbata fregarsene, visto che chi ti guarda è la stessa persona che deciderà se assumerti o meno.

La prima impressione, in questi casi, è quella che conta. Non possiamo farci granché. Un reclutatore non ha il tempo di scoprire quello che si cela dietro quelle scarpe che invocano pietà, il trucco sbavato o la camicia stropicciata. Possiamo non essere d’accordo, ma è così.

La mia Prof di Italiano ci ripeteva ossessivamente:

«L’ordine esteriore riflette l’ordine interiore!»

Quando mi vesto, penso sempre a lei e a quanto avesse ragione.

A quanto, in effetti, nei periodi di furioso caos nella mia testa e nella mia vita, io peschi roba a caso dall’armadio e l’accozzi alla bene e meglio.

Viceversa, quando sono serena, riesca e goda perfino nell’abbinare la mutanda che nessuno vede al vestito.

LO FACCIO PER ME.

Mi piace, mi fa sentire meglio e in pace.

Per questo rompo le scatole a chi inizia a trascurarsi, abbrutirsi, non tenerci più.

Non si deve fare.

Perché? Quando basta così poco per sentirsi a posto.

Quel giorno ho visto gente coi capelli unti e il mollettone.

Vestiti come ti pare, ma almeno lavati, cazzo!

Scelte sbagliate che non valorizzavano la persona, errori basilari che Enzo Miccio vi fulminerebbe all’istante, tipo la calza nera col sandalo. Questa s’è messa IL SANDALO GIOIELLO E LA CALZA NERA, DIO DEL BUONGUSTOOO!! Ti prego, se ci sei scendi e vieni a punire questa peccatrice!!

Convincendomi che se non mi fosse andata bene quel giorno, potevo sempre riciclarmi come “Consulente d’immagine”. C’è bisogno di bellezza nel mondo. #nosciatteria, lo dico sempre!

Proprio mentre stavo per iniziare a prendere sotto braccio qualcuno per riportarlo sulla retta via, ci hanno annunciato che erano arrivati i risultati.

Due erano quelli che ci avrebbero fatto il colloquio successivo: “Il figo atomico” e “Quello che faceva più paura” e che si capiva poco quando parlava. (Doveroso messaggio all’amica “Almeno un reclutatore è figo, la prossima volta devi venire”).

“Quello che faceva più paura”, test alla mano, ha invitato coloro che venivano chiamati ad accomodarsi nella sala conferenze.

Mentre vedevo sfilare uno ad uno i miei colleghi scelti, che udivano esclamare il proprio nome – Addolorata Concetta Qualcosa inclusa – esultavano e si accomodavano – mentre a noi veniva chiesto di aspettare – ho realizzato che non ero stata chiamata.

Non sono stata chiamata.

In me si è fatto strada quel senso di mestizia che ci accompagna sempre quando non veniamo scelti, quando restiamo per ultimi, a partire dai giochi a squadre da bambini, passando per i colloqui di lavoro, fino ad arrivare alle relazioni.

Non essere scelti è una merda, diciamolo.

Questo pensavo, quando ho udito la ragazza che era accanto tirare fuori un liberatorio:

«Edddaaajeee!»

«Perché, scusa?»

«Non hai capito? Hanno chiamato dentro quelli che non sono passati!»

«EH??»

«Sì, fanno vedere loro gli errori dello scritto e li congedano»

«Davvero?»

«Ce l’abbiamo fatta!!»

Mi correggo. A volte, non essere scelti è una gran fortuna.

Ah! Ed è sempre la convinzione quella che fotte la gente. (Me dispiace, Addolora’)

Ovviamente, nel colloquio successivo, come sempre nella mia vita mai in discesa, a me è capitato “Quello che faceva più paura”.

Finito il tutto, ho salutato i pochi colleghi rimasti, continuato a sorridere e trascinato i miei esausti tacchi dodici verso la macchina.

Anche il mio di aspetto era da biasimare e non mi sentivo affatto in ordine esteriormente.

Figuriamoci interiormente.

E poi ho incrociato lui:

«Wowww… Ti posso offrire un caffè?»

Dopo dieci ore sui trampoli, il sonno, una mezza febbretta che non mi abbandona da più di un mese, uno sfogo cutaneo dovuto allo stress (sì, sto messa benissimo) be’, la mia autostima l’ha amato.

Quindi, non mi sono sentita di replicargli un secco: «No».

Non lo meritava.

Meritava maggiore gentilezza.

In perfetta linea con la giornata, ho sorriso e replicato un dolce:

«Le faremo sapere!»

IN VIAGGIO, CON UNA MENTE CHE VIAGGIA: DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO

Dice: parti così non ci pensi, stacchi, ti svaghi e ti rilassi, sarà! A me sembra che i pesanti pensieri, le paranoie e le Vocine nella mia testa mi abbiano seguita, ma magari mi sbaglio… (No! Non sbagli!)

E infatti…Barbie Bastarda (3)

Quando decidete di prendere una vacanza, dovreste ricordare al vostro cervello di spegnersi, altrimenti vi troverete nella mia stessa situazione: dall’altra parte del mondo, ma – a quanto pare – con la medesima capoccia frullante.

Sono andata a fare immersioni a Sipadan, Malesia: undicimila chilometri, tre aerei, un pulmino, una barca e sei ore di fuso, da casa.

Da curiosa, bulimica di conoscenza e studiosa, innamorata – e a volte schifata – del genere umano, non potevo non affrontare anche questo viaggio col mio consueto spirito di osservazione e nuove riflessioni sempre pronte.

D’altronde è il mio modo di vivere e la vita stessa è un viaggio, di lunghezza variabile, di bellezza variabile, che affrontiamo come meglio possiamo, con compagni che si scelgono e altri che ci ritroviamo.

A spasso per il creato, impari sempre qualcosa da te stesso e dai tuoi colleghi d’avventura e apprendi molto dalle nuove realtà che scopri.

Asia, territorio a me sconosciuto, ma che – da sempre – mi rimanda ad atmosfere suggestive e quel fascino dell’Oriente che subisco proprio. Ad accoglierci uno stupendo resort di palafitte. Certo, decisamente non rispondente a quella genuinità e originalità che stavo ricercando, ma, confinante col nostro villaggio, si snodava il villaggio autentico, autoctono. L’ho osservato anche da lontano, pochi metri di ponticello e due mondi agli antipodi: Barbie Bastarda (1)da un lato il lusso, il divertimento e i comfort. Dall’altro la povertà vera, quella che ti fa sanguinare il cuore, quella fatta di vestiti laceri e odori nauseabondi, quella che ti fa sentire fortunato e che ti tira fuori tutte le considerazioni grondanti retorica che – però – proprio poiché considerate tali, sono più che veritiere.

Perché quando ti lavi i denti la mattina con l’acqua salata e quando vedi raccoglitori per quella piovana, al fine di recuperarne il più possibile, davvero capisci di essere un re. Per circa cinque minuti, perché – poi – ti scordi e riprendi a lamentarti delle cazzate.

Un luogo fatto di bimbi nudi, sorridenti, che cercavano attenzioni e qualche “regalo”, perennemente immersi nell’acqua sotto le dimore, cercando stelle marine e pesci da mangiare e da vendere.

Barbie Bastarda (5)Qualcuno ha fatto chiedere a uno di loro quanti anni avesse, la risposta è stata:

«Non lo sa, qui non si “usa”…» Mi ha molto colpito.

Ho pensato a ogni festa organizzata, ogni anno, per celebrare il fatto che stessi invecchiando, a tutti i festeggiamenti in mio onore e a quanto rimanessi male se qualcuno dimenticava il mio compleanno. Chissà se questi bimbi soffrano del fatto che nessuno prepari loro torta e candeline.

Ma forse dipende tutto da come sei abituato, dalle priorità che si hanno nella propria vita, dalla realtà che ti circonda e se non hai termini di paragone e se non sai che esistono mondi diversi, non ne puoi soffrire e, magari, vivi bene lo stesso.

Le malesi sono molto belle e, appunto, è difficile dar loro un’età, sembrano tutte ragazzine. Quelle di credo musulmano indossavano dei veli ad adornar loro la testa, molto graziosi, ricamati e colorati. Mi ha fatto effetto vederne anche addosso ai manichini nei negozi degli aeroporti, ma, per loro, è ovviamente assoluta consuetudine.

La “severità” che io percepivo da quell’imposizione, ai miei occhi, contrastava coi loro sorrisi naturali e beati, quell’incarnato nocciola e quegli occhi scuri e brillanti. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se dietro al rigore della tradizione e quella serenità apparente, si nascondessero le nostre stesse seghe mentali fatte di «Ti ha scritto, che ha detto, fanculo stavolta non me ne frega più niente sul serio». O se siano soltanto squisita prerogativa di noi frivole donne occidentali. Chissà. Mi sono pentita di non averne “intervistata” nessuna, come mi era venuto in mente. Peccato.

Magari avrei avuto conferma del vecchio adagio secondo il quale: “Tutto il mondo è paese” perché ho imparato che uomini e donne, alla fine, parlano sempre di uomini e donne! In ogni parte del creato!

Così tra quello che ho visto, quello che mi è stato detto, quello che ho rubato con occhi e orecchie e fatto mio, ho arricchito ancor di più il mio già straripante bagaglio antropologico.

Ho imparato (ma lo sapevo già…) che le perle finiscono sempre coi porci e i pirloni con le porche, meglio conosciute come gatte morte/stronze/& affini; che gli uomini continuano a distinguere le donne in “sportive” e “pretenziose” e tutto ciò che può fare e sopportare un maschio, in nome della cara e vecchia faiga. O, in una visione più romantica, se DAVVERO ti vuole. Tanto per fare un mero esempio, centinaia di chilometri, perché lei: «Quanto era bella. Quanto…».

Ho pensato che, raramente, qualcuno avesse affrontato lunghi viaggi per vedere me, ma che – una volta – stavo per farlo io, totalmente rincitrullita dall’ormone e dal batticuore. A fermarmi erano state le Vocine e qualche amica che, gentilmente, mi avevano sussurrato:

«Ma dove cazzo vai?».

In effetti, dove cazzo andavo? Però lui è così speciale. Pure tu, Tesoro. Sappi che la distanza è la stessa per entrambi. Ah, vero.

E mi sono ricordata di tutti quelli che, durante il percorso della mia vita, mi hanno detto: «Sei una Stella, non te lo scordare mai…». Ma noi donne si sa, tendiamo sempre a dimenticarcene e a farci spegnere od offuscare la nostra splendida luce.

Allora ho osservato le Stelle marine. Loro mica si muovono, stanno lì immobili e si lasciano ammirare. Hai mai visto una stella marina rincorrere uno scorfano?

Quindi, anche dall’altra parte del mondo, mi sono prese innumerevoli paturnie su “Se pochi lo ha fatto, evidentemente io non sono abbastanza bella”. Che ve lo dico a fare?

Altrettante, e che mi hanno fatto annuire per un paio di giorni, mi sono nate udendo la sicura affermazione maschile che “se un uomo tiene a te”, scusate… “SE UN UOMO TIENE A TE”, non solo fa di tutto, ma ci tiene a gridarlo al mondo intero. Dall’altra parte e da questa parte.

Lo so che questa frase rappresenta l’ovvietà del secolo, ma – si sa –  quando certe frasi le sentiamo pronunciare dagli altri ci sembrano sempre più sagge e brillanti, mi si accende un allarme mentale e tutte le Vocine in coro mi gridano:

«CHIAROOOOOOO??»

Ma quando sei immerso in qualcosa, è proprio il caso di dirlo, ti rendi poco conto del resto del mondo, sia bagnato che asciutto. Quando sei immerso, ti focalizzi unicamente su quello che riesci a vedere attraverso la maschera. Sapete che ingrandisce gli oggetti? Quindi ci offre una visione leggermente distorta della realtà. Di conseguenza, quando sei immerso, non riesci a vedere nitidamente. Mi ricorda un articolo di qualche tempo fa sulla Miopia femminile, ma – ho imparato – che anche i maschietti vengono accecati dalla faig… ehm… dall’amore.

Ho trovato una stupenda analogia tra la subacquea e le mie amate meditazioni: sono entrambi dei mondi ovattati e quasi totalmente privi di suoni, in cui – per lo più – odi solo il tuo respiro, di una cadenza rassicurante e rilassante.

Le profondità maggiori le raggiungi gradualmente, le discese sono come quelle nel profondo dell’anima. Se hai paura, non riesci a inabissarti completamente, a lasciarti trasportare, a scoprire dove puoi arrivare. Durante tutto questo, sì, sei concentrato su quello che stai facendo e ammirando, ma la mente viaggia. O, magari, capita solamente a me. Probabile.

Perciò, anche nel mondo sommerso, non ho potuto fare a meno di meravigliarmi del comportamento dei suoi abitanti.

Durante una notturna, ci siamo imbattuti in una tartaruga che dormiva beata, adagiata su una struttura di legno aBarbie Bastarda subacquea (2)circa quattro metri di altezza dal suolo. Poco dopo, poco distante, ne è sopraggiunta un’altra, ha provato a coricarsi sul relitto di una barchetta a remi, ma era talmente grande che questo non riusciva a contenerla. Allora si è tolta. Ha puntato la collega beata, le ha dato una sonora beccata per svegliarla e spostarla e si è fregata il suo posto. La prima ha iniziato a risalire, senza protestare e – probabilmente – è andata a cercarsi un nuovo giaciglio.

Ho imparato, così, che la prepotenza vince anche sott’acqua.

Ma ho imparato anche, che gli esseri più spaventosi di tutti i mari, gli squali, incutono davvero timore quando li incontri, però se ti avvicini senza paura sono loro a scappare e che spesso questo accade anche con i predatori che incontriamo fuori dall’acqua.

Sul dorso di tartarughe e squali, vivono dei simpatici pescetti che si chiamano remore. Questi si cercano un “protettore” grosso, alle spalle di cui vivere, navi, squali, tartarughe, qualsiasi essere imponente. Nella vita terrena li chiamiamo “parassiti” e non voglio dire papponi che pare brutto. O forse significa che, per sopravvivere, abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci sia accanto e che ci aiuti, per difenderci, proteggerci, per pulirci e per vivere. E magari anche gli essere più grossi, che pensiamo siano autosufficienti, sono più felici di avere compagnia.

E poi c’è stato l’incontro col Pesce Pagliaccio-bullo.

Da quando abbiamo conosciuto Nemo, i pesci pagliacci li abbiamo tutti in simpatia, così, ogni volta che mi è capitato di vederli, mi sono soffermata a giocherellarci. Vivono davvero dentro le anemoni e dalle loro dimensioni puoi Barbie Bastarda subacquea (1)facilmente distinguere i genitori e i cuccioletti. Con le dita sfioravo la loro casa morbida e accogliente e loro si nascondevano. Non appena mi scostavo, tiravano timidamente fuori la testa e io ricominciavo il mio trastullo stuzzicante. Finché uno di loro, presumo il capofamiglia, scocciato da questa interferenza ripetuta, è uscito fuori e ha cominciato a fissarmi.

Nei suoi occhietti minuscoli potevo leggere distintamente un chiaro e minaccioso:

«Che devi fa?? Hai finito de rompe li coj***?»

È stato incredibile! Vedere questo esserino grosso quanto il mio pollice affrontare me, un gigante cattivo, per difendere i suoi, è stato commovente. Perché è così che si fa quando devi curarti di chi ami. Te ne fotti se hai paura, te ne fotti se sei piccolo e indifeso e se, nel confronto, sei decisamente in svantaggio. Te ne fotti e agisci, affronti i colossi e vai!

Grande, pescetto!

Ma nella vita emersa, all’asciutto, non è sempre facile riuscire a proteggere chi amiamo e non sempre chi abbiamo accanto è disposto a farsi aiutare. Il mio modo invadente ma discreto di cercare di salvaguardare i miei affetti dalla sofferenza, mi imporrebbe di intromettermi a ogni costo, di correggere una visione alterata, di essere cruda, ma comprensiva, di aiutare anche a discapito del rapporto stesso. Perché non sempre si è pronti ad ascoltare la verità.

Perché a volte vorresti dir loro che certi atteggiamenti non vanno bene, non vanno bene per niente. Altre, che è giusto e sacrosanto pretendere di più, che sì, cazzo, fa male! Ma accontentarsi fa peggio. Tradire il nostro Amor proprio fa molto peggio, che imparando a raccogliere briciole, non ci si ricorda come sia mangiare davvero. A volte vorresti fare molto, ma occorre una gran dose di coraggio che non sempre si ha. E in fondo… io chi cazzo sono per dire agli altri come vivere, il viaggio ognuno se lo fa come meglio crede. Magari anche i cuccioli di pagliaccio si stavano divertendo con me che rappresentavo un’evidente minaccia e si sono scocciati che il padre abbia posto fine al divertimento. Ognuno sa cosa è meglio per sé, senza aiuti. Forse…

Ho imparato che, anche sott’acqua, si può ridere fino alle lacrime e, se nella vita asciutta mi è capitato molteplici volte di buttarmi a terra per sganasciarmi senza contegno, era la prima volta che mi succedeva nel regno sommerso.

Un episodio imbarazzante, al quale avrei potuto reagire arrabbiandomi o risentendomi, ma da questa parte del mondo e dall’altra, all’asciutto o al bagnato, ho scelto di ridere per esorcizzare qualsiasi situazione e così ho gestito anche questa.

E, grazie a questo, posso dire con fierezza: ridere fino alle lacrime sott’acqua, fatto!Barbie Bastarda (10)

Sono riuscita a ridere anche in una circostanza tutt’altro che comica. Quasi alla fine di un immersione, per la prima volta, mi si è materializzato l’incubo di tutti i subacquei: ho finito l’aria. Quando mi sono accorta che scarseggiava, ho sperato che mi bastasse fino alla fine, perché mi imbarazzava e poi avrei dovuto chiedere aiuto e, quindi, “disturbare” qualcuno. Le mie speranze si sono vanificate quando il manometro segnava impietoso  “zero” e mancavano ancora almeno cinque minuti all’uscita. Così l’ho segnalato al mio istruttore, ma l’ho fatto, appunto, ridendo, tanto che – in un primo momento – pensava stessi scherzando. Non solo avevo messo in atto la regola basilare di non farsi prendere dal panico in nessuna situazione, ma, soprattutto, non era la prima volta che mi ritrovavo senza fiato. Quindi sono abituata. La Vocina che mi ripete in ogni circostanza nera “Te la caverai, tanto te la cavi sempre…” anche questa volta aveva ragione e ho imparato pure che, ogni tanto, non c’è proprio nulla di male nel lasciarsi aiutare.

Quindi ho imparato – ma lo sapevo già – che mentre c’è chi si crea problemi a parlare, c’è chi parla a prescindere e, spesso, solo per creare problemi. Chi fa della logorrea il proprio stile di vita, chi ha bisogno costantemente di stare al centro dell’attenzione, magari per insicurezza, ma queste stesse persone sono quelle che si curano meno degli altri.

Ho imparato che se sei buono e accomodante lo sei – purtroppo – da qualsiasi parte del cosmo. E ti capiterà sempre, sempre, sempre di sentirti ferito, deluso e amareggiato da qualcuno. Perché la propria natura difficilmente si può mutare, anche con una muta addosso.

Come quella tartaruga che se n’è andata senza ribellarsi. Io non lo so se quella beccata se la sia meritata, allora sarebbero pari. Comunque mi piace pensare – e sono abbastanza sicura – che, se dovesse ripetersi di nuovo, risponda con un morso e non si sposti. Perché anche le creature apparentemente più placide, alla fine, si incazzano. Fidatevi.

I miei affetti autentici non mi hanno abbandonata nemmeno dall’altra parte del mondo. È stato meraviglioso condividere con loro – in tempo reale – foto, esperienze e quant’altro e occorre ringraziare il signor internet per questo.

Ma, come ho già avuto modo di fare, mi sono chiesta quale fosse il confine tra utilità e ossessione. Se il nostro essere perennemente connessi al mondo virtuale, non ci faccia perdere di vista quello contingente. Talvolta si è così impegnati a controllare quel che succede nel luogo che abbiamo lasciato, da trascurare le meraviglie che abbiamo intorno.

Occhi puntati sugli smartphone e, troppo poco spesso, a contemplare la bellezza reale.

Forse ero anche rammaricata di non avere qualcuno da pensare. Non so se avete presente, qualcuno a casa che contasse i giorni che ci separavano. Forse solo qualcuno che mi sono imposta di non pensare, è vero che quando ti allontani riesci a vedere con più distacco i fatti. Dall’altra parte del mondo e da questa, ho smesso di rincorrere le persone e imporre la mia presenza, che dovrebbe essere un piacere. Faccio come le stelle marine. Chi vuole sa come e dove trovarmi. Chi vuole. Non ho mai impedito a nessuno di adagiarsi accanto a me.

Probabilmente per sentire più vicino quel mondo dal quale mi ero temporaneamente congedata, ho fatto qualcosa che non avevo fatto mai: ho postato una mia foto su Barbie Bastarda (12)Instagram. Sono iscritta da oltre tre anni, ho svariati seguaci e non l’avevo mai usato. Ovviamente ai miei occhi il risultato non è stato granché, perché, nonostante gli splendidi colori verde-azzurri del mare, le palme, la spiaggia bianchissima e i filtri di Instagram, io non sembravo per niente una di quelle della pubblicità degli abbronzanti. Eccchecazzo.

Quindi, da oggi, ho un nuovo mezzo per biasimare me stessa.

Eppure non dovrei…

Ho constatato che le hostess della Malaysia Airlines sono probabilmente reclutate tra le modelle, tanto per far sentire le viaggiatrici sfrante da ore di cammino ulteriormente uno schifo.

Al ritorno, scesa nel primo aeroporto, attendevo di riunirmi col gruppo quando mi sono vista una fotocamera di un cellulare puntata sul viso e il suono dello scatto. A tenerla un sorridente “antaenne” dai lineamenti arabi.

L’immagine che offrivo di me stessa non era sicuramente delle migliori: pelle bruciata e screpolata dal sole, fisico risultante da una dieta a base di patatine fritte, capelli “scolpiti” da una settimana di mare e ore di sbattimenti, occhiaie, trucco sciolto e mise poco attraente, total black, composta da tuta, felpa e scarpa da ginnastica. Sì, un cesso praticamente! Perciò non sono riuscita nemmeno ad arrabbiarmi… Ho sorriso e ringraziato mentalmente, mentre pensavo:

Gentile hostess della Malaysia Airlines, a parte che per antonomasia incarni un desiderio erotico classico, quindi parti decisamente avvantaggiata, comunque ad essere figa con la divisa, truccata, senza sudare e coi tacchi, sono capaci tutte. Prova ad esserlo con l’outfit sopra citato, dimmi se qualcuno ti fotografa e poi ne riparliamo. Io la foto l’ho avuta, ciccia. Tiè!

Ancora una volta, ho imparato che gli altri – fortunatamente – sono molto più indulgenti con noi, di quanto noi non saremmo, probabilmente, mai. Purtroppo.

Peraltro in quei giorni era già capitato. Ho imparato che: «Is he your boyfriend?»  é l’internazionale primo approccio con il quale ci si assicura via libera. Pure non ricambiare sguardi e sorrisi per scoraggiare è internazionale. E questo fa di me la regina internazionale della fuga.

Comunque sono fortunata ad avere ricevuto un’istruzione, ad aver passato ore a studiare e leggere. Qualsiasi conoscenza ti torna utile nella vita. Almeno posso essere abbordata anche in inglese. Che culo!

Amo definirmi un’asociale e anche un po’ solitaria. Non è totalmente vero, ma quello che è vero è che amo ritagliarmi degli spazi di assoluta solitudine. Ne sento la necessità e non tutti riescono a capirlo e accettarlo.

Anche essere undici milioni di metri da casa, con un nutrito gruppo di persone, non ha eliminato questa esigenza. Così mi ritrovavo spesso per conto mio con le mie Vocine e tutte queste riflessioni. Ma non solo…

Dirimpetto al nostro resort, sorgeva una piattaforma petrolifera in disuso, che era stata tramutata in un albergo e diverse sere si animava con musica che riuscivamo a sentire anche noi. In una di queste, mentre mi avviavo da sola sulla passerella in legno verso la nostra palafitta numero S120,Barbie Bastarda (2)ho sentito iniziare una canzone a me molto cara. Ho sorriso. Solinga, al buio, mi sono fermata per ascoltarla e cantarla tutta. Stupenda, sporcata unicamente dal rumore del mare e dal mio tirare su con il naso.

“If I lay here, if I just lay here, would you lie with me and just forget the world?”

Anche dall’altra parte del mondo, mi sono sentita a casa. Allora non ero poi così lontana.

Forse è vero che i subbaqqui sono personaggi strani, diversi, metà esseri umani, metà pesci, che si rifugiano sott’acqua per sfuggire al mondo esterno, per non dover parlare e non dover ascoltare. Per sentire unicamente il proprio respiro e i propri pensieri. Forse è vero.

Ma ho imparato anche che se ascolti “Someone like you” da sola, di nascosto, sicuramente sarai colpita da Adelaide piangente acuta. Se – invece –  la canti a squarciagola alle otto di mattina con due amiche è sempre deprimente, ma decisamente più divertente.

Perché è meraviglioso quando permetti a qualcuno, che una volta era uno sconosciuto, di entrare nella tua vita e perfino di volerti bene. È stupendo, anche, aprire nuovamente la porta per scoprire realtà nuove, persone nuove, affetti nuovi. Quando dei nomi e cognomi iniziano a diventare presenze e pensieri costanti, tanto da avvertirne la mancanza quando non li vedi, tanto da preoccuparti per loro e di esserne contenta, perché significa che, forse, così strana non sei e, alla fine, i bagagli negativi che ci portiamo dietro vengono sempre rimpiazzati da quel che di buono resta in noi.

Ho imparato che se ti scende una lacrima mentre sei sott’acqua, non si sa come, né perché, non si sa se di gioia o di malinconia, ma sai che avviene dopo tempo che non riuscivi a versarne, può aiutarti a sentirti nuovamente viva. Ed è stupendo.

A spasso per il mondo, impari sempre qualcosa da te stesso e dai tuoi colleghi d’avventura. Apprendi molto dalle nuove realtà che scopri e… ci sono cose che, purtroppo, perdi per sempre.

Ho perso qualcosa e mi scoccia da morire perdere ciò che possiedo. Mi capita raramente perché ci sto attenta, perché sennò poi ci sto male, eppure è successo. Ho smarrito il mio amato collo di lana nero che avevo usato per contrastare l’aria condizionata in aereo. Appena arrivata, colpita dai quaranta gradi, l’ho riposto chissà dove e non l’ho più trovato. Mi sono accorta della sua assenza solo quando stavo preparandomi per il rientro, nel momento in cui potevo averne ancora bisogno.

Ora  chissà dov’è… Io lo lavavo, lo conservavo… A questo punto, non molto bene.

Ho perso anche un orecchino che ora giace adagiato in uno splendido fondale e magari la corrente lo sta portando a visitare luoghi e creature meravigliosi, beato lui. Però mi manca. Mi mancano entrambi.

Ma forse è questo quello che capita quando non ci si prende sufficientemente cura delle proprie cose. Quando ce ne scordiamo e le perdiamo di vista, quando le accantoniamo perché presi da altro e non ci servono. Non è detto che le troveremo lì ad attenderci, quando ne avremo bisogno. Se ci pensiamo bene, capita con tutto e tutti. D’ora in poi lo ricorderò.

Ricorderò anche di non abbandonare mai più i miei tacchi, neanche al mare.

La subacquea mi ha dato l’opportunità di fare esperienze inimmaginabili, ma ha anche causato grosse ferite al mio ego da superfemmina. L’essere costantemente struccata, in costume, coi capelli gretti e le infradito, mi fa sentire tutt’altro che una sirena. E poi, ci tenevo a dire a chi critica sempre i miei tacchi, che le infradito mi hanno procurato delle ferite sanguinanti alla base di entrambi gli alluci. I miei tacchi dodici non mi hanno MAI causato cose del genere. MAI, neanche da questa parte del mondo. Che si sappia.Barbie Bastarda (9)

Mi sono allontanata di undicimila chilometri, ma – niente – a quanto pare, anche lì, anche in viaggio, la mia mente che  viaggia era la stessa.

Non ho ancora totalmente disfatto le valigie, ma – permettetemi una frase altamente poetica –  ho imparato che il mio bel bagaglio interiore non mi lascia mai e sono finalmente molto soddisfatta di tutto quello che vi è rimasto dentro. Scremato, scelto, sudato con cura e, ora, ancora più ricco.

Perché se è vero che quasi tutti amano il mare, è altresì vero che non tutti hanno la curiosità e il coraggio di scoprire le meraviglie che cela. Accade anche con noi stessi e con le altre persone.

O forse un giorno imparerò a godermi i viaggi e il viaggio principale, senza formulare sofisticate elucubrazioni mentali, osservare qualsiasi dettaglio, memorizzare frasi e gesti e arricchire la mia conoscenza sull’umanità, i comportamenti, i rapporti e l’amore.Barbie Bastarda varano

A proposito di amore, devo confessare che purtroppo non ho incontrato il mio Sandokan. O forse sì. Per la gioia internazionale, devo dirvi che sono dovuta arrivare dall’altra parte del mondo, ma finalmente ho trovato chi mi renderà felice: il Varano. È grosso, non parla, ma ha due metri di lingua.

E scusate se è poco.

«Forse in fondo è vero che per essere capaci di  vedere cosa siamo,

dobbiamo allontanarci e poi guardarci da lontano…»

D. Silvestri

 

Se volete scoprire le meraviglie della subacquea, io vi consiglio la scuola Sea Walker Divers nella persona del sommo Boss Marco Cesaroni.

Non è per niente una marchetta e non avrò brevetti gratis per questo. Purtroppo.

Ai miei compagni di questo viaggio

e a quelli del viaggio della vita.

Grazie.

L’AVVELENATA

«Cara, carissima BB,

 come ti ho accennato ho letto e riletto l’articolo di ieri. Stampato, sottolineato. Preso tempo per risponderti, per trovare il tempo giusto per farlo. Non ho mai letto “alla leggera” i tuoi articoli, quindi non volevo certo iniziare ora. Né intendo farlo mai.

Allora…. Che dire. Prima di tutto: hai trovato il modo di capovolgere al meglio una delle situazioni più misere che il cv di una donna possa contenere: ne hai scritto, hai tirato fuori quel sasso che nella scarpa (tacco 12, soprattutto…) proprio non si può tenere, se si vuole continuare a camminare e andare verso qualcosa. E farlo sorridendo.

Ho provato le stesse sensazioni di quando lessi alcune pagine del tuo libro. Un misto di ammirazione per il coraggio che hai di metterti in gioco davanti un foglio bianco, di soddisfazione nel leggere un testo così intensamente ricercato (nel senso dell’uso delle parole) in cui ogni vocabolo è frutto di una scelta attenta e consapevole. Tu arrivi decisa a chi legge. Ogni parola è quella. Cercata, voluta. E ciò nel complesso si capisce… eccome se si capisce. Infine, un po’ di rabbia nel leggere che proprio a te capitino queste cose e che pur se molto diverse da quelle che può vivere un uomo, lasciano poi di base la stessa eredità psico-emozionale. 

Il pezzo è più che un articolo e, a chi legge, risulta una vera e propria pagina di diario. Essendo la tua non una rubrica nel senso tradizionale o convenzionale del termine, bensì uno spazio “tuo” (nel senso di “proprio”) il pezzo ci sta molto bene. Se Barbie Bastarda è in forma e ha voglia di prendere in giro il mondo che lo faccia. Se Barbie Bastarda è triste e ha il coraggio di scriverlo è giusto che lo faccia! (soprattutto se questo la fa stare meglio!). Inoltre credo che il pezzo sia molto “emozionale”, molto femminile e che il suo pubblico lo troverebbe proprio. Credo che il metro per pubblicare un articolo in realtà debba essere sempre uno e uno soltanto: se ciò che hai scritto ti ha fatto stare meglio, allora va pubblicato. Perché molto probabilmente farà star bene anche gli altri. E questo a te, credimi, riesce benissimo.

 “Non permetterò più a nessuno di farmi sentire sbagliata. Non permettete a nessuno di farvi sentire sbagliati”. I.Santacroce. Ieri, status Facebook».

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Non sono le quattro del mattino, non c’è né angoscia né un po’ di vino, sono sobria, libera, sveglia e lucidamente incazzata. Barbie Bastarda è triste, ha il coraggio di ammetterlo e di scriverne ed è giusto che lo faccia, come hai detto tu. In questi ultimi mesi ho letto e riletto questa mail, l’ho analizzata, consumata e, mentre lo facevo, sempre le solite domande nella testa: «Ma perché?» E, soprattutto: «Ma come si fa?»

Ti ricordi quante volte lo abbiamo detto? «Ma come si fa?» Di fronte alle meschinità gratuite, a comportamenti vigliacchi e perfidi, ce lo chiedevamo sempre: «Ma come si fa ad essere così? A comportarsi così?» Era sempre la nostra domanda. Non ci arrivi, sai. Se non sei geneticamente bastardo, infame e stronzo, non ci arrivi a capire certe azioni “umane”, è questo il problema. Devi incassare, accettare e basta. Ti torturi, certo, ti torturerai sempre. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Capita sempre così! Che cos’ho che non va?» Ma, alla fine, capirai che non sei stato tu a generare certe condotte schifose.  Quelli come noi – scusa – quelli come ME, con queste torture ci convivono da sempre. Tu lo sai bene. Conosci gran parte degli episodi indegni che ho dovuto subire, molti dei loschi personaggi che hanno attraversato la mia vita e tutte le risate dissacranti che mi facevo mentre ti raccontavo le mie disavventure. Lì sì c’era un po’ di vino, innumerevoli calici che accompagnavano le nostre confidenze. Barbie Bastarda nasce da qui: dalla vita vera, dall’ironia usata per esorcizzare la dura realtà, dalla perenne sensazione di essere“vasi di coccio tra vasi di ferro” e dalla voglia di non mollare mai, comunque e nonostante tutto.

Alla fine concludevamo sempre le nostre torture con un’amara consolazione: «Per fortuna noi non siamo così!» Già. Per fortuna noi siamo brave persone. Limpide, vere, oneste e trasparenti. Scusa, SONO.

«… un po’ di rabbia nel leggere che proprio a te capitino queste cose». Non sai le risate bagnate che mi sono fatta leggendo questa tua frase, alla luce dei fatti recenti. Ho riso davvero fino alle lacrime…

È impensabile per tutti quello che hai fatto, lo sai? È inconcepibile per tutti che tu l’abbia fatto soprattutto a ME e per me. Se dovessi descrivere come mi sento, potrei solo dire che mi vergogno per te. E non riesco ancora a credere che sia successo davvero, che tu viva la tua vita senza problemi, che non abbia la necessità di sentirci, né di dare spiegazioni, coltivando solo indifferenza nei nostri confronti. Ma chi sei? Chi eri? Chi era quello che conoscevo?

Chiudo e sigillo porte, sono brava in questo, lo sai. Non ho più voluto parlare di te e mi irrita quando qualcuno ti nomina.

Sai che adoro i soprannomi, quindi ora, se devo menzionarti, per me sei solo il “TDC”, il “PDM”, a volte “quella cara persona”, o semplicemente “Lo Stronzo”. Non voglio sentire neanche più il tuo nome.

Questo non è uno dei “momenti TILT di BB” che ben conosci. Li ho avuti, certo, ma non ho agito. Avrei voluto venire sotto casa tua e dare sfogo a tutta la mia rabbia. Sarebbe stato davvero un’azione perfettamente nel mio stile e, forse, conoscendomi, sei anche rimasto stupito che non l’abbia fatto. Credimi, lo sono anch’io.

Penso che in ognuno di noi – e Barbie Bastarda lo rappresenta in pieno – alberghino due anime ben distinte: una più istintiva, passionale, governata dai sentimenti e dalle pulsioni. L’altra più fredda, distaccata, che applica il raziocinio per tenere a bada il cuore e, molto spesso, sopravvivere. La maggior parte delle volte io faccio vincere la seconda e il motivo è semplicissimo: mi chiedo «Perché? Tanto è inutile…» Ci dovrebbe far sentire meglio urlare, sbraitare contro chi ci fa del male, vendicarci, ma non sempre è così. E serve a molto poco. Perché urlare contro una persona che dimostra, con i fatti, di non tenere a te? A cosa servirebbe farlo? È semplice: chi ti vuole davvero bene, non compie ai tuoi danni azioni meschine, né ti lascia appeso ad aspettare. È semplice. E, quando questo succede, io ormai, semplicemente, prendo atto. E prendo le distanze. Chiudo e sigillo porte, sono brava in questo, lo sai e faccio sempre quello che dico: non ti cercherò mai più. Non è per arroganza, né per superbia, presunzione ed orgoglio, ma c’è una la linea sottile tra orgoglio e Amor proprio e se il primo è deleterio, il secondo è necessario.

Non ho avuto problemi di orgoglio a cercarti, invano, ripetutamente. Non li ho mai, se ci tengo. E, più ci tengo, più ti cerco. Viviamo nell’era dell’ipercomunicazione: abbiamo smartphone, svariate mail, Facebook, Whatsapp, chiunque può ricercarti, se lo vuole. SE LO VUOLE. Alcune volte mi mancano certe persone, allora scrivo loro, anche con una scusa banale. Ma poi aspetto… Se non ricevo mai un «Come stai?» Vuol dire che io non manco a loro, che loro non sentono la necessità di avere mie notizie. È semplice.  Sposo la vecchia filosofia secondo la quale non bisogna mai supplicare le persone di accoglierti e tenerti nella loro vita. Me lo dicevi anche tu, quando cercavi invano di instillarmi un briciolo di autostima e Amor proprio. «BB tu sei fantastica, chiunque dovrebbe ritenersi fortunatissimo di averti nella sua vita». Lo sai? Ora lo penso anch’io…

In teoria, questo discorso fila liscio e perfetto, nella pratica è stata dura, durissima e lo è ancora. Mi sono preoccupata, tanto. Ti ho giustificato finché ho potuto, perché non riuscivo ad accettare che tutte quelle azioni provenissero da te.

E, sopra ogni altra cosa, non accetto il tuo maledetto silenzio e che tu non senta il desiderio di parlare con me. Forse è il mio amor proprio ferito, perché credo debba nascerti spontaneamente la voglia di sentirmi.

La mia bimba interiore perennemente insicura, crede che, in tutti questi anni, non ti abbia lasciato niente, visto che in un attimo hai fatto a meno di noi due come se nulla fosse. Questo pensiero mi devasta. Come si fa, se vuoi bene a una persona? Come si fa? È questo che mi ferisce di più: ormai non credo che il tuo affetto per me fosse sincero. Non posso proprio più crederlo tale. E fa male, tanto.

Ogni volta che vedo quella maledetta schermata – che hai avuto anche cura di reimpostare, il che dimostra che sei vivo, vegeto e coscientemente meschino – provo un dolore indescrivibile.

Dalla tua ultima “bassezza” – ultima di una lunga serie – non ho più scritto. Come ben sai, non mi va di scrivere nei momenti down: «No, evitiamo, che poi divento troppo “Barbie triste” e non mi piace!!». Ero troppo amareggiata per farlo. Ho pensato lungamente ai miei infiniti articoli in “bozza” che non avrebbero mai visto la luce della pubblicazione. A uno in particolare, lungo VENTICINQUE pagine, che mi aveva assorbito ogni energia e pensiero e fatta ancor più innamorare della meraviglia della scrittura. Il mio articolo perfetto, ricercato, curato, nutrito e adorato, che non ho più voluto aprire, tanta era la mia amarezza. Più di ogni altra cosa, era questo che non riuscivo a sopportare. Tutti i miei lavori, i nostri lavori, andati persi. La mia passione distrutta dalla tristezza, i “cattivi” che, ancora una volta vincono e restano impuniti. Non potevo sopportarlo.  Allora mi sono rialzata e ho costruito una nuova strada, “Per ogni fine c’è un nuovo inizio…” come dice il nostro amato Principe.

Ma, per ricominciare davvero, avevo bisogno di mettere un punto, per me stessa. Questo è il primo pezzo che scrivo dopo tutto lo schifo che ci hai fatto subire.

Lo sai, alla fine, ho sempre bisogno di sfogarmi, di liberarmi. La razionalità mi abbandona e poi avevi ragione: certi sassolini non riesco a tenerli nel mio tacco dodici, mi impediscono di rialzarmi e di camminare spedita.

Poi mi dà fastidio covare rancore, mi intristisce, mi abbrutisce e mi inquina. È davvero un veleno e non voglio portarlo con me. Riverso tutto il mio astio in queste parole, così mi libero. E le regalo a te. In fondo sono  state generate da te, quindi è giusto che sia tu a conservarle e custodirle. Lascio tutto scritto qui. Ora mi sono liberata e posso continuare il mio cammino. Ti sarò sempre grata per avermi dato l’opportunità di conoscere persone stupende e per aver creduto in me, anche se non fino in fondo.

Non ti odio, l’odio è un sentimento impegnativo come l’Amore e non mi sento di provarlo per nessuno.

Non ti auguro il bene perché non sono un’ascetica  santa, ma non ti auguro neanche il male. Primo perché non ne sono capace in assoluto e con nessuno e poi perché sei TU. Nonostante tutto. Ti riservo solo indifferenza. La stessa che tu hai usato con noi, con ME. E forse capirai quanto faccia male. Anche se ormai non so più chi sei e cosa sei ancora in grado di provare. E, quando tornerai – perché tu sai che da me tornano sempre tutti e tu non farai eccezione – non so quale anima troverai ad accoglierti. Sono curiosa anche io di scoprirlo.

Ho chiuso un’altra porta, ho una nuova crepa nel cuore. Mi ripeto costantemente: «Passerà, passa tutto…» e lo credo davvero. Sono acciaccata, ma la mia Luce stavolta non mi ha abbandonata.  Devo dire che, alla fine, hai fatto un buon lavoro: ormai sono conscia del mio valore e non consento al giudizio e al comportamento altrui di offuscare la mia neoconosciuta autostima. Grazie, per avermelo fatto capire.

Continuo ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, continuo a torturarmi per i comportamenti altrui, a piangere per ogni sciocchezza e a riderne un secondo dopo, continuo a tenermi per me dei «Mi manchi», perché vorrei sentirli, ma sono anche quella che chiude e sigilla porte senza guardarsi indietro.

Sai? Non mi vergogno più di essere così. Sono questa: qualche pregio, innumerevoli difetti, ma mi sento PULITA. Non mi interessa più il «Ma come si fa?» Mi interessa solo che, ogni volta che mi guardo allo specchio, mi sorrido pensando: «Per fortuna io non sono così…»

Ciò che ho scritto mi ha fatto stare meglio, quindi è giusto pubblicarlo, come hai detto tu.

Con affetto andato a male e stima scaduta,

Non più Tua, non più avvelenata e rinata, Barbie Bastarda.

«…Non permetterò più a nessuno di farmi sentire sbagliata…»

  

«…parlavano di stile, di impegno e di valori,ma non appena hai smesso di essere utile per loro eran già lontani, la lingua avvicinata a un altro culo. E allora avanti un altro, almeno chiedi scusa del disturbo…»

Ligabue

 

«Ho messo campanelli alle porte
caso mai dovessi tornare mentre dormo.
Ho messo campanelli alle finestre
caso mai da lì tu dovessi entrare
– potrei non accorgermene.
Ho messo tagliole negli angoli
nel caso tu volessi tornare
ma con cattive intenzioni,
nel caso tu volessi dirmi
che non è più tempo di sogni.
Ho messo tagliole,
e campanelli su tutte le porte… »

D. D’Angelo.

 A Katya, Tony, Marianna, Marty, Manu, Lidia, Cristina, Dalila e Giovanni.

Noi sì che siamo “La grande Famiggghia”…