ALL BY MYSELF

Stamattina sono stata rimproverata da tre persone diverse. Tre delle persone che ho più care al mondo, per la precisione.

Soltanto perché, nottetempo, ho avuto l’ardire di recarmi al Pronto Soccorso da sola, con l’allerta meteo, il vento, una quantità imprecisata di alberi sparsi per la Capitale e un dolore lancinante che non mi abbandona da giorni.

“Soltanto”, per me.

«Ma che sei matta, mi dovevi chiamare!», per ciascuno di loro.

Sono davvero matta?

Eppure ci ho ragionato.

Ero stata in piedi almeno un’ora, prima di decidermi ad andare.

Avevo pianto, ero esasperata e non ce la facevo più a stare là, inerme e dolorante, ad attendere l’alba un’altra volta.

Quindi, mi sono avviata.

Struccata, con la tuta, il cappuccio della felpa tirato su a coprirmi parzialmente una faccia che tradiva la terza notte consecutiva in bianco.

Sono entrata pronunciando un timido «Buonasera».

Intorno pochissima gente a occupare l’immensa sala d’attesa: una famiglia; una donna sola; un signore che dormiva e russava sdraiato per lungo sulle poltroncine; un ragazzo.

Probabilmente avranno pensato che fossi una sbandata, forse una drogata, e – sicuramente – che fossi molto sola,

visto che così mi sono presentata al Pronto Soccorso, alle tre di notte, pallida come una maschera anticipata di Halloween, intenta a guardarmi i piedi per evitare i loro sguardi.

E mi ci sono sentita, sola. Ma sapevo pure che non avrei potuto fare altrimenti.

Sono poche le persone che chiamerei per un’emergenza, nel cuore della notte. Tre, forse quattro o cinque, non di più. Non so quante ne abbiate voi, non so cosa avreste fatto voi, ma il problema – se così si può chiamare – è che per me non erano contemplate altre opzioni. Visto che ero cosciente e in grado di guidare.

Perché avrei dovuto infliggere un mezzo infarto a qualcuno, chiedendo aiuto a tarda notte, dato che potevo farcela da sola?

Un’ora dopo, ero fuori.

Aveva ricominciato a piovere copiosamente. Un’ambulanza stava lasciando l’ingresso. Mi era parso di aver visto più gente nella sala d’aspetto, infatti.

Pensare che in questo posto avevo giurato che non ci avrei messo mai più piede, eppure…

Complice l’oscurità e la solitudine, molti ricordi mi sono crollati addosso. Tutti insieme.

Mentre rientravo, ripercorrevo tutte le tappe di questo accadimento surreale. Era successo davvero, o stavo sognando?

Ragionavo su come avrei potuto raccontare il tutto ridendoci su. Come sempre. La mia “Ghiandola della Sdrammatizzazione” deve essere iperattiva…

Ad esempio, dell’infermiera molto poco gentile che mi aveva accolta al triage con un:

«Non è che perché tu non dormi, noi qua ti possiamo risolvere i problemi!»

Alla quale avevo risposto solamente: «Se sto qui a quest’ora, con questo tempo, è perché sono disperata. Non credi?»

Pensando: «Non credi che avrei avuto più piacere nel trascorrere le mie ore da insonne dolente sotto il mio bellissimo e caldo piumone, in compagnia di un buon libro o di una maratona di serie tv? Brutta stronza, pure brutta?? Mi dispiace, sei brutta! E sei pure stronza! Probabilmente sei brutta perché sei stronza! Sicuro!»

Contrariata, magari, dal fatto che l’avessi svegliata. Perché, dopo aver atteso almeno un quarto d’ora che qualcuno si facesse vivo, avevo accettato l’esortazione di una signora a bussare alla porta per farmi accogliere.

«Mi spiace, però, sta dormendo…»

«Embè? Aho se stai qua è perché c’hai bisogno! Sta a lavora’, la sveji!»

C’hai ragione, Signo’…

E poi ho riso.

E poi ho considerato quanta pace ci fosse a quell’ora, quanto buio, quanto silenzio, mentre mi godevo la strada tutta per me che percorrevo lentamente, al contrario del solito.

E poi ho pianto.

E poi ho pensato alle due Voci nella testa che, da un po’ di tempo, duellano nella mia mente.

Una mi ripete ossessivamente che devo imparare a fare tutto da sola, a non appoggiarmi a nessuno, “Perché non si sa mai”. Era fiera di me.

L’altra che risponde che il “Non si sa mai” comprende infinite possibilità, anche positive. Era contrariata, a volte mi dice di non preoccuparmi.

Poi mi è tornata alla mente una frase che ho carpito “per caso” proprio in questi giorni. Lei che diceva a lui:

«Posso farcela da sola…»

E lui che, semplicemente, le rispondeva:

«Ma perché, DEVI?»

Che bello.

Ci ho pensato molto e mi è tornata utile in questa giornata.

Perché alla fine, ho concluso che non sono matta, né strana, né Wonder Woman, né asociale, né individualista.

Oggi, in questo momento, adesso, ora, io non so quale delle due voci abbia ragione. Non so cosa accadrà da qui all’immediato futuro.

So solo che adesso, DEVO.

Poi domani, “Non si sa mai”…

 

“C’è una ragione se dicevo che sarei stata felice da sola. Non è perché pensassi che sarei stata felice da sola. Era perché pensavo che se avessi amato un uomo e poi fosse finita, potevo non farcela. È più facile stare da soli: perché se impari che hai bisogno dell’amore, e poi non lo hai, e se ti piace, e ti appoggi ad esso, se fondi la tua vita su di esso e poi… tutto crolla? Potresti sopravvivere a un dolore del genere? Perdere l’amore è come una lesione fisica, è come morire. L’unica differenza però è che la morte è un attimo… e questo, Può andare avanti per sempre”.

Gey’s Anatomy 7×22

 

BASTA ASPETTARE (BASTA, ASPETTARE)

Mi hanno suggerito di aspettare.

«Pazienta, BB. Almeno due settimane».

Due settimane?

Non riesco ad aspettare neanche due ore, figuriamoci due settimane!

Quindici giorni, trecentotrentasei ore, vi risparmio i minuti.

Aspettare.

Aspettare non fa per me.

No.

Basta, aspettare.

Aspettiamo anche troppo.

Iniziamo aspettando di crescere, poi viviamo nella perpetua speranza che accada non si sa bene cosa e la aspettiamo tutta la vita che, nel frattempo, passa.

Aspettiamo di vedere che tempo fa al mattino, chi incontreremo, aspettiamo di scoprire chi ci ha telefonato.

Aspettiamo in macchina, aspettiamo in stanze create appositamente per torturarci e farci attendere, denominate“Sale d’attesa”.

Aspettiamo un parcheggio, aspettiamo di tornare a casa, aspettiamo di partire.

Aspettiamo l’estate, poi l’inverno, poi le feste, poi che passino le feste.

Aspettiamo.

Aspettiamo anche troppo.

Il nostro tempo è limitato, è l’unica certezza che abbiamo. Quindi non lo spreco ad attendere incertezze…

«Non è il momento… »

«Io ti aspetto. Se occorre, ti aspetterò tutta la vita…»

Sarebbe terribilmente romantico, vero?

Ti voglio talmente tanto che potrei passare la mia intera esistenza ad attendere il tuo ritorno. Basta aspettare…

Mi è stato anche detto, diverse volte, e, per quanto lusingata da una tale dedizione, l’ho trovato terribile e ho sempre risposto: «Non devi farlo, non si dovrebbe mai aspettare nessuno…»

Lo penso, lo penso davvero. E non si dovrebbe MAI lasciare qualcuno ad aspettarci. Mai. È la forma di egoismo più profonda, sapere che qualcuno sta attendendo un nostro giudizio positivo, una nostra chiamata.

Nulla è più agonizzante di un’anima che attende con speranza un qualcosa che non arriverà mai.

Basta, aspettare.

«Non è il momento… »

Dovrei dirti “Io ti aspetto”? No. “Io ti aspetto” non è per me. “Io ti aspetto” sembra il tempo che passa mentre tu speri che una persona si convinca di volerti . Non è da me. Tu devi desiderarmi sempre. Devi guardarmi e pensare «È lei che voglio! Per un giorno un anno una vita, non lo so, ma voglio lei. Voglio vedere com’è stare con lei. Voglio passare più tempo possibile con lei» . Deve essere così. “Io ti aspetto” è più: “Visto che non ho trovato di meglio, provo con lei. Volevo altro ma non c’è, però c’è lei, vediamo lei”. E io dovrei stare qui ad aspettare che mi scegli per esclusione? No. “Io ti aspetto” non fa per me.

C’è un momento, prima di andartene, in cui speri in un fottutamente romantico: «Ti prego, resta» che ti faccia sentire – finalmente – la protagonista di un romanzetto rosa. Una piccola flebile speranza che ci crede molto più di te. Ma poi muore quando vede l’ennesimo finale triste.

C’è un momento, dopo che te ne vai, un momento la cui durata la decidi tu, in cui rimani fuori la porta ad aspettare di essere rincorso.

«Ti prego, non te ne andare» nei film succede sempre.

Ho aspettato dietro quella porta in silenzio. Ho aspettato da sola in casa accanto a un telefono e a un citofono muti. Ho aspettato per qualsiasi strada che percorressi a piedi. E ho aspettato ai semafori. Ho sperato negli incontri “per caso”, quelli di cui ogni tanto si sente parlare, incontri manipolati dal destino per far ricongiungere due anime. Ho atteso e sperato tutti i giorni.

Gli ho detto che non l’avrei mai fatto, ma l’ho aspettato sempre.

C’è un momento che può durare una vita, in cui fai finta, ma non te ne vai e aspetti qualcuno che forse non tornerà mai.

Ho atteso tanto, invano e sempre con speranza.

Due volte, venti volte, duecento volte. Altro che due settimane.

Finché ho capito che aspettare non fa per me.

Finché ho capito che non si deve mai aspettare nessuno.

Per questo non aspetto più: telefonate, gesti, messaggi, miracoli.

L’unico che merita di essere aspettato è il cameriere al ristorante.

Basta, aspettare.