ABBRACCIAMI FORTE

Non ho vissuto la guerra.

Non avevo memoria di un evento, di qualsiasi tipo, che accumunasse tutti, ma proprio tutti noi, da Nord a Sud, belli e brutti, buoni e infami, virtuosi e peccatori.

E poi arrivasse perfino più in là, oltre il nostro orticello tricolore, che penetrasse con prepotenza in ogni casa sparsa nel globo donandoci la certezza che i sentimenti che albergavano in ciascuno di noi erano (sono…) condivisi da milioni di altre persone. Da tutto l’intero mondo.

Potente, vero?

La prima nozione fondamentale che abbiamo imparato da questa situazione è che NON siamo eterni e anzi parecchio effimeri.

Ok, grattatevi, scongiurate, insultatemi, ma è l’unica certezza della quale veniamo dotati sin dalla nascita.

Ed è curioso che tendiamo sempre a rimuoverla dalla nostra mente.

Poi ci siamo dovuti confrontare con l’utopia dei tempi moderni che si chiama “Non avere tempo”. Rimandiamo a oltranza giustificandoci che non abbiamo abbastanza tempo.

Abbiamo riscoperto lunghe giornate di solitudine da riempire alla meglio, in costante connessione con le nostre più intime riflessioni.

Abbiamo pulito e riordinato.

Ci sono dei cassetti che non apriamo mai: quelli più in disordine, quelli che sappiamo essere un disastro. Li teniamo sempre chiusi perché per sistemarli impiegheremmo davvero tantissimo tempo (che non abbiamo) ed energie.

Io lo faccio anche con i cassetti mentali. Ci sono pensieri e ricordi che sono certa che sono lì, ma ho scelto di ignorarli.

I “Vasi di Pandora” non andrebbero mai scoperchiati. Sappiamo benissimo cosa c’è dentro e soprattutto gli effetti che produrrebbero su di noi. Dei gesti faciliterebbero la loro apertura: posti, persone, canzoni, vecchi messaggi sul telefonino e vecchie mail. Per questo, in genere, evitiamo tutto ciò.

Invece in questi giorni ho coscientemente deciso di pulire tutto, pur sapendo che facendolo avrei aperto qualche cassetto scomodo.

Ho deciso finalmente di affrontare tutto. Di setacciare ogni piccolo e buio anfratto occultato fuori e dentro di me.

Di aprire tutti i vasi nella mia testa e quelli materiali che ristagnavano a prendere spazio, dall’ultimo trasloco di dodici anni fa.

Ho trovato il coraggio di passare in rassegna un’intera vita di scatole, libri, lettere, attestati, targhe, scontrini, manuali, portagioie, ninnoli, vestiti, scarpe, borse, regali, musicassette (MUSICASSETTE…!), vhs, cd, quadri, oggetti di uso comune e dimenticati, istantanee…

Le fotografie non le butto mai. Credo siano il modo migliore di colmare le lacune dei ricordi. Trovo rassicurante sapere che, da qualche parte, vivi in uno scatto in un posto preciso, in un dato momento, in un luogo specifico che magari non rammenti nemmeno.

Nonostante questo, alcune foto (persone) preferisco non contemplarle più e, temendo delle visioni “accidentali”, le ho chiuse tutte in una scatola, sul coperchio ho scritto: «Queste foto non voglio vederle» e l’ho riposta in uno dei famosi cassetti.

Il resto è stato un susseguirsi di emozioni e precise ricostruzioni temporali.

Tutto custodito con una meticolosità maniacale che mi è ben nota ma che riesce sempre a stupirmi.

Tutto accuratamente conservato, catalogato ed etichettato affinché sopravvivesse al passare del tempo.

Tutto legato a vari luoghi, persone, episodi.

«Ma certo non ti ricordi di quella volta?» La Vocina nella mia testa che tutto rammenta e tutto sa.

«Quella volta bellissima con…» E un nome e cognome che non sentivo pronunciare né pronunciavo (volutamente) da tanto tempo.

A prescindere da quello che era successo dopo, in quel momento, in quel preciso momento, ero felice. Ecco. È quell’ero che ha iniziato a stonarmi. Perché conservare ricordini di un attimo di felicità, essendo consapevole di quanto fosse effimera? Conoscendo perfettamente gli avvenimenti successivi che hanno cancellato e insozzato quegli attimi?

Testimonianze piccole e grandi di un passato vissuto appieno, dalle quali non avrei mai potuto separarmi e che invece, oggi, ho eliminato senza sofferenza.

Forse perché si cresce, si cambia, si hanno altri gusti e priorità, o forse perché ho imparato la meravigliosa arte del non-attaccamento.

Ho rimirato ogni singolo biglietto di auguri scritto o ricevuto; inviti; bomboniere; fattura di “quella” cosa comperata per “quella” occasione e, magari, mentre ero in compagnia di “quella” persona.

Diari, innumerevoli, pezzi di carta di fortuna che in quel momento avevano raccolto le mie considerazioni. Tantissimi.

Parole, confidenze, battute, sogni, speranze, strazi, dolori, delusioni, sentimenti, gioie, resoconti.

Ho riconosciuto la mia ossessiva e atavica voglia di fissare pensieri e tormenti. Ne ho letti solo alcuni, ho provato emozioni diverse, paure conosciute, tenerezza.

Il timore di perdere qualche pezzetto di vita, di dimenticare qualcosa, di rammentare concetti fondamentali alla futura me stessa. La voglia di ricordare tutto.

Proprio in questi giorni, non per “caso”, ho letto la differenza tra “dimenticare” e “scordare” che è anche abbastanza lampante, ma non mi ci ero mai soffermata. Dimenticare significa farsi uscire dalla mente; scordare, togliere dal cuore.

Una delle più grandi paure degli esseri umani è quella di essere dimenticati e scordati.

Nessuno di noi vuole incarnare l’inglorioso ruolo della meteora nella vita di qualcun altro. Penso che conservare moniti per la memoria, trattenendo a noi le persone, alimenti la sciocca illusione di non essere noi stessi dimenticati. Come se con quei ricordi mantenessimo un filo invisibile di congiunzione tra noi e loro, in modo da tenerci almeno nei ricordi.

Mi sono guardata intorno: alle pareti ho appese le foto dei miei affetti più cari, quelli che ci saranno sempre, comunque vada. Così mi sento circondata dal loro amore e quello sì, voglio ricordarlo e averlo sotto agli occhi tutti i giorni.

Il passato si lascia andare e si fa spazio al nuovo.

Avevo dei cassetti che non aprivo mai, ora ho un cestino molto grande.

Ho perso il conto dei sacchi di spazzatura che ho riempito e di roba che ho destinato a regali e beneficenza.

Mi sono liberata di tutto quel che è inutile e non necessario. Come è mia abitudine recentemente conquistata in qualsiasi ambito della mia vita.

Lascia andare. Oggetti, luoghi, ricordi, persone…

Abbiamo imparato il “non potere”. Non poter prendere un caffè, andare a cena fuori, passeggiare, lavorare, andare a trovare gli amici, andare in palestra, fare shopping, abbracciarci e fare l’amore.

Non potere.

Te lo proibisco.

Il corollario a tutto questo è che fino a questi giorni abbiamo sempre potuto, ma magari non voluto, o procrastinato.

Abbiamo dato per scontato la nostra libertà e la nostra possibilità di scelta. Abbiamo rimandato sempre convinti che ci fosse un tempo eterno e qualcuno o qualcosa sempre pronti ad aspettarci.

Ci hanno dovuto imporre delle restrizioni per farci capire che non è e non è mai stato così.

Abbiamo esperito nuovi outfit corredati da guanti e mascherine. Ridisegnato il nostro modo di fare acquisti, stando composti in fila e a distanza, vulnerabili, interrogandoci su quanto durerà.

Abbiamo letto e ci siamo informati ma senza capire a fondo. Almeno io. E, in tutto questo, sono sempre affascinata dai soliti detentori della verità assoluta.

Abbiamo riso dell’intera faccenda in tutti i modi. Abbiamo tirato fuori la nostra innata capacità di sdrammatizzare e ironizzare per esorcizzare un mostro che non siamo in grado di controllare in altra maniera.

Sono fiera di questa nostra attitudine, di provare a sorridere anche in momenti davvero poco divertenti. Ho visto dei meme fenomenali, geniali, esilaranti.

Ho riso molto, mentre ero preoccupata come tutti noi.

(poi avete rotto pure un po’ il cazzo su WhatsApp co’ seimilioni di video al minuto, diciamolo).

Sono stati creati dei momenti di coesione nella distanza: canti, balletti, flash-mob. Mi piacerebbe che fossimo uniti per davvero e non solo in questa circostanza. Che questa fratellanza e appartenenza tra sconosciuti provassimo a sentirla realmente tutti i giorni. Ma, a dire il vero, ci credo poco.

Ci hanno privati della possibilità di toccarci e vederci per farci capire quanto la nostra dimensione umana si esplichi attraverso tutti e cinque i nostri sensi.

Di quanto nei rapporti sia necessaria l’estensione fisica.

Le persone che amo, amo toccarle, sentirle con naso e le orecchie, rimirarle, coccolarle, ascoltarle, vederle ridere.

Tutte meraviglie degli umani esseri che, in alcuni casi, abbiamo demandato alle emoticon illudendoci che sia lo stesso.

Ho ricevuto messaggi da gente che sta dall’altro capo del mondo, solo per sapere come andasse.

Ci siamo organizzati con lunghe telefonate e videochiamate, per sincerarci con gli occhi che i vari “Sto bene” scritti corrispondessero a verità.

Ho esperito la bellezza consolatoria degli AperiVideo organizzati per sopperire a quell’esigenza, urgenza, bisogno umano dettato dall’amore di vedere e viversi le persone alle quali si tiene davvero. Seppur costretti dietro a uno schermo.

Ho percepito la vivida mancanza di qualcuno, in maniera quasi insopportabile. Ho derogato ai musi lunghi e incomprensioni per sapere, sentire, sincerarmi. Mi sono chiesta se questi sentimenti fossero autentici o amplificati dalla situazione e non sono riuscita a darmi una risposta.

Sebbene sia parecchio abituata a starmene per conto mio, parlare poco e riflettere molto, ho patito questa condizione di eremi coatti.

Ma, come sempre, alla solitudine non rinuncio per chicchessia…

Sono tornati TUTTI, come era prevedibile.

Mi manca solo il bimbo che all’asilo mi mostrava con fierezza le proprie caccole. Peccato.

Gente che non sentivo perfino da anni (ANNI!).

Occorre fare un distinguo ben preciso da chi ti cerca perché non ha di meglio da fare e chi lo fa perché VUOLE avere tue notizie.

In questo siamo allenati.

Basta chiedersi dove siano collocate queste persone quando va tutto bene.

Indi, dove hai passato i giorni belli, passa pure la quarantena, dài.

In tutto questo, come sempre, abbiamo contato le assenze.

Ora, venuta meno la scusa principe del “non avere tempo” – come se in giorni normali fosse poi ammissibile ma in questi decisamente pleonastica – ci ha ribadito con violenza la differenza tra potere e volere. Tra dire e fare.

Ci ha sbattuto in faccia un elenco di persone per le quali contiamo qualcosa e quelle che – ahimè – vivono benissimo senza di noi.

Ho notato le mancanze. Di quei latori facili di “Ti voglio bene”.

Hanno rimarcato come le azioni abbiano un peso prepotente rispetto alle belle frasi.

Il silenzio è stato una risposta ben precisa a quella domanda che spesso ci poniamo, di come sarebbero certi rapporti se noi non fossimo una parte attiva, propositiva, istigatrice e non recriminante.

Un solo messaggio neanche degnato di una risposta mi basta per qualificare il destinatario e la considerazione che ha di me.

Vale lo stesso per quelle chiamate mai ricevute, perfino quando si era detto di vedersi, cascasse il mondo.

Il mondo non è caduto, ma ci ha isolati e resi più fragili, e quelle telefonate non sono comunque arrivate.

Ma i nostri responsi, sì.

Prego, agire di conseguenza.

Tutto questo non è mai un fatto di orgoglio, ma di amor proprio.

Ci hanno imposto una distanza per salvarci la vita e, spesso, lo facciamo anche noi.

Trattare con distacco.

Allontanarsi.

Erigere un muro.

Credetemi, non è questione di superbia, alterigia, o stronzaggine a prescindere, no. È stanchezza.

Sono davvero stanca di interagire con soggetti intermittenti, ambigui, re delle mezze parole e mezze verità, inconcludenti, millantatori e che non fanno seguire i fatti alle belle parole. Sono stanca di attendere e giustificare e di fingere di non capire.

Sono stanca. Non occorre che dedichi loro ulteriore tempo.

Forse abbiamo finalmente imparato, e spero che non ce ne dimentichiamo, che la felicità risiede nella semplicità.

Di quanto i rapporti umani siano semplici e scanditi da “regole” spontanee dettate dall’importanza che quelle persone rivestono per noi e viceversa.

Alla fine di tutta questa storia, sapremo con esattezza – e spesso ancor di più – che abbiamo un tempo e degli spazi limitati.

Che c’è una notevole differenza tra farlo passare, il tempo, e impiegarlo al meglio.

Che per essere umani degni di questo nome, abbiamo necessità di vedere, sentire, toccare, respirare e assaggiare chi amiamo.

Che ora, mentre scrivo, da sola e lontana da tutti, il solo pensiero di poter sfiorare qualcuno mi fa commuovere.

Non dimentichiamo CHI e COSA ci è mancato. CHI ci è stato vicino. Di CHI e COSA non siamo più disposti a fare a meno. E, magari, diciamoglielo.

Sapremo, infine, chi continuare a tenere a distanza di sicurezza per il nostro bene.

E chi, invece, andare ad abbracciare di corsa, come prima cosa. Appena ne avremo la possibilità.

Abbracciami forte.

Più forte…

PS: Abbiamo pure avuto ulteriore conferma dell’esistenza del Karma. E ce l’ha data Boris Johnson.

Dillo a BB!