BASTA ASPETTARE (BASTA, ASPETTARE)

Mi hanno suggerito di aspettare.

«Pazienta, BB. Almeno due settimane».

Due settimane?

Non riesco ad aspettare neanche due ore, figuriamoci due settimane!

Quindici giorni, trecentotrentasei ore, vi risparmio i minuti.

Aspettare.

Aspettare non fa per me.

No.

Basta, aspettare.

Aspettiamo anche troppo.

Iniziamo aspettando di crescere, poi viviamo nella perpetua speranza che accada non si sa bene cosa e la aspettiamo tutta la vita che, nel frattempo, passa.

Aspettiamo di vedere che tempo fa al mattino, chi incontreremo, aspettiamo di scoprire chi ci ha telefonato.

Aspettiamo in macchina, aspettiamo in stanze create appositamente per torturarci e farci attendere, denominate“Sale d’attesa”.

Aspettiamo un parcheggio, aspettiamo di tornare a casa, aspettiamo di partire.

Aspettiamo l’estate, poi l’inverno, poi le feste, poi che passino le feste.

Aspettiamo.

Aspettiamo anche troppo.

Il nostro tempo è limitato, è l’unica certezza che abbiamo. Quindi non lo spreco ad attendere incertezze…

«Non è il momento… »

«Io ti aspetto. Se occorre, ti aspetterò tutta la vita…»

Sarebbe terribilmente romantico, vero?

Ti voglio talmente tanto che potrei passare la mia intera esistenza ad attendere il tuo ritorno. Basta aspettare…

Mi è stato anche detto, diverse volte, e, per quanto lusingata da una tale dedizione, l’ho trovato terribile e ho sempre risposto: «Non devi farlo, non si dovrebbe mai aspettare nessuno…»

Lo penso, lo penso davvero. E non si dovrebbe MAI lasciare qualcuno ad aspettarci. Mai. È la forma di egoismo più profonda, sapere che qualcuno sta attendendo un nostro giudizio positivo, una nostra chiamata.

Nulla è più agonizzante di un’anima che attende con speranza un qualcosa che non arriverà mai.

Basta, aspettare.

«Non è il momento… »

Dovrei dirti “Io ti aspetto”? No. “Io ti aspetto” non è per me. “Io ti aspetto” sembra il tempo che passa mentre tu speri che una persona si convinca di volerti . Non è da me. Tu devi desiderarmi sempre. Devi guardarmi e pensare «È lei che voglio! Per un giorno un anno una vita, non lo so, ma voglio lei. Voglio vedere com’è stare con lei. Voglio passare più tempo possibile con lei» . Deve essere così. “Io ti aspetto” è più: “Visto che non ho trovato di meglio, provo con lei. Volevo altro ma non c’è, però c’è lei, vediamo lei”. E io dovrei stare qui ad aspettare che mi scegli per esclusione? No. “Io ti aspetto” non fa per me.

C’è un momento, prima di andartene, in cui speri in un fottutamente romantico: «Ti prego, resta» che ti faccia sentire – finalmente – la protagonista di un romanzetto rosa. Una piccola flebile speranza che ci crede molto più di te. Ma poi muore quando vede l’ennesimo finale triste.

C’è un momento, dopo che te ne vai, un momento la cui durata la decidi tu, in cui rimani fuori la porta ad aspettare di essere rincorso.

«Ti prego, non te ne andare» nei film succede sempre.

Ho aspettato dietro quella porta in silenzio. Ho aspettato da sola in casa accanto a un telefono e a un citofono muti. Ho aspettato per qualsiasi strada che percorressi a piedi. E ho aspettato ai semafori. Ho sperato negli incontri “per caso”, quelli di cui ogni tanto si sente parlare, incontri manipolati dal destino per far ricongiungere due anime. Ho atteso e sperato tutti i giorni.

Gli ho detto che non l’avrei mai fatto, ma l’ho aspettato sempre.

C’è un momento che può durare una vita, in cui fai finta, ma non te ne vai e aspetti qualcuno che forse non tornerà mai.

Ho atteso tanto, invano e sempre con speranza.

Due volte, venti volte, duecento volte. Altro che due settimane.

Finché ho capito che aspettare non fa per me.

Finché ho capito che non si deve mai aspettare nessuno.

Per questo non aspetto più: telefonate, gesti, messaggi, miracoli.

L’unico che merita di essere aspettato è il cameriere al ristorante.

Basta, aspettare.

LA MIA VITA MI PRENDE PER IL CU’. C’HO LE PROVE

Ho un Grande Amore.

Avete presente quello che vi fa rincretinire totalmente, battere il cuore e pensare a tutte quelle situazioni melense, da coppia, da quotidianità, quel Grande Amore che vi fa dire che Lui è quello che fa per voi, oggi e sempre, Amen?

Quello al quale pensate, quando qualcuno vi chiede come debba essere la persona perfetta per voi?

Ecco, così.

Per motivi che non sto qui a dirvi per non tediarvi, io e Grande Amore il nostro Amore Grande l’abbiamo solo parzialmente vissuto e poi è finita là.

Senza drammi, eh!

Ho “leggermente” imprecato per via delle circostanze avverse, ma è stata una separazione civile e senza ferite.

Vabbè, io già avevo iniziato a ricamare gli asciugamani con le nostre iniziali, ma questo me lo tengo per me, non lo dico, che pare brutto.

E neanche ci sentiamo. Perché a un suo solo “Ciao” mi sciolgo come un rossetto d’estate, quindi – niente – non se po’ fa. Mi scompensa troppo, è meglio che non lo senta.

Ho una dignità e una nomea da stronza da difendere.

Quindi io e Grande Amore ci viviamo le nostre vite a distanza, magari ci pensiamo ogni tanto e poi basta, finisce lì.

Ora, io dico sempre che la mia vita mi prende riccamente per il cu’, che spesso mi sembra di stare su “Scherzi a parte”, che attendo sempre invano che esca qualcuno per mostrarmi le telecamere della candid camera, e invece niente.

È tutto vero.

La mia vita mi prende per il cu’.

C’ho le prove.

Seratina con un po’ di gente, tra cui un amico di un mio amico, mai visto e conosciuto.

Questi inizia a raccontare un aneddoto e, nel farlo, inserisce un paio di dettagli che non mi sfuggono.

Non fa nomi.

Io ascolto e inizio a sentirmi male.

Lui continua, altri indizi, altri particolari, altre “coincidenze”.

Inizio a bisbigliare dei  “Non ci posso credere…”

Conclude l’episodio divertente e tutti ridono, tranne me.

Oddio, mi sento male.

L’amico dell’amico conosceva e aveva lavorato con Grande Amore, tipo una settimana prima.

Roma è piccola, direte voi.

No, è il mondo ad essere piccolo.

Troppo piccolo.

Letteralmente.

Mi sono alzata e sono uscita.

Avevo bisogno di pensare.

Divertita, confusa, continuando a blaterare che era impossibile, impensabile, incredibile, che l’Universo e i suoi amici in quel momento stavano col pop-corn a gustarsi la scena e a darsi di gomito.

Non ci posso credere…

Ho pensato alla teoria dei  “Sei gradi di separazione”, a quanto è vero che siamo tutti strettamente collegati, ma così è troppo.

Ho invidiato all’amico dell’amico il tempo che aveva trascorso con Grande Amore, in quel piccolo pezzo di mondo.

E una parte di me avrebbe voluto chiedere, verificare, sapere e dirgli che io lo conosco, a fondo.

Anche se sembra così assurdo e surreale.

Salutalo, abbraccialo per me, sta bene?

Ma non gli ho detto nulla.

Gli elementi che mi aveva involontariamente rivelato mi avevano dato la certezza che si trattasse di lui, quindi non mi serviva avere conferme.

Poi che avrei potuto dirgli?

Sai che noi ci vogliamo tanto bene?

Però, ecco, tu conosci la vita che fa, io non reggerei.

O forse sì?

Boh, non ho voluto scoprirlo.

Patetica.

Qualsiasi frase mi avrebbe fatto risultare patetica.

E poi avrebbe messo in moto ricordi, pensieri, domande, no. Meglio di no.

Quindi non ho detto nulla.

Comunque alla fine, inevitabilmente, ci ho pensato lo stesso.

A lui, ai nostri momenti insieme, a quel suo bel sorriso, a quanto mi piaccia come uomo e come persona.

Al bene che gli voglio, puro. Senza acidi rancori, maledizioni e cattiveria.

Gli voglio bene e gli auguro solo bene.

Forse è questo il Vero Amore

Forse.

Non ho potuto fare a meno di considerare che quell’incontro non fosse per nulla a caso.

Il caso non è mai a caso.

Magari era tutto un disegno divino per ricollocarmi col cuore e con la mente verso di lui. Per convincermi ulteriormente che lui sia LUI, e basta.

Che avevo una scusa più che ottima per scrivergli, per attaccare bottone, per chiedere come va e vedere come va a finire (se son più brava io a sbagliare, oppure tu a mentire…)

Sperando che mi dica di fiondarmi da lui, come quella volta, quando poi – all’ultimo – non me l’ero sentita e non ci eravamo più visti.

Da allora qualche messaggio, saltuario, banale, partito sempre da me, che sentivo l’esigenza di avere sue notizie.

…ma lui no?

Quante volte me lo sono chiesta, quante!

Non ti viene in mente di sapere come sto?

Non mi pensi?

Possibile che l’Universo mi stia inequivocabilmente indirizzando verso una persona che non si cura di me?

Perché è inequivocabile, è un segno del destino! È una spintarella, è una dimostrazione del nostro legame, è… NULLA.

È una coincidenza. Bizzarra, ma coincidenza.

In altri momenti della mia vita, probabilmente mi sarei inabissata nel loop del “Destino che me lo chiede”. Quindi l’avrei sentito, ci avrei pensato, non sarebbe andata come avrei voluto, ci sarei stata male.

Molto male.

Ora il male lo evito accuratamente.

Quella strada l’ho già intrapresa, lui non è LUI.

Noi non abbiamo fatto nulla per NOI.

Il Grande Amore è altro.

Forse, certe volte coi ricordi e le idealizzazioni miglioriamo di gran lunga le persone.

O forse mi sto raccontando le ennesime scuse, per giustificare la mia di inerzia, la mia di paura, la mia di solitudine.

Se ci sono delle misere cose che ho imparato molto bene è che quando ci si comincia a porre troppe domande, quando la situazione non è come vorremmo, difficilmente cambierà.

Che un uomo sa usare un telefono e trova il tempo per farlo.

Che è bello mancarsi e tenerci, ma è ancora meglio dirselo.

Che il mio acquisito e sudato pragmatismo mi impone di guardare la realtà dei fatti: una realtà fatta di un rapporto – ora – inesistente, neanche civile, proprio assente.

Che a volte è meglio lasciare le cose come stanno, per non rischiare di rovinare perfino i ricordi.

Che è bello mancarsi e tenerci, ma è ancora meglio VIVERSI.

E, soprattutto, che l’Universo ha davvero un perverso senso dell’umorismo.

FROM RED SEA WITH LOVE

Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.

Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…

La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.

Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?

Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.

Non sarei dovuta neanche essere lì…

Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.

Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.

Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.

«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»

Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!

Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.

…BB, c’è posto per te!

Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.

In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.

Che ne siamo coscienti o no.

Che lo vogliamo o no.

Come era successo a me.

Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.

E allora…

Metti una Barbie sul Mar Rosso.

Metti una lussuosa barca di 40 metri.

Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.

Metti 20 Sub insieme.

Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.

Isolati.

Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.

E lontana…

In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.

“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.

Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.

Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.

Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.

Mi piace. Cavolo, questo mi piace.

Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.

Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.

Eppure…

Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.

Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.

In tutti i sensi.

“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.

Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.

Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.

Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.

Come… come un’abitudine.

Ora sembrava tutto così lontano…

Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.

Una  settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.

Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.

Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…

E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.

Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.

Non va bene neanche sentirsi dire:

«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»

Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?

Ma tutto questo non va bene.

Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.

Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?

Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??

Ma QUANDO è successo?

Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?

La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…

Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.

Non andava bene per niente.

Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.

Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.

Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.

Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.

Che fatica, gente.

Interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi.

Ne vale la pena?

La vale davvero.

Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.

E ne sono stata felice.

A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…

Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.

Un’isola tra le isole, ma non più isolata.

A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»

Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.

Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:

“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,

all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.

Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.

Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di Carpe Diem ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.

Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.

Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.

Fa parte delle maschere che indossiamo.

Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.

Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.

Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.

Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.

Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità. 

Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.

E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.

Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.

La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.

Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.

Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.

Ho sorriso.

Tu non sai chi sono io.

Ho sorriso di nuovo.

Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…

Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.

«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.

Non credo c’entri questo.

Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali

La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.

È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.

Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.

Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.

In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.

Io ho immaginato la scena più o meno così:

«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»

E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.

Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.

Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.

Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.

Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.

Come quando nessuno ti conosce.

Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.

Magari risiede in questo la differenza.

O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.

Capita.

Perché c’è speranza, Signori.

C’è sempre speranza.

Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.

Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.

Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.

E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.

Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.

Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!

Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.

Mentre scrivevo la bozza di questo articolo il mio telefono ha scelto dal lettore “Someone like you” come l’anno scorso, quando l’avevo cantata con due amiche ed era stato decisamente più divertente.

Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.

Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo.  Che culo! (appunto)

Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.

Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.

Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.

Magari imparo davvero.

Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.

C’è speranza Signori.

C’è sempre speranza.

Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.

Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.

Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.

Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.

Ma ne vale la pena.

Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.

Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.

VOLENDO.

 

 “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.

John Donne

 

Ai miei compagni di questo viaggio,

alle picchiate a cinquanta metri,

le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.

Grazie 😉

 

 

NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.

 

 

“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”

“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.

“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”

[…]

“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”

“Creare dei legami?”

“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.

[…]

E quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.

“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

“È vero”, disse la volpe.

“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.

“È certo”, disse la volpe.

“Ma allora che ci guadagni?”

“Ci guadagno”, disse la volpe.

[…]

“Addio”, disse.

“Addio”, disse la volpe.

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”

“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.

Il Piccolo Principe

Antoine de Saint-Exupéry

 

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…È DESTINO!(?)

Credo molto nei “segnali”, ovvero quando accadono determinati fatti che sembrano voler indirizzare la tua vita: una chiamata che non si sente; il telefono scarico; una strada che si sbaglia; una scritta letta di sfuggita; una canzone che sembra parlare di te; un’ora di ritardo ad un appuntamento; un incontro “per caso”, che non è mai “a caso”.
Ho sempre creduto molto in questi suggerimenti da parte dell’Universo.
Proprio l’altra sera ne parlavo con un amico che mi raccontava come non fosse riuscito a seguire il programma che si era prefissato per la serata. Era stato letteralmente impossibilitato. E io avevo commentato con un serafico: “Be’, sai, in genere le cose vanno esattamente come devono andare. Non è poi così sbagliato prestare attenzione agli accadimenti e farsi guidare da loro…”.

Lo penso, lo penso davvero.
Poi la mattina successiva è successo qualcosa…
Il mio inconscio ha deciso di ignorare la doppia sveglia e io ho rischiato seriamente di non essere presente ad uno degli eventi più importanti della mia vita. Non mi era MAI accaduto di non svegliarmi in occasione di una partenza, una circostanza speciale, un appuntamento, o qualsiasi tappa fondamentale nella mia esistenza.

Grazie alla mia pignoleria patologica – che mi aveva fatto programmare la levata in deciso anticipo – avevo un margine temporale che, forse, mi avrebbe permesso di arrivare in tempo a quel volo. Lavaggio e vestizione al volo – appunto – sono comunque riuscita ad uscire di casa, rimandando il trucco al viaggio in macchina.

Il traffico trovato sul GRA mi aveva quasi tolto ogni speranza di riuscita, ma ce l’ho fatta. Ero in ritardo, ma potevo ancora riuscire a prendere quell’aereo. DOVEVO.
Esigua fila ai controlli, ma – i pochi minuti recuperati – nuovamente persi nei tre passaggi sotto al metal detector che continuava a suonare.
“Si tolga le scarpe, si tolga i bracciali, si tolga la cinta…”
“Per favore, è tardi! Non posso perdere questo volo!!”
“Vada…”

Ho continuato la corsa, mentre tutto il Leonardo da Vinci rideva per questa matta in tacchi a spillo che trottava come un’ossessa, impegnata in un percorso a ostacoli improvvisato, con una vescica stracolma che non avevo il tempo di vuotare, e una tachicardia atroce.
La fretta mi ha fatto leggere male il numero del gate. Ovviamente il mio era l’ultimo: altro piano, altro giro, altra corsa.
Col fiatone e a fatica, sono arrivata. Ho provato, finalmente, il senso di vipposità  connesso al fatto di essere l’ultimo ad imbarcarsi, con un intero aereo pieno ad aspettarti. Me la tirerò per anni.
Arrivata al mio posto, vi ho trovato seduto un uomo che dormiva. Con imbarazzo l’ho svegliato, dicendogli che quello era il mio sedile, la mia fila, il mio finestrino, mentre lui mi guardava male. Se avesse fatto storie, lo avrei intimidito con la frase che echeggiava, in quel momento, nella mia mente:
“Se ‘n te levi, te do una pizza che te faccio prova’ tutto quello che ho passato stamattina!! E pensa che so’ ancora le otto e mezza!! Fino a stasera, che dovrà succede ancora??”
Con fare scocciato, se n’è andato.
Mi sono accomodata, notando che la poltrona accanto a me era vuota. Ho cominciato a riprendere fiato, ripensando a tutte le peripezie che avevo superato, per essere finalmente lì. Ma c’ero. Ce l’avevo fatta.
È stato in quell’istante che mi si è insinuato nella testa questo strano pensiero

Mi è sovvenuto tutto quel che ci insegnano i film che accade quando scambi il tuo destino con quello di un’altra persona. Quando forzi le porte di una metro, o cedi il tuo biglietto, o il tuo posto a un altro. Quando sembra – perché è – che tutto sia contro di te, ma tu ti ostini a continuare per la tua strada.
Tutti quei piccoli segnali mi stavano dicendo che, forse, non sarei dovuta essere su quell’aereo, quel giorno, in quel momento.
Non avevo prestato attenzione agli avvertimenti ed ero una pazza a non scendere immediatamente. Oppure significava che, nonostante i contrattempi, ero riuscita ad esserci ed era giusto che andasse così?
Mentre cercavo di capire, l’aereo è decollato e, con esso, la mia via di fuga da un destino che si preannunciava tragico.

Tutto quanto faceva molto “Final Destination” e io non avevo recepito i suggerimenti dell’Universo, che non voleva farmi perire miseramente su un aereo.

Ho iniziato a pensare a tutti i “segnali” che avevano accompagnato la mia vita, a ogni volta che, con saggezza, li avevo colti e a quando avevo preferito ignorarli, per poi accorgermi, col senno del poi, di quanto fossero notevolmente lungimiranti.

Ho appreso, sin da piccola – da uno dei miei libri preferiti – che il nostro cammino è disseminato di indicazioni, che ci condurranno verso la realizzazione del nostro destino, la nostra Leggenda Personale, il nostro scopo.barbie-bastarda-destino

Purtroppo, quella mattina, avevo deciso di non affidarmi a loro e questa sarebbe stata la mia ultima scelta scellerata. Le forze universali avevano provato a salvarmi, ma io non ero stata abbastanza percettiva e questo sarebbe stato la mia rovina. Come accaduto molte volte in passato, quando ho insistito, nonostante evidenze palesementi contrarie.

Mentre ripercorrevo la mia esistenza, l’aereo è atterrato. Così dolcemente, da non farmene quasi accorgere.

Allora non era l’aereo, allora magari una macchina mi investirà, o qualcuno mi aggredirà, o mi rapiranno, o…

O, niente.

Il mio viaggio è stato fantastico, la mia occasione speciale, pure. Quei presunti segnali che sembravano volermi dire di non andare, li ho ignorati perché era molto più forte la voglia di esserci. E ho fatto strabene.

Perché il mio istinto – l’unico che merita SEMPRE di essere ascoltato – sapeva che ce l’avrei fatta e che non avrei mai perso quei momenti. A ogni costo, in ogni modo, perché dovevo e volevo essere lì. Lo volevo con tutta me stessa.

Ho finalmente capito che, nella mia vita, mi sono raccontata un bel po’ di cazzate.

Vedendo segnali come un’infinita pletora di buoni propositi o scuse, opportunamente usati a seconda del caso. Ma non quello del fato, a seconda di quanto, inconsciamente, avevo già deciso.

Perché i segnali magari ci indirizzano, ci guidano, ma verso una scelta che avremmo comunque fatto. O ci fanno rinunciare quando non siamo sufficientemente convinti. Li usiamo per farci dare delle “spintarelle” d’incoraggiamento, in una o nell’altra direzione.

Questo ho capito.

Che le opportunità o le persone che ho perso, non mi interessavano realmente, e ho sbagliato a dispiacermene. Che si lotta sempre, nonostante gli impedimenti, per ciò, e chi, si tiene.

Che, forse, questa storia che “è tutto già scritto”, non so se sia vera.

Che non lo so se davvero il destino possa essere interessato alla mia vita. Quello che so, è che in questa mia vita, non ho MAI saltato le occasioni nelle quali volevo a tutti i costi essere presente; le chiamate che non volevo perdere; le ricorrenze che non volevo dimenticare; i pezzi di vita che volevo condividere; i contatti che volevo mantenere.

Che i traguardi ai quali tenevo, li ho sempre raggiunti, anche contro ogni previsione.

Che, quando volevo, sono uscita con la febbre, zoppa, col brufolo ‘della festa’ sul naso e coi capelli sporchi. Quando non ero convinta, mi sono fatta scoraggiare da un lieve mal di testa, la poca ricezione del telefono, o l’oroscopo avverso che “Sembra proprio, proprio parlare di me, te lo giuro!!”

Che ha ragione Coelho quando dice che: “L’Universo cospira affinché tu realizzi il tuo desiderio…”
Ma solo se lo desideri davvero.
In caso contrario, troverai molte scuse e molti “segnali” per desistere, e  un commento che è di parecchio conforto per noi vigliacchi: «Si vede che non era destino…»