Mi ha fatto un bel po’ di domande: il lavoro, la famiglia, il fidanzato, una panoramica completa, niente escluso.
Però sentivo che ne teneva una in serbo che gli premeva più delle altre, che ci teneva proprio a pormi, della quale voleva conoscere assolutamente la risposta.
Ma ignoravo di cosa si trattasse.
Non capivo quale altro argomento spinoso potesse tirare fuori.
E l’ho invitato, con gli occhi, a farmela, anche se un po’ la temevo.
Infine ha preso coraggio e ha bisbigliato:
«Sei felice?»
Boom.
LA DOMANDA.
Se me l’avesse posta qualche mese fa, non avrei esitato un attimo a rispondere:
«No, sto di merda. Va tutto male, non riesco a riprendermi…»
Ma adesso, no.
Non lo so come riesca la nostra mente a formulare così tanti pensieri in una manciata di secondi. A passare in rassegna innumerevoli immagini, istanti, frasi, ricordi.
Questi ultimi mesi li ho percorsi col pensiero e poi sono andata ancora più indietro.
La felicità.
In un suo famoso monologo, Benigni ne parla così:
«Cercatela, tutti i giorni, continuamente. Chiunque mi ascolta ora si metta in cerca della felicità. Ora, in questo momento stesso, perché è lì. Ce l’avete. Ce l’abbiamo. Perché l’hanno data a tutti noi. Ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ce l’hanno data in regalo, in dote. […] E anche se lei si dimentica di noi, non ci dobbiamo mai dimenticare di lei…»
Condivisibile, a volte difficile da mettere in pratica.
Totò, invece, affermava che:
«Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza»
Come la mia Prof di filosofia che diceva che, appunto, la felicità è fatta di momenti. E bisogna notarli quei momenti e custodirli e gioirne.
Ho rammentato tutti i libri che ho letto, le meditazioni; la LoA; il potere della mente; la connessione psicofisica; il Karma; l’atteggiamento; la profezia che si autoavvera; il pensiero positivo; la legge di Murphy; la gratitudine; l’Aura; i concetti di “Luce” e “Amore” e – perché no – pure i “Vaffa” liberatori, tutte queste nozioni e pratiche con le quali ho saturato il mio già straripante cervello, che però mi aiutano, quando non sembra riuscirci nulla. Che mi hanno fatto pure guadagnare l’epiteto di “Strega”.
Tutta questa roba qui che, tutta insieme, ha contribuito a farmi creare il mio concetto di felicità.
La felicità è un modo di pensare, di agire, di atteggiarsi, di plasmarsi, di forgiare le proprie giornate, di reagire alla vita, agli imprevisti, agli intoppi, di guardare al mondo e agli altri.
L’ho verificato empiricamente.
Se la mattina ti alzi male, le cose andranno peggio. E viceversa.
Sperare non costa nulla, sorridere, nemmeno. Potremmo sempre e comunque incappare nelle delusioni, ma non dovremmo permettere loro di cambiarci, di abbrutirci, di demoralizzarci, come spesso – purtroppo – accade. Non dovremmo concentrarci sul brutto, ma perseguire il bello, la gioia.
Abbandonare quei pensieri che ci fanno stare male, che ci creano una botta allo stomaco e sofferenza, quei ricordi che ci mortificano l’anima, in favore di altri più salutari.
Quando mi accade, penso a tutte le risate che mi hanno e ho fatto fare, il loro potere è sorprendente.
Alla fine, la felicità è una scelta, niente di più.
L’ho guardato negli occhi e ho affermato con convinzione:
«Sì. Sono felice»
Lui ha annuito.
«Davvero?»
«Certo. Non ci credi?»
«Ci credo»
Ne potrei elencare milioni di motivi per i quali dovrei essere infelice, ma preferisco pensare a quelli che mi fanno sentire fortunata.
Dal sentire una canzone a mangiare qualcosa che mi piace. Le telefonate, i bei posti. E le tante persone che arricchiscono la mia vita. Posso elencare anche milioni di motivi grazie ai quali sono felice e solo di questi mi interessa.
Lo so, non è semplice. Sono tutte affermazioni che conosciamo molto bene “in teoria” ma, a volte, in pratica…
Gli uomini li invidio, lo dico sempre. Vivono in maniera mooolto più serena di noi.
Ed è abbastanza inutile che ci incaponiamo coi vari “Non mi capisce!”.
No, non capiscono perché, semplicemente, sono fatti in maniera diversa. Più semplice, appunto.
Viceversa, è anche abbastanza complicato tentare di far comprendere loro quante e quali paturnie possano aggirarsi mediamente nella testa di una donna sapiens.
Ci tengo a dire che non tutte sono paranoiche, però di donne ne conosco parecchie e so di quali elucubrazioni mentali siamo capaci, di quanto sia copiosa la produzione di pugnette immaginarie che tanto ci contraddistingue e che a loro è totalmente sconosciuta.
Tutte quel che a noi appare montagna, per loro è insignificante.
Quindi è altresì difficile spiegare ai maschietti il perché di scenate leggendarie per (ad esempio) una chiamata mancata o un messaggio rimasto inascoltato.
Non lo sanno, loro, che durante quell’attesa nella nostra mente c’è stata una creazione monumentale di pip*e mentali a carattere catastrofico.
Io donna sono e con le donne parlo e, a volte, rimango pur’io stupita di come e quanto riusciamo a partorire l’inimmaginabile, la prospettiva più catastrofica, il rintorcinamento meningeo che più può portare al peggiore scenario possibile.
E ci crediamo.
E ce ne convinciamo.
(spesso ci prendiamo pure. Ma forse questo non è il caso di dirlo…)
E agiamo di conseguenza.
Ed è un’operazione estremamente complessa dissuaderci che i nostri pensieri sono solo quello: pensieri. Non la realtà.
Prendiamo come esempio un’abitudine maschile, ahimè, abbastanza diffusa che ormai viene chiamata col termine raffinato di ghosting, mentre l’azione che sottintende non lo è affatto, ovvero sparire. Sparire vigliaccamente e – quasi sempre – il giorno dopo.
Analizziamo i fatti:
Lui è una profusione di galanteria e carinerie fino al momento clou. Poi “Chi l’ha visto?” e contattiamo la Sciarelli.
(e non mi venite a dire che gli uomini non lo fanno, per favore. Ci sono uomini che lo fanno tutti i giorni. Oggi ci assumiamo tutte le nostre responsabilità di genere: le donne sono psicotiche e gli uomini sono bastardi. Non tutte/i, ma buona parte. Amen)
È sparito.
La logica, questa sconosciuta, imporrebbe un’evidente conclusione:
È sparito perché è uno stronzo! Chi altri compie un’azione così meschina, da codardi, viscidi, manipolatori?
Uno STRONZO!! No?
È lampante!
Manco per niente.
Nella mente della femmina paranoica e paturniosa si forma un unico e nitido convincimento:
No, è sparito perché sicuramente gli ho fatto schifo.
Non avete idea di quante volte abbia udito questa “logica” conclusione. Di quanto spesso abbia rimbrottato alcune mie amiche con frasi cariche di ironia e biasimo.
Mentre commentavo mentalmente con un:
«Cazzo, ma siamo proprio tutte psicopatiche uguali!»
Perché io, anni fa, ho fatto pure di peggio.
Non solo ho pensato che il bastardo in questione mi avesse trovata talmente rivoltante da dileguarsi, ma ho cercato pure le prove a favore della mia tesi.
Sono andata a chiedere a un amico se fosse possibile un’erezione con una che ti fa schifo (l’ho fatto davvero, giuro).
Lui, naturalmente e con semplicità, mi ha dapprima chiesto l’ovvio:
«Perché dovrei andare con una che mi fa schifo, scusa?»
Giusta osservazione.
Sarebbe finita lì e non sarebbe nemmeno cominciata, se io fossi stata un tantinello più equilibrata e razionale.
Ma non era questo il caso.
«Che ne so?? Perché magari “pare brutto”. Ti ci trovi e ci devi andare!»
Lui, sempre più perplesso, ci ha iniziato a ragionare:
«Boh… Magari facendo un miscuglio di Edwige Fenech, Charlize Theron, tette, culi e lesbicate nella testa… Chiudendo gli occhi, forse, potrei riuscire a eccitarmi»
«Ah!»
«Eh…»
«Quindi ce la potresti fare?»
«Volendo, penso di sì. Ma mi chiedo sempre perché dovrei»
«Quindi, praticamente, mi stai dicendo che io, da oggi in poi, dovrò convivere con un’altra paturnia, ovvero che – forse – a tutti quelli che sono stati con me, c’è la possibilità che facessi schifo ma sono comunque riusciti nell’impresa grazie a film mentali ben più benefici dei nostri??»
«Certo. È proprio esattamente quello che ho detto. Testuale…»
«Ho capito! Però è possibile, no??»
«Tu ci andresti con uno che non ti piace?»
«Certo che no!»
«Perché allora pensi che dovrebbe farlo un uomo, scusa?»
«Ah…»
«Eh!»
Ecco.
Immaginatevi una cosa del genere.
Nella nostra testa.
Tutti i giorni.
Sempre.
…capito?
Magari siamo davvero tutte psicopatiche, tutte uguali, tutte paranoiche e paturniose.
Magari è il motore dell’insicurezza a muovere le nostre azioni oppure la voglia di cercare una spiegazione a quello che non riteniamo possibile, né accettabile.
Magari siamo talmente abituate ad affidarci al nostro sesto senso da crederlo infallibile.
Quell’istinto, quasi una garanzia, che ci danno di corredo assieme alle tette e che ci aiuta sempre.
O magari siamo solo pazze.
Decisamente, siamo pazze.
Purtroppo, a volte siamo pure pazze di voi.
E questo peggiora di molto le cose.
Se vuoi liberarti dalle paturnie, finisci di leggere qui.
Non andare oltre.
Sul serio.
Se prosegui, lo fai a tuo rischio, psicosi e pericolo.
Ok?
Smetti qui.
Stai continuando a leggere?
Ti ho detto di smettere!!
Vabbè, fai come ti pare, io ti ho avvisata…
Siamo pazze, l’ho premesso. O magari ci piace definirci così,
La verità vera che avvalora la nostra produzione di pugnette, che ci fa osannare il nostro sesto senso e la nostra lungimiranza è che difficilmente sbagliamo.
Sì, l’ho detto.
Se ci si insinua un piccolo pensiero nel punto più profondo dell’amigdala e lì stanzia e si attiva in determinate circostanze e ci dà un segnale, un motivo c’è. Poco da fare.
Non so dirvi le volte che, a posteriori, mi sono detta: «Avevo ragione io!» quando tutti mi additavano come una paranoica.
E sempre, giuro SEMPRE, avrei preferito sbagliarmi.
Avrei preferito essere smentita e accusarmi di essere una visionaria furiosa sceneggiatrice di catastrofi.
Invece, molto spesso, i disegni che avevo creato nella mia testa sulla base di pochissime e apparentemente insignificanti sfumature, che sembravano tratti da Beautiful, non solo risultavano veritieri, ma erano anche esattamente come li avevo concepiti.
È una dote, o una maledizione, fate voi.
Quel nostro percepire e registrare ogni minuscolerrimo cambiamento, un’inflessione della voce, un piccolo accenno e tutto il linguaggio non verbale e riuscire a cogliere uno stato d’animo perfino da come è scritto un sms.
E poi immagazzinare, ricordare, collegare il tutto e ottenere un risultato, una spiegazione. Che stanno lì, in attesa della verifica. O della smentita.
Vorrei cullarmi nella tranquillità del “non sapere e non capire” essere meno empatica, sensibile e recettiva.
Ma ho una maledizione e difficilmente sbaglio.
E quando si affannano a mentirmi?
Rido molto.
«Io vado pazza per Tiffany: specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie».
«Vuol dire quando è triste?»
«No… Uno è triste perché si accorge che sta ingrassando, o perché piove. Ma è diverso. No, le paturnie sono orribili: è come un’improvvisa paura di non si sa che. È mai capitato a Lei? In questi casi mi resta solo una cosa da fare: prendere un taxi e correre da Tiffany. È un posto che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria solenne: lì non può accaderti niente di brutto. Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany… Comprerei i mobili e darei al gatto un nome».
Colazione da Tiffany
«La lupa, la anziana, quella che sa, è dentro di noi. Fiorisce nella psiche più profonda dell’anima delle donne, l’antica e vitale Donna Selvaggia. Lei descrive la sua casa come quel luogo nel tempo dove lo spirito delle donne e lo spirito dei lupi entrano in contatto. È il punto nel quale l’Io e il Tu si baciano, il luogo nel quale le donne corrono coi lupi (…)»
Lo sostengo da sempre e l’ho appurato innumerevoli volte.
Tornano tutti.
Basta aspettare.
O, meglio, basta non aspettare.
Basta andare avanti con la propria vita, affrancandosi dal pensiero di costoro, scordandosene.
Loro non si scorderanno.
“Chi l’ha visto?” potrebbe campare per decine di puntate sulle mie spalle.
Me la figuro pure la Sciarelli, nella sua impeccabile compostezza, ad annunciare:
«Oggi, e nelle settimane a venire, ci occuperemo di tutti i pretendenti di BB spariti nel nulla. Che fine hanno fatto? Chi li ha visti? Perché lei non li ha proprio più sentiti!».
«Sciarelli, questi sono scomparsi da un giorno all’altro! Io non gli ho fatto niente, giuro!»
Più o meno così.
Nel mio lungo curriculum sentimentale, annovero infiniti quanto inequivocabili dileguamentisine verbo.
Inaspettati e apparentemente immotivati.
Che lasciano deluse, sgomente, arrabbiate.
E, purtroppo, anche tutta una serie di interrogativi che difficilmente trovano spiegazioni.
«Ma non è che gli è successo qualcosa? Una si preoccupa pure! Magari gli mando un messaggio, giusto per sapere se sta bene…»
Voci nella testa in coro: «No!»
Sciarelli: «NO!»
Telefonata da casa: «No!»
BB: «Uffa, che palle»
In questi casi – in effetti – è opportuno rispondere col silenzio a queste azioni vigliacche e immature.
Basta andare avanti.
Basta non pensarci.
Basta pazientare.
Questo silenzio viene rotto da un messaggio, un tentativo di riavvicinamento, un tastare il terreno, un… ma che vuoi? Adesso ti ricordi di me…?
Che hai fatto?
Non mi pare tu ti sia preoccupato per la mia di salute.
E poi perché prodursi nello squallido numero del fantasma?
Che senso ha?
Basta pazientare.
Perché torneranno.
Tornano sempre.
Tornano TUTTI.
A produrre testimonianza della loro presenza con un messaggio, una telefonata, quando non importa più riceverli.
Allora, sì.
Allora sarebbero stati graditi, vitali, sicuramente importanti.
Da quella riva del fiume sulle quale amo sedermi, li vedo passare, uno ad uno.
Tornano sempre.
Tornano TUTTI.
Tornano quando non te ne frega proprio più un cazzo.
E ogni volta quando accade, ogni benedetta volta, reagisco sempre allo steso modo.
Rido.
Ma oggi, no.
Oggi questo ritorno, che si somma a tutti gli altri, non mi fa sorridere.
Oggi mi fa incazzare.
Ci hanno insegnato che “In amore vince chi fugge”. Grossa cazzata.
Non ho mai considerato attraente rincorrere, né tantomeno essere rincorsa.
Quando percepisco un allontanamento, mi allontano a mia volta. D’istinto, per difesa, perché credo che in amore vinca chi si viene incontro.
Ed è per questo che mi hanno iniziato a infastidire i ritorni. Perché se io mi allontano, non lo faccio per gioco o per testare la veridicità del detto della fuga. Se mi allontano è perché non mi trovo più bene dove sto.
Se mi allontano, dopo che ho provato in tutti i modi a stare vicino a qualcuno, non mi interessa essere rincorsa, perché non mi interessa più quella vicinanza.
Se tenete a distanza qualcuno e questi vi asseconda, quindi si distacca, fino ad andarsene, poi per quale motivo cercate di colmare quella lontananza che voi stessi avete creato?
Gente,
uomini, donne, grandi, piccini, gay, etero, pansessuali, vi devo proprio dire una cosa:
quando decidete deliberatamente di ripiombare nella vita di qualcuno, rubando le stupende parole di una mia cara amica, ricordate che state compiendo solo un gesto egoistico.
Magari avete quel senso di colpa che non si placa, be’, dovete tenervelo.
Non è compito dell’altra persona fare i conti con i vostri mostri. Anche se, probabilmente, l’ha già fatto.
Quando decidete di spezzare il salvifico silenzio che si interpone fra di voi, dovete considerare che nella maggior parte dei casi, non otterrete quel che avreste voluto.
Quindi, evitate.
Ammetto che la mia autostima fa la ola per ogni vostro ritorno, per ogni gesto di riavvicinamento, ma non basta.
Ricordiamoci tutti che:
Tornato tutti;
Tornano tutti, mordendosi le mani;
Tornano tutti quando sarebbe bastato semplicemente non allontanarsi affatto;
La vendetta sovente arriva quando non ci pensiamo più e, spessissimo, senza fare nulla;
Il Karma è micidiale.
E, più importante di tutto:
Le persone bisogna apprezzarle quando le abbiamo a fianco e non solo una volta perse.
Ci potevate e dovevate pensare prima.
Quindi, occhio a quel che fate, perché prima o poi, vi attaccherete tutti al Karma.
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Questa frase qui, in diverse salse e rivisitazioni, l’ho sentita non so quante volte.
Ogni volta ho pensato frettolosamente che non fosse proprio così e sono andata oltre.
Nell’ultimo periodo mi è stata riproposta, in maniera diretta e non, e mi ci sono soffermata di più.
Ho cominciato a ragionarci davvero, a cercare di capire se e quando ne abbia avuto conferma di veridicità.
Potremmo scomodare la LoA, la psicologia e la sua “profezia che si auto avvera”, ma è tutto molto più semplice:
«La qualità delle tue relazioni riflette quello che credi di meritare».
Se credi di meritare molto, quello avrai.
Se abbassi l’asticella delle pretese, ti accontenti, ti fai bastare la miseria, quello avrai.
Se ritieni di non essere degno di ciò che vorresti, desideri e ti auspichi, quello otterrai.
Se banchetti con le briciole, anziché ambire a un pasto migliore o preferire il digiuno in assenza di esso, le briciole saranno quel che penserai di meritare. Nulla di più.
Se ti racconti che nessuno mai potrebbe interessarsi a te, nessuno ti farà compagnia.
Se ti barrichi nel castello della tua solitudine, sarai il solo guardiano di te stesso.
Se ritieni accettabile essere una seconda scelta, una riserva, una tantum lo sarai.
Se ti fai bastare un rapporto superficiale, piuttosto che niente, delle limitazioni che contrastano con quel che vuoi davvero, delle etichette quali “solo sesso”, “solo quando non ho di meglio”, “solo quando va a me”, quello sarai.
Ho pensato a tutte le infinite volte in cui mi sono accusata (ed ero pure convinta) di aver sbagliato io ad agire o a comportarmi in una certa maniera.
Quanto mi sia incaponita, abbia giustificato, abbia lasciato correre, pienamente cosciente che NON era quello che volevo.
Quanto mi sia raccontata che le mie esigenze non fossero importanti, fossero dettagli, che il poco fosse comunque meglio di niente.
No, meglio niente!
Piuttosto che qualcosa che tradisca le nostre speranze.
A quanto spesso avessi forzato le cose nel sentire o nel vedere qualcuno, quasi “costringendolo”, quasi supplicandolo, non considerando che ME LO MERITO, eccome, uno non veda l’ora di vedermi, sentirmi, amarmi.
A un certo punto, abbiamo ritenuto che fosse “normale”attendere accanto a un telefono.
Accontentarsi dei ritagli di tempo, orari ben precisi, scampoli di momenti.
Rinunciare ad ambire a un rapporto pulito, semplice, paritario.
Abbiamo addirittura deciso che l’Amore, l’affetto, i sentimenti, fossero un qualcosa di cui dovessimo quasi vergognarci, un impedimento che rovina tutto, emozioni da non rivelare mai che poi – oh – scappa, non mi vuole più, si spaventa.
Non meritiamo TUTTI di essere amati?
Perché rinunciarci?
A tutto questo, a tutto quello che non ci fa stare bene, in pace, felice, occorre dire NO.
Rifiutare tutto quel che sia al di sotto delle nostre aspettative, di come intendiamo i rapporti, di quello che vogliamo ricevere.
Magari coscientemente nessuno si aspetta di essere maltrattato o tradito, che debba essere così una relazione.
Non meritavo le sparizioni.
Non meritavo di essere la seconda scelta o quella di riserva.
Non meritavo di essere lasciata per telefono, senza troppi complimenti.
Tutta questa gente qui, non meritava le mie lacrime, né le mie attenzioni, le cure, l’affetto, l’ostinazione.
Troppe volte abbiamo dato una possibilità a chi offriva miseria, perché – in fondo – era meglio di niente.
Permesso pedissequamente palesi mancanze di rispetto per paura di parlare, o di creare problemi, o porre realmente fine a un rapporto che non dà la reciprocità che dovrebbe.
È doloroso, oh sì, lo è.
Pure i rapporti insoddisfacenti lo sono.
Le delusioni continue.
La fiducia malriposta.
È tutto molto doloroso.
Ma se continuare a sopportarlo o meno, siamo noi a deciderlo.
Siamo noi a sapere se lo “meritiamo” o no.
Forse sono esagerata, le persone sbagliano, non possono essere all’altezza delle mie aspettative…
Ecco. Le aspettative.
Se ti aspetti mediocrità, quello avrai.
Pure in ambito di amicizia, vogliamo davvero che un amico sia colui che ti dà per scontato, che si è talmente abituato alla nostra presenza, da non apprezzarla più?
Se questo è quello che accettiamo, se fondiamo la nostra conoscenza dell’affettività su rapporti disparitari viziati e non appaganti, quello avremo.
Ho sempre pensato che, perdendo una persona, fossi io quella che ci rimetteva di più.
Ultimamente, no.
Ultimamente credo sia veritiero anche il detto “Chi non ti ama, non ti merita”, ovvero non ti capisce, non ti sa apprezzare, non si rendo conto di quello che potrebbe avere.
Quindi, perché dovrei essere io ad agire?
Perché abbiamo rinunciato pure alla cavalleria, alla galanteria, al corteggiamento?
Perché pensiamo di non meritarli più, di dover per forza darsi da fare, patire, subire un rapporto e non sceglierselo deliberatamente?
Meritiamo di essere trattate da DONNE.
Qualcuno me l’ha detto:
«Sei una donna, fatti trattare da tale»
Mentre mi toglieva di mano le valigie che volevo a tutti i costi portare da sola.
Stupita, da quelle piccole attenzioni che non si ricordano nemmeno più, perché cadute nella nostra quotidiana disabitudine.
Abbiamo messo da parte i privilegi che comporta l’essere donna, in nome di una parità di sessi che sottintende una contraddizione implicita.
Ci hanno creati diversi.
SIAMO diversi.
Questa cosa qui dell’indipendenza, dell’autosufficienza del femminismo, dell’emancipazione, l’abbiamo recepita male.
Non significa di certo rinunciare ad esserlo, donne, femmine, con onori e oneri.
E non contrasta per forza con l’autonomia e l’emancipazione.
Abbiamo i nostri “ruoli”, attitudini diverse, palese inferiorità fisica.
Il barattolo riesco pure ad aprirmelo da sola, ma quanto è più bello potertelo chiedere e sapere che dall’altra parte c’è una risposta entusiasta, un qualcuno che non vede l’ora di esserti di aiuto, di fare l’uomo di casa, di prendersi cura di te. Perché meritiamo qualcuno che si prenda cura di noi e dobbiamo permetterglielo.
Allo stesso modo, io ti posso pure invitare a uscire con me, e sicuramente tu mi diresti di sì, ma perché dovrei farlo?
Perché dovrei rinunciare al mio “ruolo” di preda che ha già scelto? Che lascia a lui il piacere della conquista, l’illusione di avercela fatta, mentre invece io ti avevo già puntato da prima che tu ti accorgessi di me, e avevo giurato che saresti stato mio.
Abbiamo permesso a noi stesse di convincerci di non meritare più la cavalleria, la galanteria, il corteggiamento.
Che fossero superati, desueti, non più importanti.
Invece, io me lo merito un cazzo di invito a cena.
Un uomo che non è in grado di alzare un dito per comporre un numero, non merita di certo che io gli faccia alzare altro.
Me la merito una cazzo di telefonata.
Mi merito una grandiosa “botta”, ma anche il prima e il dopo.
Mi merito il mare.
Le domeniche al mare, le passeggiate, il mano nella mano, i giochi, le discussioni, le coccole, i confronti, i salti mortali per riuscire a vedersi, i compromessi, le rinunce, le conquiste, la cura, l’affetto, l’Amore, mi merito TUTTO.
Merito di essere amata liberamente.
Adesso sono sola, è vero, ma non me ne dispiace.
Perché ho ben chiaro quello che finora mi è stato offerto.
E non perdo più tempo, pensieri, parole, opere e omissioni per chi non lo merita.
Non aspetto, non chiedo, non cerco di convincere, non supplico, non abbasso l’asticella.
Meglio niente, che meglio di niente.
Finalmente SO quel che merito io.
E tu, cosa pensi di meritare?
”Io sono un esperto di menefreghismo.
Il segreto è smettere di preoccuparsi per la salute delle chiappe degli altri e cominciare seriamente a pensare a quello che vuoi tu,
a quello che tu meriti e a quello che il mondo ti deve, capito?!”
Mi fanno sorridere quando mi dicono che ce l’ho a morte con gli uomini.
Non è vero.
Sono cresciuta in mezzo agli uomini, sono sempre stata la compagnona e loro amica. Li conosco così a fondo perché li ho frequentati moltissimo e ho accolto le loro confidenze.
Mi sono sempre trovata bene con gli uomini.
Casomai ce l’ho con le donne…
Anni fa, ero a cena col mio fidanzato dell’epoca e ci stavamo divertendo molto.
Locale intimo, ambiente curato, gente rilassata, buon cibo e risate. Una serata perfetta.
Il nostro idillio fu ben presto interrotto quando, poco distante da noi, una coppia iniziò a litigare in maniera violenta.
In questi casi, si viene pervasi da un certo imbarazzo, una lotta interiore tra il desiderio di intervenire e il pudore che ci spinge a far finta di niente. Noi altri commensali rimanemmo tutti così, sospesi, finché l’uomo iniziò a colpire la donna sul volto. Fortunatamente, intervenne subito il personale di sala che lo condusse fuori.
Lei continuò a piangere e rimase seduta al tavolo, da sola.
Mentre pian, piano nelle altre cene riprendevano i discorsi e l’atmosfera distesa che vi albergavano prima dell’interruzione.
Sono passati anni, ma non ho mai scordato tutta quella scena.
Poco dopo mi alzai per andare in bagno. Tornando, incrociai lo sguardo di quella donna che cercava di concludere la sua cena, come se nulla fosse accaduto. Le abbozzai un sorriso, al quale lei rispose, ricominciando a piangere.
Fu l’istinto a muovermi, perché ricordo che non ci riflettei per nulla, fu un attimo, uno slancio. Mi avvicinai a lei e l’abbracciai. Forte. Lei ne fu così grata che offrì da bere a me e al mio ragazzo, ci invitò a sedersi con lei e noi le regalammo un’oretta di risate in un finale di serata che, altrimenti, non le avrebbe affatto previste.
Avevo circa vent’anni, ma sapevo che, se fosse successo a me, di essere picchiata e umiliata in pubblico e di restare poi da sola, avrei voluto che qualcuno mi avesse abbracciato.
Un’amica, una sorella, magari.
Ero molto pura, ingenua, con una bontà d’animo innata, amplificata dalla giovane età.
Di quella bontà che, scontrandosi con la vita e l’esperienza, inizia ad avvizzire, per poi quasi sparire.
I maschietti di qua, le femminucce di là. Ci dividono, ci raggruppano, a scuola, nei bagni, nei giochi, veniamo cresciuti con un senso di appartenenza di genere ben delineato.
Per questo, da piccola vedevo le altre donne come sorelle da difendere e spalleggiare, custodi comuni della femminilità, delle forme aggraziate, perfino della debolezza e delle paturnie.
Le altre donne sono mie sorelle. Solo loro possono comprendere certe cose, sono il mio confronto, il mio conforto, il mio specchio.
Questo pensavo, sicuramente fino ai vent’anni.
Poi le donne mi hanno delusa.
Si sono trasformate in sorellastre.
Questo legame dato dal genere capii che era un qualcosa che percepivamo in poche.
Le altre… Be’, le altre mi hanno insegnato a evitare l’intera categoria.
Biasimiamo gli uomini, ma non teniamo conto che loro di certe meschinità non sono capaci. Ne siamo coscienti, eccome, ma non lo proclamiamo a voce alta, per paura che qualcuno pensi a noi e ci omologhi come quelle arpie che ha avuto il dispiacere di incontrare.
Ma lo sappiamo, certo che lo sappiamo.
Ci sono sempre piaciuti di più gli insegnanti di sesso maschile; sul lavoro speriamo di interagire con uomini; quando ci presentano una donna abbiamo sempre il timore che possa rivelarsi un’immensa stronza, non è forse vero?
Io stronza lo sono, ma con chi sa meritarselo.
Invece di stronze gratis ne ho incontrate tante: quelle acide, eccessivamente dure senza motivo, abbrutite nei modi e nella parvenze, meschine e snob. Quelle donne che mi fanno rinnegare il mio genere.
Sono molta più prevenuta nei confronti delle donne che degli uomini, lo ammetto. Ma sono sempre ben lieta di ravvisare un cambio di opinione sulle persone, specie se prima era negativo.
Perciò, una volta, fui molto felice di annunciare alle mie amiche che, quella che prima avevamo etichettato come brutta arpia, avendola frequentata un po’ di più, non lo era per niente.
Era cambiata, o l’avevamo giudicata male e frettolosamente, che – sul serio! – non è male, anzi!
Ragazze, ve lo dico, è stata una gran sorpresa.
Ne ero contenta.
Poi il destino volle che ci ritrovammo una sera una mia amica e io, l’ex iena e innumerevoli altre persone.
Fu in quell’occasione che la redenta stronza ebbe la cura di rivelare un mio dettaglio intimo e riservato, davanti a una pletora di una quindicina di persone che – oh mannaggia – avevano tutte sentito, ma certo.
Io guardai qualcuno di questi per coglierne l’espressione: i sorrisi trattenuti e pure lo stupore nell’udire l’esternazione, mi confermarono che su quell’argomento ne erano già stati fatti parecchi di commenti, ovviamente.
Lei mi fissava con un sorriso stolido che si beava della cattiveria gratuita appena regalata.
Anche io le mostrai il mio sorriso, ma di disprezzo.
Quello muto che, però, esprime molto bene i miei sentimenti. Quello che riservo a esemplari di una “poraccitudine” leggendaria. Che non è povertà economica, nemmeno povertà d’animo, quelle spesso sono condizioni involontarie. La poraccitudine è un’altra cosa: è compiacimento della propria grettezza; il provare gusto dalle cattive azioni; godere dei colpi bassi e miserrimi, pochezza estrema, questo è.
Questa qui, fulgidissimo esempio di poraccitudine femminile nei confronti di un’altra donna.
E gratuita, soprattutto.
Perché io questa qui, più di tanto, non l’ho mai coperta – come si dice a Cambridge – e forse questo è il suo grazioso modo di attirare attenzione. Mi fa quasi pena, togliendo il quasi.
Ho sorriso alla mia amica e commentato con un:
«No, rettifico. È sempre una grandissima stronza!»
Lo è davvero e non mi prenderò più la briga di scoprire se, sotto sotto, riserva anche del buono.
Queste donne qui mi confermano che la solitudine è sempre preferibile a certe compagnie.
Può inoltre capitare, e spesso, che signore che nemmeno conosci impieghino parte del proprio tempo a parlare di te. Rilevo sempre un certo moto di orgoglio e di soddisfazione, apprendendolo, perché io – invece – non me lo sognerei mai di sprecare i miei preziosi minuti per sparlare di illustri sconosciuti. Grazie per l’attenzione, davvero.
Quel che mi ha lasciato abbastanza interdetta è stato il fatto che questa donna (manco ragazzina e discretamente più grande di me) perdesse del tempo della propria vita a commentare i miei outfit. Ovvero di una che non conosce nemmeno il suo nome.
Tanto per completezza di informazioni, prediligo i vestiti perché sono più pratici e “tattici”, conosco il buongusto e, purtroppo, ho una fisicità già appariscente che – quindi – può facilmente scadere nella volgarità, che detesto. Perciò evito gonne inguinali, scollature esagerate e tutto ciò che reputo “troppo”, ma questi sono ragionamenti troppo elevati per le menti piccole.
Nella fattispecie, la signora aveva commentato i miei vestiti invernali, che accompagno a calze coprenti da cento (100!!) den, e stivali. Quindi vi lascio immaginare la quantità di carne che fosse visibile. Zero.
Non scordando di chiedersi perché mai ogni giorni fossi vestita e truccata di tutto punto (Cazzi miei, magari? Svegliati prima e fallo anche tu, tesoro! Io sono sempre per il movimento “No sciatteria!”);
Domandandosi ancora chi mi credevo di essere (seria?! Se una osa non trascurarsi si crede chissà chi, logico);
E, infine, rammentando che non ero una ragazzina e non potevo andare in giro come mi pareva (che autogol clamoroso! Dare della tardona a una che ha vent’anni meno di te! Un giorno facciamo lezione di insulti, dai).
Ah! Ovviamente tutto questo mica l’ha detto a me, figuriamoci! Ma alle mie graziose terga debitamente agghindate.
Neanche ci credevo io a questa cosa dell’invidia, ma – col tempo – mi sono parecchio ricreduta.
Mi fanno sorridere quando mi dicono che ce l’ho a morte con gli uomini.
Non è vero.
Sono cresciuta in mezzo agli uomini, sono sempre stata la compagnona e loro amica. Li conosco così a fondo perché li ho frequentati moltissimo e ho accolto le loro confidenze.
Mi sono sempre trovata bene con gli uomini.
Casomai ce l’ho con le donne.
Queste donne qui che sviliscono la categoria, che ci fanno passare tutte per un branco di meschine mestruopatiche.
Quelle che danno voce all’invidia e alla cattiveria gratuite.
Quelle che ti fanno notare a voce alta, tra la folla, se non hai qualcosa a posto.
Quelle che ti squadrano, senza mai complimentarsi.
Quelle in competizione continua con le altre che, spesso, ne sono pure inconsapevoli.
Quelle che devono essere sempre e comunque protagoniste, a discapito di tutto e tutti, che distruggono rapporti pur di non scendere dal loro piedistallo immeritato e auto-costruito.
Quelle perennemente incazzate col mondo, con la puzza sotto il naso che, probabilmente, proviene da loro stesse.
Quelle che hanno dimenticato cosa significhi ridere con gli altri e non degli altri, o che additano come pennuta starnazzante qualsiasi collega d’utero che ha imparato a vivere con leggerezza e che della vostra severità d’animo se ne strafotte, perché le donne intelligenti sanno anche quando sorridere.
Quelle, invece, col sorriso finto più dei miei ventinove anni. Il sorriso rabbonitore atto a ottenere perché loro – oh sì – sono proprio furbe e ammaliatrici! E che malcela un’anima infima che non lesina di vomitare improperi sovente alle spalle di quelli ai quali hanno appena sdoganato gli incisivi.
Quelle che non coltivano amicizie, ma rapporti di convenienza. E scaricano chicchessia, non appena ha asservito al loro scopo.
Queste donne qui, che mi hanno insegnato a evitare l’intera categoria.
A distinguere tra “Amiche” e “Appena conoscenti”.
A vergognarmi di condividere con costoro il genere, la capacità di procreare e quel senso di appartenenza che, ora, è solo un bel ricordo.
A rammentarmi che il mio essere diversa che dapprima vivevo con disagio, oggi mi fa essere davvero fiera di me!
Queste donne qui, che ogni giorno mi ricordano che c’è molto più affetto autentico nei vari «Brutta zoccola!» che ci scambiamo con le mie (poche) amiche, che in tutti i vostri finti «Amore! Tesoro!”»
L’altro giorno ho ritirato fuori la storia dell’Uomo Invisibile, il mio Fidanzato Immaginario.
Per chi non lo sapesse, è la scusa che adotto per scoraggiare i pretendenti indesiderati che conosco poco e ignorano il mio perpetuo status di zitellaggine:
«Non posso proprio, c’è lui! Altrimenti, guarda, uh! Ci uscivo correndo con te!»
Mi sembra sempre una motivazione più garbata che rispondere: «Con te non ci uscirei neanche se fossi l’ultimo uomo sulla terra» per diversi motivi.
Ma – ahimè – la gentilezza non paga mai…
Nella mia testa da inguaribile ottimista, un uomo dovrebbe desistere e non insistere, sapendo che la fanciulla ha il cuore occupato.
Col cavolo.
Ho imparato, infatti, che al mio Uomo Invisibile mancano di rispetto continuamente, tutti se ne fregano della sua presenza al mio fianco e si ostinano a provarci (se esistessi, ti dovresti incazzare di brutto, te lo dico).
Paradossalmente una donna “impegnata” attrae di più e il motivo è abbastanza intuitivo: perché non può avere grosse pretese.
Nella fattispecie, al soggetto in questione quest’oggi, avevo fatto menzione dell’Uomo Invisibile ancor prima che avanzasse qualsivoglia tipo di invito. Perché l’avevo intuito, sapevo dove sarebbe andato a parare e volevo del tutto evitare.
E invece, niente.
In più, il tizio mi aveva già rivelato la presenza di moglie e prole, però questo non costituiva un ostacolo dal provarci.
La gestione della sua relazione è affar suo e a me non interessa nulla, come si rapporta con me – invece – mi interessa, eccome.
Di base, gli uomini impegnati (a qualsiasi livello) che mi chiedono di uscire, mi stanno sulle palle. Di default.
Si dimostrano irrispettosi non solo delle loro donne, ma anche di me.
Primo perché mi stanno offrendo sveltine, messaggi, telefonate segrete & Co, repertorio completo; secondo perché sottintendono che io sia una che può accettare un tipo di relazione del genere. Sulla base di che cosa non si sa.
In questo caso, oltretutto, pensando pure che sia l’allegra fedifraga che cornifica il suo Uomo con nonchalance (lo sai che non te lo farei mai! ❤)
Per tutti questi motivi, di base, gli uomini impegnati (a qualsiasi livello) che ci provano, mi stanno sulle palle.
Ma ho imparato che, purtroppo, ormai il provarci comunque è un pratica assolutamente ordinaria.
Mi sono abituata a conviverci, senza troppi drammi. Lasciandomi giusto il perenne interrogativo sulla qualità delle relazioni 2.0, un diffuso senso di mestizia, ma anche di affrancamento perché, al momento, non mi riguardano.
Come sembra lecito che tu ci provi, lo è altrettanto che io possa rifiutare.
“Ni”.
Perché, nella maggior parte dei casi, quelli che ci provano comunque, si risentono se tu non ci stai.
E, soprattutto, chiedono spiegazioni.
SPIEGAZIONI.
Quando il buon senso imporrebbe che il solo fatto di essere impegnati, precluda qualsiasi tipo di intrattenimento comune.
O magari no, non ti basta?
Ti ho comunque già detto NO!
Perché te lo devo pure motivare, vuoi un disegno?
In genere, quando rispondo che non mi sembra cortese e rispettoso nei confronti del mio Fidanzato (Immaginario), parte una sequela infinita e sempre uguale, atta a correggere il tiro, di frasette del tipo “Ma che te sei messa in testa??”
«Guarda che hai capito male, mica ho secondi fini, voglio solo fare due chiacchiere, allora con gli amici non ci esci» e blablabla.
Con gli amici esco, sì.
Qui stiamo parlando di uno mai visto e conosciuto che ti invita.
Alzi la mano chi crede che sia per esclusivo scopo amicizia.
Non vi vedo…
La sua argomentazione:
«Perché mica ti ho invitato in albergo!»
Ah, scusa.
Allora hai ragione tu.
Ho capito male.
Chissà che mi ero messa in testa.
Dovrei perfino ringraziarti e congratularmi per la cortesia dell’invito.
[c’è poco da ridere, uno mi invitò direttamente in albergo, sul serio. Da tenere a mente quando mi dite “Sei troppo prevenuta”]
La sua soluzione:
«Basta non dirglielo! Io a mia moglie mica lo dico!»
Un genio, Signori.
Il Manuale del tradimento Capitolo1: Non chiedere, non raccontare.
…e la domanda che sorge spontanea: se è una cosa innocente, perché va nascosta??
E quando io mi ritrovo, così, ulteriormente, a ribadire, rimarcare, riaffermare che continua a non sembrarmi una gran furbata, che non mi piace e non mi va di farlo (ma per quale cazzo di motivo mi sto giustificando da tre ore, perché dico io, perché?? Mannaggia a me e la gentilezza!! Che mo gli dico solo “Mi fai schifo e oltretutto sei un gran cafone” così forse capisce!!) arriva – immancabile – la stoccata finale:
«Ah, ecco! Abbiamo una Santa!»
Ora, io Santa non mi sono mai considerata, anzi.
Credo che a ognuno di noi sia capitato di derogare alla regola aurea di non intraprendere relazioni con gente impegnata, a me di sicuro e, per questo, non mi sono mai sentita né una puttana, né una da applaudire.
È capitato, basta.
Non è di sicuro quello a cui aspiro, né me lo vado a cercare.
Come gestisco la mia vita, le mie relazioni, e gli uomini che scelgo o meno di frequentare, credo siano squisito affar mio.
Soggetti che, per questo, una volta rifiutati, si permettono di appellarmi in un dato modo, o di ricordarmi che “Ogni lasciata è persa” e potrei pentirmene, e che, ben presto, invecchierò e non mi vorrà più nessuno; mi danno conferma non solo della bassa qualità dell’intrattenimento cui sto rinunciando, ma – soprattutto – della bassa qualità della persona.
Infatti, non stare con costoro non l’ho mai considerato un grosso sacrificio.
Come spesso mi accade di fronte a certi individui, non mi faccio prendere dal:
«Ah, adesso gliene dico quattro! Gli faccio vedere io!»
No, non me ne frega niente.
Pensa ciò che vuoi.
La gentilezza a un certo punto la dimentico e ti tratto come meriti.
Un bel fanculo manifesto o sottinteso e saluta moglie e pupi.
Passa alla prossima.
Con cotante armi di seduzione a tua disposizione, sono certa che hai una gran fila da soddisfare.
Comunque, prima o poi, quando diventerò davvero, davvero, cattiva; quel giorno in cui arriverò alla saturazione totale; quando succederà – e succederà – che i sentimenti residui di empatia, gentilezza e “lascia sta” mi abbandoneranno totalmente, io lo farò.
Aspettatevelo, accadrà.
Contatterò una ad una le vostri gentili e ignare compagne.
Così, per vedere che ne pensano loro dell’intera questione.
Sono strasicura che commenteranno tutte (tranne una) con un tranquillo e innocentista:
«Be’? Che male c’è? Mica ti ha invitato in albergo! »
Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.
Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…
La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.
Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?
Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.
Non sarei dovuta neanche essere lì…
Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.
Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.
Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.
«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»
Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!
Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.
…BB, c’è posto per te!
Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.
In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.
Che ne siamo coscienti o no.
Che lo vogliamo o no.
Come era successo a me.
Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.
E allora…
Metti una Barbie sul Mar Rosso.
Metti una lussuosa barca di 40 metri.
Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.
Metti 20 Sub insieme.
Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.
Isolati.
Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.
E lontana…
In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.
“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.
Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.
Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.
Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.
Mi piace. Cavolo, questo mi piace.
Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.
Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.
Eppure…
Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.
Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.
In tutti i sensi.
“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.
Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.
Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.
Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.
Come… come un’abitudine.
Ora sembrava tutto così lontano…
Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.
Una settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.
Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.
Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…
E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.
Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.
Non va bene neanche sentirsi dire:
«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»
Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?
Ma tutto questo non va bene.
Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.
Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?
Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??
Ma QUANDO è successo?
Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?
La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…
Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.
Non andava bene per niente.
Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.
Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.
Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.
Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.
Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.
E ne sono stata felice.
A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…
Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.
Un’isola tra le isole, ma non più isolata.
A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»
Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.
Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:
“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,
all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.
Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.
Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di “Carpe Diem” ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.
Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.
Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.
Fa parte delle maschere che indossiamo.
Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.
Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.
Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.
Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.
Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità.
Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.
E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.
Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.
La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.
Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.
Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.
Ho sorriso.
Tu non sai chi sono io.
Ho sorriso di nuovo.
Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…
Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.
«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.
Non credo c’entri questo.
Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali…
La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.
È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.
Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.
Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.
In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.
Io ho immaginato la scena più o meno così:
«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»
E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.
Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.
Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.
Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.
Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.
Come quando nessuno ti conosce.
Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.
Magari risiede in questo la differenza.
O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.
Capita.
Perché c’è speranza, Signori.
C’è sempre speranza.
Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.
Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.
Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.
E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.
Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.
Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!
Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.
Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.
Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo. Che culo! (appunto)
Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.
Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.
Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.
Magari imparo davvero.
Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.
C’è speranza Signori.
C’è sempre speranza.
Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.
Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.
Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.
Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.
Ma ne vale la pena.
Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.
Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.
VOLENDO.
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.
John Donne
Ai miei compagni di questo viaggio,
alle picchiate a cinquanta metri,
le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.
Grazie 😉
NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”
[…]
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
[…]
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe.
[…]
“Addio”, disse.
“Addio”, disse la volpe.
“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.
Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.
Sto avendo interessanti dissertazioni a proposito dell’ultimo accesso di WhatsApp, questo diabolico strumento causa di parecchi malesseri nell’era tecnologica.
Io faccio parte di quella schiera di personaggi snob (appellati spesso come “stronzi”) che non solo hanno tolto la visibilità dell’ultimo accesso, ma anche quella di consegna, la famigerata ‘spunta blu’.
Agli occhi di tutti appariamo come loschi figuri con qualcosa da nascondere, ma la verità vera è che la nostra scelta sottintende una dietrologia ben più egoistica a salvaguardia della nostra salute. Soprattutto quella mentale.
Io mi sento affrancata da questa ulteriore ansia di sapere QUANDO è in linea CHI e se abbia letto già, o meno.
Se sceglierà di ignorarmi o mi risponderà lo scoprirò comunque. Perché stressarmi nell’attesa?
E soprattutto: sapere che a tale ora era online, mi rivela con chi? No.
Mi svela cosa si digitassero? Ancora no.
Allora che controllo a fare?
Occhio non vede, cuore-che-pulsa non duole.
Vi dirò di più: so per certo che in sofisticate tecniche di ingelosimento si adotta l’accesso ad minchiam su WhatsApp per far rosicare il partner, tenerlo sulle spine e capire quanto ci tenga.
Se per caso di notte vi svegliate, basterà aprire le conversazioni perché il vostro ultimo accesso venga registrato a quella tale ora. Se al mattino sarete buongiornati da un sobrio “Conchicazzostavichattandoalle4dopochemihaidettocheandaviadormire??”
Saprete con certezza che
-è geloso/a, quindi ci tiene.
-vi stalkera, quindi vi ama.
Ma che rassicurazioni puo dare il monitoraggio di un orario?
Viceversa, un ingresso cosa dimostra esattamente?
A voi non capita mai di aprire solo per rileggere qualche messaggio?
Io ci passo le ore, mentre qualcuno fantasticherà su chi/cosa/chissà stia facendo.
Ripetiamo insieme: anche se vedo quando è entrato/a su WhatsApp, questo non mi garantisce inconfutabili prove di (in)fedeltà.
Gente, guarite e oscurate.
Chi vi mette nella condizione di stalkerare per sapere se è sveglio, attivo e vi ignora, non merita che voi perdiate il vostro tempo e i vostri pensieri per lui/lei.
Il tempo va investito CON le persone. E non PER le persone. È una Campagna BB per il sociale. Abbandona anche tu l’ultimo accesso!
PS: comunque si può sempre controllare Messenger. Quello – ahimè – non si può nascondere. 😉
Stamattina ho avuto ulteriore conferma che “Tornano tutti”. Spessissimo, tornano quando non ce ne frega proprio più niente, e che il Karma è implacabile.
Ma andiamo con ordine…
Diversi anni fa, in una giornata di fine Agosto – come ora – in una mattina pre-partenza impiegata a effettuare gli acquisti dell’ultimo minuto, conobbi un tizio.
Chiacchierammo un po’ e, infine, ci scambiammo i numeri di telefono.
Mi disse che gli avrebbe fatto piacere vedermi quella settimana, a cena, ma non era possibile perché io stavo per partire e sarei tornata solo il sabato successivo.
“Allora ci sentiamo quando torni” mi rispose.
Io annuii, senza troppa convinzione.
Trascorsi la mia splendida settimana in Salento, scordandomi completamente di quell’incontro.
Fino a quel famoso sabato di rientro in cui, mentre ero ancora in viaggio, in macchina, lui mi chiamò per accordarci su quando vederci.
Cavolo, questo è stato una settimana intera a pensare a me!
È interessato. È molto interessato… Fico!
Uscimmo.
Ricordo perfino come ero vestita quella sera:
un paio di jeans chiari, larghi in fondo, come piacciono a me, che mi stavano da Dio;
un top nero di pizzo che metteva ben in evidenza le gemelle, senza risultare volgare, e che lasciava giusto intravedere il piercing all’ombelico.
Una zeppa nera con dei fiori bianchi.
I capelli molto lunghi lasciati selvaggi, ricci,
il mio solito profumo alla vaniglia.
Era stata una serata molto piacevole, all’Isola Tiberina, a bere, rimirar le stelle e raccontarsi.
Una serata di fine Agosto, come adesso.
Alla quale avevano fatto seguito svariati baci della buonanotte, anch’essi belli, con lui che insisteva perché lo seguissi a casa sua.
Avevo saggiamente declinato.
Dopo questo primo incontro, ci fu circa una settimana di nulla più assoluto, durante la quale io mi ero torturata a dovere e avevo stilato una lunga lista di errori che avevo commesso e svariati difetti che possiedo, a causa dei quali è più che naturale che uno non mi voglia più né vedere, né sentire.
Avevo sbagliato a non starci, ma no. Questo mi dimostrava solo chiaramente che tipo fosse lui e non mi interessava. O forse sì?
Paturnie, signori.
Femminee paturnie a noi purtroppo ben note.
Finché decisi che dovevo dipanare ogni dubbio e sapere la verità, sapere se quella sbagliata fossi io o lui, quindi gli scrissi.
Lui mi rispose che era mooolto incasinato col lavoro, gli alieni, le partite di calcetto, ecc, ecc…
Scuse che, negli anni a seguire, ebbi modo di udire più e più volte.
Asserendo che tutti quegli impegni, gli lasciavano libero solo il sabato, e non poteva sciuparsi il sabato sera per uscire con me.
Questo disse.
Lo disse davvero.
Sorrisi e incassai, ma non lo scordai mai.
Aggiunse, inoltre, che quella sera si sentiva particolarmente stanco, dolorante e che avrebbe molto gradito se “qualcuno” fosse andato a casa sua per fargli un bel massaggio.
“Conosci chi potrebbe farlo?” Mi chiese.
Io iniziai ad essere allusiva, stuzzicante, gli dissi che, sì, conoscevo qualcuno molto ben disposto a soddisfare questa sua esigenza.
“Davvero?”
“Ma certo…”
Mi figuro ancora il suo sorrisetto compiaciuto, spento dal mio invito a cercarsi una massaggiatrice tra gli svariati annunci ad uopo presenti ne ‘Il Messaggero’.
Non lo sentii più.
Nel corso di questi anni, ebbi modo di vederlo altre volte, di sfuggita, in diverse circostanze.
Entrambi ci guardammo bene dal rivolgerci la parola.
“Chissà se si ricorda di me?”
Mi sono domandata, in queste occasioni.
Stamani, ho avuto la mia risposta.
All’inizio credevo che scherzasse, che giocasse agli “sconosciuti”, poi ho capito che non aveva la benché minima idea di chi fossi.
Non ricordava di avermi già conosciuta, già baciata, già trattata di merda.
Non ricordava nulla.
Ma io sì.
Ho riassaporato lo stesso modo di abbordare, neanche affinato dal tempo trascorso, le medesime frasi, battute e complimenti.
Gli anni non lo avevano cambiato, ma a me sì.
Solo per un attimo sono stata tentata di rivelargli chi fossi, ma ho concluso che fosse molto più divertente non farlo.
O forse sarebbe stato troppo umiliante da sopportare un “Non ricordo” di risposta e non volevo rischiare.
Gli ho dato giusto un indizio, quando mi ha chiesto che lavoro facessi:
“La massaggiatrice” ho sghignazzato.
Ma lui non ha colto. Ha solo fomentato il suo interesse.
Ho fatto finta di non capire, quando mi ha chiesto – nuovamente- il numero e ho continuato a farlo parlare, a fargli dare il meglio di sé, in questa complicata jungla dei rapporti umani, in cui un giorno sei cacciatore e l’altro preda.
Mentre aspettavo solo il momento più opportuno per colpire…
Ha, quindi, dichiarato che gli avrebbe fatto piacere vedermi questa settimana, a cena.
“Ho solo il sabato sera libero…”ho risposto.
“Perfetto. Allora ci vediamo sabato!”
Ho sorriso.
L’ho scansionato dalla testa ai piedi, lentamente, passandomi la lingua sulle labbra, come una fiera che pregusta il proprio pasto.
Ho puntato i miei occhi dentro i suoi, senza smettere di sorridere.
Infine gli ho detto:
“Ma ti pare che spreco il mio sabato sera, per uscire con te??” 😉