ABBRACCIAMI FORTE

Non ho vissuto la guerra.

Non avevo memoria di un evento, di qualsiasi tipo, che accumunasse tutti, ma proprio tutti noi, da Nord a Sud, belli e brutti, buoni e infami, virtuosi e peccatori.

E poi arrivasse perfino più in là, oltre il nostro orticello tricolore, che penetrasse con prepotenza in ogni casa sparsa nel globo donandoci la certezza che i sentimenti che albergavano in ciascuno di noi erano (sono…) condivisi da milioni di altre persone. Da tutto l’intero mondo.

Potente, vero?

La prima nozione fondamentale che abbiamo imparato da questa situazione è che NON siamo eterni e anzi parecchio effimeri.

Ok, grattatevi, scongiurate, insultatemi, ma è l’unica certezza della quale veniamo dotati sin dalla nascita.

Ed è curioso che tendiamo sempre a rimuoverla dalla nostra mente.

Poi ci siamo dovuti confrontare con l’utopia dei tempi moderni che si chiama “Non avere tempo”. Rimandiamo a oltranza giustificandoci che non abbiamo abbastanza tempo.

Abbiamo riscoperto lunghe giornate di solitudine da riempire alla meglio, in costante connessione con le nostre più intime riflessioni.

Abbiamo pulito e riordinato.

Ci sono dei cassetti che non apriamo mai: quelli più in disordine, quelli che sappiamo essere un disastro. Li teniamo sempre chiusi perché per sistemarli impiegheremmo davvero tantissimo tempo (che non abbiamo) ed energie.

Io lo faccio anche con i cassetti mentali. Ci sono pensieri e ricordi che sono certa che sono lì, ma ho scelto di ignorarli.

I “Vasi di Pandora” non andrebbero mai scoperchiati. Sappiamo benissimo cosa c’è dentro e soprattutto gli effetti che produrrebbero su di noi. Dei gesti faciliterebbero la loro apertura: posti, persone, canzoni, vecchi messaggi sul telefonino e vecchie mail. Per questo, in genere, evitiamo tutto ciò.

Invece in questi giorni ho coscientemente deciso di pulire tutto, pur sapendo che facendolo avrei aperto qualche cassetto scomodo.

Ho deciso finalmente di affrontare tutto. Di setacciare ogni piccolo e buio anfratto occultato fuori e dentro di me.

Di aprire tutti i vasi nella mia testa e quelli materiali che ristagnavano a prendere spazio, dall’ultimo trasloco di dodici anni fa.

Ho trovato il coraggio di passare in rassegna un’intera vita di scatole, libri, lettere, attestati, targhe, scontrini, manuali, portagioie, ninnoli, vestiti, scarpe, borse, regali, musicassette (MUSICASSETTE…!), vhs, cd, quadri, oggetti di uso comune e dimenticati, istantanee…

Le fotografie non le butto mai. Credo siano il modo migliore di colmare le lacune dei ricordi. Trovo rassicurante sapere che, da qualche parte, vivi in uno scatto in un posto preciso, in un dato momento, in un luogo specifico che magari non rammenti nemmeno.

Nonostante questo, alcune foto (persone) preferisco non contemplarle più e, temendo delle visioni “accidentali”, le ho chiuse tutte in una scatola, sul coperchio ho scritto: «Queste foto non voglio vederle» e l’ho riposta in uno dei famosi cassetti.

Il resto è stato un susseguirsi di emozioni e precise ricostruzioni temporali.

Tutto custodito con una meticolosità maniacale che mi è ben nota ma che riesce sempre a stupirmi.

Tutto accuratamente conservato, catalogato ed etichettato affinché sopravvivesse al passare del tempo.

Tutto legato a vari luoghi, persone, episodi.

«Ma certo non ti ricordi di quella volta?» La Vocina nella mia testa che tutto rammenta e tutto sa.

«Quella volta bellissima con…» E un nome e cognome che non sentivo pronunciare né pronunciavo (volutamente) da tanto tempo.

A prescindere da quello che era successo dopo, in quel momento, in quel preciso momento, ero felice. Ecco. È quell’ero che ha iniziato a stonarmi. Perché conservare ricordini di un attimo di felicità, essendo consapevole di quanto fosse effimera? Conoscendo perfettamente gli avvenimenti successivi che hanno cancellato e insozzato quegli attimi?

Testimonianze piccole e grandi di un passato vissuto appieno, dalle quali non avrei mai potuto separarmi e che invece, oggi, ho eliminato senza sofferenza.

Forse perché si cresce, si cambia, si hanno altri gusti e priorità, o forse perché ho imparato la meravigliosa arte del non-attaccamento.

Ho rimirato ogni singolo biglietto di auguri scritto o ricevuto; inviti; bomboniere; fattura di “quella” cosa comperata per “quella” occasione e, magari, mentre ero in compagnia di “quella” persona.

Diari, innumerevoli, pezzi di carta di fortuna che in quel momento avevano raccolto le mie considerazioni. Tantissimi.

Parole, confidenze, battute, sogni, speranze, strazi, dolori, delusioni, sentimenti, gioie, resoconti.

Ho riconosciuto la mia ossessiva e atavica voglia di fissare pensieri e tormenti. Ne ho letti solo alcuni, ho provato emozioni diverse, paure conosciute, tenerezza.

Il timore di perdere qualche pezzetto di vita, di dimenticare qualcosa, di rammentare concetti fondamentali alla futura me stessa. La voglia di ricordare tutto.

Proprio in questi giorni, non per “caso”, ho letto la differenza tra “dimenticare” e “scordare” che è anche abbastanza lampante, ma non mi ci ero mai soffermata. Dimenticare significa farsi uscire dalla mente; scordare, togliere dal cuore.

Una delle più grandi paure degli esseri umani è quella di essere dimenticati e scordati.

Nessuno di noi vuole incarnare l’inglorioso ruolo della meteora nella vita di qualcun altro. Penso che conservare moniti per la memoria, trattenendo a noi le persone, alimenti la sciocca illusione di non essere noi stessi dimenticati. Come se con quei ricordi mantenessimo un filo invisibile di congiunzione tra noi e loro, in modo da tenerci almeno nei ricordi.

Mi sono guardata intorno: alle pareti ho appese le foto dei miei affetti più cari, quelli che ci saranno sempre, comunque vada. Così mi sento circondata dal loro amore e quello sì, voglio ricordarlo e averlo sotto agli occhi tutti i giorni.

Il passato si lascia andare e si fa spazio al nuovo.

Avevo dei cassetti che non aprivo mai, ora ho un cestino molto grande.

Ho perso il conto dei sacchi di spazzatura che ho riempito e di roba che ho destinato a regali e beneficenza.

Mi sono liberata di tutto quel che è inutile e non necessario. Come è mia abitudine recentemente conquistata in qualsiasi ambito della mia vita.

Lascia andare. Oggetti, luoghi, ricordi, persone…

Abbiamo imparato il “non potere”. Non poter prendere un caffè, andare a cena fuori, passeggiare, lavorare, andare a trovare gli amici, andare in palestra, fare shopping, abbracciarci e fare l’amore.

Non potere.

Te lo proibisco.

Il corollario a tutto questo è che fino a questi giorni abbiamo sempre potuto, ma magari non voluto, o procrastinato.

Abbiamo dato per scontato la nostra libertà e la nostra possibilità di scelta. Abbiamo rimandato sempre convinti che ci fosse un tempo eterno e qualcuno o qualcosa sempre pronti ad aspettarci.

Ci hanno dovuto imporre delle restrizioni per farci capire che non è e non è mai stato così.

Abbiamo esperito nuovi outfit corredati da guanti e mascherine. Ridisegnato il nostro modo di fare acquisti, stando composti in fila e a distanza, vulnerabili, interrogandoci su quanto durerà.

Abbiamo letto e ci siamo informati ma senza capire a fondo. Almeno io. E, in tutto questo, sono sempre affascinata dai soliti detentori della verità assoluta.

Abbiamo riso dell’intera faccenda in tutti i modi. Abbiamo tirato fuori la nostra innata capacità di sdrammatizzare e ironizzare per esorcizzare un mostro che non siamo in grado di controllare in altra maniera.

Sono fiera di questa nostra attitudine, di provare a sorridere anche in momenti davvero poco divertenti. Ho visto dei meme fenomenali, geniali, esilaranti.

Ho riso molto, mentre ero preoccupata come tutti noi.

(poi avete rotto pure un po’ il cazzo su WhatsApp co’ seimilioni di video al minuto, diciamolo).

Sono stati creati dei momenti di coesione nella distanza: canti, balletti, flash-mob. Mi piacerebbe che fossimo uniti per davvero e non solo in questa circostanza. Che questa fratellanza e appartenenza tra sconosciuti provassimo a sentirla realmente tutti i giorni. Ma, a dire il vero, ci credo poco.

Ci hanno privati della possibilità di toccarci e vederci per farci capire quanto la nostra dimensione umana si esplichi attraverso tutti e cinque i nostri sensi.

Di quanto nei rapporti sia necessaria l’estensione fisica.

Le persone che amo, amo toccarle, sentirle con naso e le orecchie, rimirarle, coccolarle, ascoltarle, vederle ridere.

Tutte meraviglie degli umani esseri che, in alcuni casi, abbiamo demandato alle emoticon illudendoci che sia lo stesso.

Ho ricevuto messaggi da gente che sta dall’altro capo del mondo, solo per sapere come andasse.

Ci siamo organizzati con lunghe telefonate e videochiamate, per sincerarci con gli occhi che i vari “Sto bene” scritti corrispondessero a verità.

Ho esperito la bellezza consolatoria degli AperiVideo organizzati per sopperire a quell’esigenza, urgenza, bisogno umano dettato dall’amore di vedere e viversi le persone alle quali si tiene davvero. Seppur costretti dietro a uno schermo.

Ho percepito la vivida mancanza di qualcuno, in maniera quasi insopportabile. Ho derogato ai musi lunghi e incomprensioni per sapere, sentire, sincerarmi. Mi sono chiesta se questi sentimenti fossero autentici o amplificati dalla situazione e non sono riuscita a darmi una risposta.

Sebbene sia parecchio abituata a starmene per conto mio, parlare poco e riflettere molto, ho patito questa condizione di eremi coatti.

Ma, come sempre, alla solitudine non rinuncio per chicchessia…

Sono tornati TUTTI, come era prevedibile.

Mi manca solo il bimbo che all’asilo mi mostrava con fierezza le proprie caccole. Peccato.

Gente che non sentivo perfino da anni (ANNI!).

Occorre fare un distinguo ben preciso da chi ti cerca perché non ha di meglio da fare e chi lo fa perché VUOLE avere tue notizie.

In questo siamo allenati.

Basta chiedersi dove siano collocate queste persone quando va tutto bene.

Indi, dove hai passato i giorni belli, passa pure la quarantena, dài.

In tutto questo, come sempre, abbiamo contato le assenze.

Ora, venuta meno la scusa principe del “non avere tempo” – come se in giorni normali fosse poi ammissibile ma in questi decisamente pleonastica – ci ha ribadito con violenza la differenza tra potere e volere. Tra dire e fare.

Ci ha sbattuto in faccia un elenco di persone per le quali contiamo qualcosa e quelle che – ahimè – vivono benissimo senza di noi.

Ho notato le mancanze. Di quei latori facili di “Ti voglio bene”.

Hanno rimarcato come le azioni abbiano un peso prepotente rispetto alle belle frasi.

Il silenzio è stato una risposta ben precisa a quella domanda che spesso ci poniamo, di come sarebbero certi rapporti se noi non fossimo una parte attiva, propositiva, istigatrice e non recriminante.

Un solo messaggio neanche degnato di una risposta mi basta per qualificare il destinatario e la considerazione che ha di me.

Vale lo stesso per quelle chiamate mai ricevute, perfino quando si era detto di vedersi, cascasse il mondo.

Il mondo non è caduto, ma ci ha isolati e resi più fragili, e quelle telefonate non sono comunque arrivate.

Ma i nostri responsi, sì.

Prego, agire di conseguenza.

Tutto questo non è mai un fatto di orgoglio, ma di amor proprio.

Ci hanno imposto una distanza per salvarci la vita e, spesso, lo facciamo anche noi.

Trattare con distacco.

Allontanarsi.

Erigere un muro.

Credetemi, non è questione di superbia, alterigia, o stronzaggine a prescindere, no. È stanchezza.

Sono davvero stanca di interagire con soggetti intermittenti, ambigui, re delle mezze parole e mezze verità, inconcludenti, millantatori e che non fanno seguire i fatti alle belle parole. Sono stanca di attendere e giustificare e di fingere di non capire.

Sono stanca. Non occorre che dedichi loro ulteriore tempo.

Forse abbiamo finalmente imparato, e spero che non ce ne dimentichiamo, che la felicità risiede nella semplicità.

Di quanto i rapporti umani siano semplici e scanditi da “regole” spontanee dettate dall’importanza che quelle persone rivestono per noi e viceversa.

Alla fine di tutta questa storia, sapremo con esattezza – e spesso ancor di più – che abbiamo un tempo e degli spazi limitati.

Che c’è una notevole differenza tra farlo passare, il tempo, e impiegarlo al meglio.

Che per essere umani degni di questo nome, abbiamo necessità di vedere, sentire, toccare, respirare e assaggiare chi amiamo.

Che ora, mentre scrivo, da sola e lontana da tutti, il solo pensiero di poter sfiorare qualcuno mi fa commuovere.

Non dimentichiamo CHI e COSA ci è mancato. CHI ci è stato vicino. Di CHI e COSA non siamo più disposti a fare a meno. E, magari, diciamoglielo.

Sapremo, infine, chi continuare a tenere a distanza di sicurezza per il nostro bene.

E chi, invece, andare ad abbracciare di corsa, come prima cosa. Appena ne avremo la possibilità.

Abbracciami forte.

Più forte…

PS: Abbiamo pure avuto ulteriore conferma dell’esistenza del Karma. E ce l’ha data Boris Johnson.

Considerazioni sparse su Sanremo sulla base di ciò che ho reperito in giro.

Ha vinto Diodato con una canzone dedicata alla sua ex. La sua ex è Levante anch’ella presente al Festival che a sua volta ha dedicato una canzone al suo ex Diodato, che al mercato mio padre comprò.
E noi mortali che ci lanciamo semplici frecciatine sui social. Questo è un altro livello.
Ma se si mancano perché non tornano insieme?
Attendiamo nuove hit per scoprirlo.

Eloide è di una figaggine spaventosa.
Per Sabrina Salerno ho finito gli aggettivi. Direi che questa settimana tra lei e l’accoppiata Shakira-JLo al Super Bowl, la mia eterosessualità ha vacillato di brutto. E le ventenni, mute.

I Ricchi e Poveri si sono riappacificati e sono tornati alla formazione quadrupla originale. Perché pure l’incazzatura da corna, a un certo punto, va in prescrizione.

Achille Lauro si è vestito perfino da Regina di Cuori di Alice. Alla sua vista, Enzo Miccio è svenuto. Non si è capito se per gioia o repulsione.

Il pubblico si è spaccato tra chi critica Achille Lauro ritenendolo un cretino privo di talento che non si può in alcun modo accostare, come è stato fatto, a mostri sacri quali Freddie, Bowie e Zero; e chi critica chi critica Achille Lauro gridando al genio, al suo essere avantissimo, tanto da non essere compreso dal volgo ignorante.

Vi lascio immaginare da che parte si collochi il mio pensiero…

All’uscita della Leotta sulla bellezza che “capita”, ho reagito nell’unico modo plausibile:

AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!!

La presenza di Piero Pelù, Irene Grandi, Le Vibrazioni e Marco Masini mi ha illuso per un attimo che fossimo tornati agli anni’90/inizio 2000. Grazie, vi amo.

È stato tributato un applauso a Beppe Vessicchio che manco al vincitore stesso. Lui ha ringraziato con un sorriso che mal celava un “Pijateve ‘sti spicci. Così imparate a lasciamme a casa, stronzi”. Ha vinto lui.

Ho sviluppato un’imprevedibile simpatia per Elettra Lamborghini. Giovane, famosa, figa, miliardaria, fidanzata con un giovane, famoso, figo, miliardario, che avrà detto: «Vabbè ‘sta settimana non c’ho molto da fa’, me ne vado a Sanremo a famme du’ risate». Adorissimo. (Ele’, se t’avanza ‘na Diablo, sai dove trovarmi).

C’erano i “Pinguini Tattici Nucleari” non li conosco, ma il loro nome mi ha fatto ridere. Poi ho pensato che se veneriamo gli “Scarafaggi”, gli “Spazzatura” e i “Peperoncini Rossi Piccanti”, non vedo perché dovrebbero essere da meno i “Tactical nuclear penguins”.
Morgan ha litigato con un certo Bugo. Niente, fa già ridere così.

Paolo Jannacci è Herbert Ballerina. Punto.

Quest’anno vanno di moda le scollature larghe e aperte. Poi non ci stupiamo se le tette straripano.
Il buon Tiziano ha sbroccato a Fiorello che s’è offeso, poi hanno suggellato la pace con un bacio.

La reazione schifata di Ferro credo che sia una delle cose più belle che abbia mai visto in vita mia.

E, in tutto ciò, c’è un cantante che si chiama Rancore. Vi rendete conto? RANCORE. Ti presenti e fai: “Piacere, sono Rancore”. E non devi aggiungere proprio nulla. Sono invidiosa.

Ah, dice che c’era pure Amadeus.

Quindi abbiamo gossip sopraffini, litigi plateali, frecciatine multiple, inciuci, dediche, incomprensioni, rappacificazioni, ripicche, vendette, polemiche, strascichi, Rancore vero che manco Beautiful.

E io, cretina, che ogni anno mi ostino a non vederlo.

 

“Fai rumore” è da brividi… Andava detto.

FLUSSO DI COSCIENZA

«Sei come un’anguilla che sguscia».

Così mi ha detto.

Un’anguilla che scivola via dalle mani, scappa, che non si riesce a trattenere.

«L’hai fatto anche con me» ha aggiunto.

«E si percepisce questa tua attitudine all’andarsene, a lasciar perdere. Questo istinto che ti porta ad allontanarti. Si sente che sfuggi, che hai sempre un piede sulla porta».

Questo me l’ha detto il 10 Dicembre 2018. È quindi da più di un anno che ci rifletto su.

La gente che non pensa la invidio proprio, io sono un continuo rimuginare:

Che faccio?

Ho fatto bene?

Ho fatto male.

Ho fatto, basta.

No, troppo semplice.

Fatto sta che, dopo queste sue parole, mi sono trattenuta per ben due volte quando era sicuro che sarei dovuta scappare. E pure di corsa.

Pure uno di questi altri due me l’aveva detto:

«Tu ti defili…»

Anziché andare, ho pensato che avessero ragione loro, che fossi troppo precipitosa nel prendere l’uscita, quindi sono rimasta in due occasioni a farmi danneggiare. Ben consapevole.

Mentre le Voci nella mia testa mi insultavano.

E i fatti successivi hanno dato loro ragione.

Ve la do io l’anguilla.

Mica sono masochista!

Se mi viene voglia di scappare è perché non sto bene dove mi trovo.

Mica mi incaponisco.

Non più, almeno…

Che senso ha?

Se fossi felice, resterei. Pianterei una tenda, coltiverei il giardino, metterei l’etichetta sul citofono.

Griderei: «STO QUI!»

Perché dovrei fuggire da persone o situazioni che mi danno piacere?

Mica so’ scema!

Eppure lui ne era convinto.

Sono scappata pure da lui. Per coerenza.

Alla fine non pensavo di avere così tanto bisogno di una terapia, in fondo.

O forse sì…

Di sicuro non della sua che non mi soddisfaceva e acuiva le mie problematiche.

E poi non si ricordava le cose.

Capito?

Con ME, che sono un computer  vivente e ti so dire pure in che occasione te le ho dette e le parole precise che ho usato.

Ogni volta dovevamo ricominciare daccapo e mi snervava.

E lo pagavo pure!!

Sono fuggita, sì. Che stavo a fare?

A sentirmi poco considerata perfino da colui che per lavoro (e parcella) avrebbe dovuto ascoltarmi?

O forse aveva ragione e sono una che sa solo scappare…

Boh.

Sarò matta.

Che poi chi riesce a guardarsi dentro talmente bene da decidere di chiedere aiuto, mica è un pazzo.

Anzi, è perfino troppo lucido.

Chi ha capito che la nostra mente ci pone dei condizionamenti che determinano il nostro comportamento e plasmano la nostra realtà ha capito tutto. Altro che folle.

Quindi, sono un genio.

No.

Ma non sono neanche matta.

Sono una che pensa e sente troppo.

Percepisce un cambio di intonazione, un’inflessione, una mancanza ed ogni piccola cura.

E se le segna.

E le accumula.

E tira le somme.

E considera come il tutto la faccia stare.

Questa, sono.

Sì, forse sono un po’ matta.

Che poi i matti veri hanno tutto un mondo loro, un modo di vivere le cose, una realtà che si forgiano come meglio li aggrada. Ma non stanno meglio di noi? Per me, sì.

Mi sa che mi taglio i capelli.

No, per carità, che l’ultima volta, dopo, piangevo e mi volevo mettere le extension.

Mi faccio bionda.

Chissà come sarebbe la mia vita da bionda…

A-N-G-U-I-L-L-A.

Sarò un’anguilla, che ti devo dire.

Un fondo di verità l’ho trovata, ed è pure palese.

Quando si è stati feriti, si scappa per prevenire ulteriore dolore.

Su questo siamo tutti d’accordo, no?

Di fronte a una malaparata ci si dà a gambe, mi pare logico.

Riconoscere se si scappa per paura o perché è la cosa giusta da fare, qui risiede il problema.

Mi ero convinta di non saper più distinguere le due circostanze.

Tutta la pletora delle mie insicurezze mi avevano condotta fino a lui, e le sue parole mi fecero dubitare ancor più di me.

Come se non sapessi più discernere quel che mi faceva male, e dal quale sarei dovuta fuggire, perché persuasa che cercassi solo la fuga.

Che il mio istinto, la parte più intima della mia amigdala, sbagliasse, mi ingannasse, volesse solo preservarsi.

Che era solo mio Ego ad agire, per tornare nello stato di comfort e rifuggire le novità.

Quando sei insicura, credi sempre che chiunque ne sappia più di te, sia più saggio di te, abbia risposte migliori delle tue. E ti affidi.

Molto spesso, sbagliando. Come in questo caso.

Quel che percepivo come dannoso, ormai lo classificavo come paranoie auto-sabotanti.

Non è così come pensi, no. È il tuo giudizio parziale.

Quindi, quando mi sono trovata dinnanzi a comportamenti inqualificabili che, in altri momenti, avrei gestito con un semplice “Vaffa”, alla luce di questo, mi avevano convinta che, no, era tutto nella mia testa. Stavo sbagliando, stavo scappando, mi stavo defilando.

Un cazzo.

Poi aveva pronunciato una parolina che detesto: “Psicofarmaci”.

Stocazzo.

Io dovevo capire il PERCHÈ dei miei (eventuali) problemi, non curarli e basta.

Questo volevo.

Mi ci ero messa d’impegno, eh.

Roba forte.

Tipo che avevo pianto ogni volta, mentre tiravo fuori dalle viscere quel che più mi addolorava. Io, sempre quella che “non piange in pubblico”, ma con colui che avrebbe dovuto vigilare sulla mia salute mentale, mi sembrava opportuno togliere tutte le maschere.

Questi drammatici accoramenti pensavo potessero essere facilmente ricordati.

Manco per il cazzo.

Perché le volte successive mi poneva le medesime questioni che avevo già sufficientemente lacrimato.

Questo nemmeno mi ascolta.

E io sono insicura, e ho bassa autostima, e partorisco paranoie, ok.

E pago uno che non mi ascolta.

Mo, secondo te, sarei dovuta restare solo perché altrimenti mi avrebbe detto che sono un’anguilla?

Eh no, dai.

Sarò anguilla, ma mica so’ scema.

E due.

Che ci sto a fare qui?

Ecco, questa domanda me la pongo spesso.

Se non sto bene, me ne vado.

Questo fa di me un’anguilla?

Ok, sono un’anguilla.

Ma un’anguilla consapevole.

Ho sempre criticato chi si fa le autodiagnosi, ma non mi potevo permettere di essere delusa da qualcun altro.

Ora ti spiego una cosa: quando una che non è avvezza a chiedere aiuto, poi si sforza di farlo, ma non lo riceve, passeranno dei lustri prima che riesca a chiederlo di nuovo. È sicuro.

Molti pensano che sia un fatto di boria e supponenza, no! Non c’entra un cazzo.

In genere, quelli che sono incapaci a chiedere aiuto non è che siano davvero incapaci, ma hanno paura di disturbare. Ci crederesti mai? Ebbene è così. Sappilo. E hanno paura di non trovarlo e di essere delusi. Boom!

“Quelli che non chiedono mai aiuto sono coloro che ne hanno più bisogno”. La sapevi questa? È una grossa verità che pochi considerano.

Se ci rifletti è una spiegazione più che logica.

Stronzi a parte, ovvio. Quelli manco li considero.

Forse dovrei tagliarmi pure le unghie. E mettere una smalto rosso.

Rosso?

Naaa… Non mi ci vedo.

“Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto”.

E se fosse mettere lo smalto rosso?

Ci faccio un pensierino, va’…

Ho perso il filo del discorso, dov’ero?

Ah, cavarsela da soli.

Se qualcosa ho capito di me e che sono una cocciuta con una forza di volontà incrollabile. Quando voglio.

Quindi mi sono giurata che ne sarei venuta a capo. Che avrei agito in maniera obiettiva e senza scorciatoie. Che avrei sofferto e versato lacrime  e sangue, ma avrei trovato le mie risposte. Cazzo, sì.

Così ho letto: pagine e pagine di sviscerato, addentrato, rimuginato. Libri, articoli, seminari, confronti.

Tutta roba “pesante”, tosta e il tutto fatto con una consapevolezza tale da farmi restare sveglia di notte a pensarci, te lo garantisco.

Ho rielaborato e rivissuto svariati episodi.

Ho riconosciuto delle fughe immotivate, per motivazioni davvero ridicole, perche era più facile.

Ma ho notato anche degli indicatori palesi che avevo scelto di ignorare.

Scelto.

Perché mi ero sforzata di restare.

Ora ti dico un’altra cosa: quando una che ha un muro eretto, addobbato, stratificato, calcificato, incontra uno con un muro altrettanto imponente e ben evidente, lo sai lei – l’anguilla – che fa? Fa un’altra bella fila di mattoni. E poi, eventualmente, scappa.

Dimmi, in tutta onestà: lo trovi un comportamento così strano?

Poi, storicamente, ogni volta che mi è capitato di disarmarmi di fronte a delle fortezze, sono successi dei disastri, dei danni per me e delle conseguenze così intrecciate che in Beautiful non sanno manco che so’. E, a dirla tutta, non ne valevano neanche la pena. È logico che ora ci metta un bel po’ a deporre l’elmetto.

Penso a “Love” di Milov. Noi tutti siamo così: bambini interiori spontanei e amorevoli, intrappolati dalle sovrastrutture che ci creiamo e che ci limitano. Ingabbiati dalle paure e chiusi in noi stessi, mentre le anime si cercano. Questo siamo.

E i muri lo rappresentano.

Ma possiamo scegliere (SCEGLIERE) di uscirne.

Lo butti giù? Lo faccio anche io.

“Salti tu, salto io” come in Titanic. Certo, non è che abbiano fatto ‘sta gran fine loro due, vabbè sto divagando, non c’entra niente.

Però io questo lo penso: se si abbassano le recinzioni, occorre venirsi incontro. E viceversa. Ed è bellissimo.

A quel punto, sì che pianterei una tenda, coltiverei il giardino, metterei l’etichetta sul citofono.

Non credi?

Certe volte non vale la pena scalare, questa è un’altra verità. Potresti trovarti a capo di una cordata con un qualcuno che ti trascini, che cerchi in tutti i modi di portarti dietro mentre lui non fa il benché minimo sforzo per salire insieme a te.

Credi sia cosa buona e giusta?

No.

Bisogna tagliare la corda. In tutti i sensi.

Ah-ah, ho fatto la battuta!! So’ troppo simpatica!!

Quindi so discernere quando è il momento di andare via e quando no.

Possedevo da sempre le chiavi del tutto, ma non avevo voluto usarle.

La mente mente e mi sorprende.

A-N-G-U-I-L-L-A.

Che poi l’anguilla è brutta, viscida e strisciante, ma lui mi vede così??

Ammazza…

Oddio, pure qualcun altro mi vedrà così??

Ma sai che c’è?

MASTICAZZI.

Poi lo sai che ho capito proprio bene, bene, bene??

Che mi sono fracassate le ovaie di pensare sempre di avere IO qualcosa che non vada! E basta!

Pure la terapia, volendo, era un’ammissione di “colpevolezza”, di qualche imperfezione grave da correggere, di problematiche che mi rendevano un soggetto da riabilitare.

Socialmente deficiente. Nel senso di deficienza proprio, mancanza. Ma pure deficienza in senso lato.

Sì, lo ammetto che ho un piede sulla porta, cazzo, sì!

Ormai mi curo degli altri in maniera “giusta”. Né più, né meno.

Non soffro né mi sento in difetto per questo.

E ho seimiliardi di altre stranezze che, se vuoi, ti elenco in ordine alfabetico e non so quando potrei finire!

Questo mi renderebbe una donna immeritevole, indegna di assecondare le proprie esigenze e destinata al mesto “accontentarsi di quel che passa il convento nel quale, prima o poi, finirai”?

Non credo.

Mi sono seduta sul mio trono da sgrinfia sussiegosa e ho urlato:

«MI VADO BENE COSÌ!! A VOI, NO?? ESTICAZZIII!!»

Sono una fottuta anguilla sensibile, strana e pretenziosa.

E mi vado bene così.

Tié.

 

 

 

«…BB?»

«Eh?»

«A che pensi? Sei tutta assorta…»

«Ah! Ehm… Niente, niente…»

«Tutto ok? Che c’è?»

«Niente, davvero, nient… No. Non è vero!»

«Allora cos’hai?»

«Il copione di genere prevedrebbe che ti rispondessi “Niente”, come ho fatto. Ma c’è qualcosa che stavo pensando, sulla quale ragionavo, una sorta di flusso di coscienza libero e folle, e te ne vorrei parlare…»

«Dimmi, allora»

«C’entra un pesce…»

«Un pesce??»

«Sì. Si parla di un’anguilla…»

 

 

 

Il flusso di coscienza (stream of consciousness in lingua inglese) è una tecnica narrativa consistente nella libera rappresentazione dei pensieri di una persona così come compaiono nella mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi. Da alcuni autori è considerato un vero e proprio genere letterario, anche se altri autori ritengono dubbia questa pretesa.

Il flusso di coscienza viene realizzato tramite il monologo interiore nei romanzi psicologici, ovvero in quelle opere dove emerge in primo piano l’individuo, con i suoi conflitti interiori e, in generale, le sue emozioni e sentimenti, passioni e sensazioni.

Fonte: Wikipedia

LA VERITÀ, VI SPIEGO, SULLO STALKING.

“Ogni femmina che si rispetti opera una doviziosa attività di stalkeraggio e controllo nei confronti del maschio oggetto dei propri desideri”.

Con queste parole iniziavo un articolo di qualche tempo fa anche se alla fine dello stesso, poi, rinnegavo l’opera di indagine e oggi vorrei approfondirne la motivazione.

Non vi suggerirò nuovi metodi di stalking, tutt’altro. Se siete qui per questo, mi spiace deludervi.

Oggi vi racconto la storia che ha trasformato BB da stalker professionista a stalker pentita.

Inizia diversi anni fa…

All’epoca mantenevo il mio ferreo proposito di non avere internet in casa, quindi potevo usufruirne solo a lavoro, non di sera, né nei weeekend. Immaginatevi quanto potesse essere stressante per me.

Gli smartphone non erano ancora così diffusi e, di sicuro, io non ne possedevo.

Quindi, operavo il mio monitoraggio costante dal lunedì al venerdì, orario d’ufficio e solo da pc.

Il social network era agli albori, ma io ne avevo scoperto ogni recondito segreto.

Per esempio, bastava aprire il profilo della persona in questione per trovare traccia di tutte le azioni che questa aveva compiuto (una sorta di “registro attività” odierno, ma visibile a tutti). Quindi vi apparivano like, commenti, amicizie strette, tutto.

Ogni mattina li aprivo uno per uno per scoprire cosa, come, quando, ma MAI il perché.

Disdetta.

A ripensarci adesso provo dei sentimenti contrastanti. Pena, per la me stessa di qualche anno fa. Rabbia, per essere stata tanto ingenua. Nostalgia, per aver perso così tanto tempo.

È una logica conseguenza che, per fortuna, ora non ami sprecarne nemmeno un po’.

Al culmine della mia follia avevo scoperto che il mio telefono, volendo, poteva sì collegarsi ad internet, ma a costi che scoprii solo quando mi arrivò la fattura e che vi lascio immaginare.

Negli anni, furono tre gli oggetti delle mie attenzioni ossessive e ancora me ne vergogno.

Sarà stato un caso, ma furono i tre dei quali mi fidavo meno (ma dai!) e che mi ferirono di più (ma dai!) .

Mi correggo.

Ai quali PERMISI di ferirmi di più.

Perché nessuno mi stava costringendo a frequentarli, sebbene non riponessi alcuna fiducia in loro, e ad incrementare così tanto le mie insicurezze, tanto da farmi diventare un’investigatrice patentata.

Pensare che, qualche anno prima, avevo biasimato pubblicamente una mia amica che aveva preso la pessima abitudine di fare le poste in macchina al proprio ex e, successivamente, mi ero ritrovata a fare lo stesso. Seppur virtualmente.

Operavo un controllo continuo e costante come se la vita si esaurisse nei social network. Come se ogni azione o accadimento dovessero necessariamente passare sul web. Come se fosse davvero – davvero! – possibile scovare ogni segreto di una persona attraverso un’indagine ininterrotta.

Avevo imparato a memoria i profili delle persone che sospettavo di più, esaminando costantemente anche loro. Avevo memorizzato tutti i nomi delle “parenti” – dopo aver scoperto che lo fossero – per escluderle dalla mia attività di sorveglianza. Odiavo con tutta me stessa quelle che si permettevano di fare le simpatiche e c’erano quelle tre/quattro sgallettate che sicuro, sicurissimo, ci provavano spudoratamente.

E poi c’erano quelle con le quali erano loro ad essere particolarmente affettuosi.

Erano le peggiori.

Perché non si potevano incolpare.

Perché mi mettevano davanti alla reale natura di quei soggetti.

E a quanto fosse tutto così inutile e doloroso.

Capitarono non di rado incidenti durante queste sessioni, tipo like e richieste d’amicizia partite per sbaglio, ma non riuscirono a fermarmi perché furono molti di più i fatti che scoprii, anche se non dovrei dirlo.

Tramite intrecci di profili, legami, correlazioni, talento, allenamento, intuito, empatia e un’opera meticolosa e sorprendente, affinai una tecnica incredibile.

So individuare con certezza CHI se la fa con chi. Con una precisione e una lungimiranza che spesso sorprendono anche me.

Ho trovato Ex avendo a disposizione pochissime informazioni, così, solo per il gusto di vederle.

Di uno pseudo VIP sono riuscita a scovare perfino il numero di telefono. L’ho memorizzato, ho verificato dalla propic di WhatsApp che fosse veramente lui, mi sono complimentata con me stessa e l’ho cancellato.

Ebbi conferme anche meno piacevoli, come il tizio che si dimostrò uno di quelli che scrivono «Sei bellissima» sotto ogni foto di ogni vaginomunita sperando di ottenerla questa “munizione”, a suon di complimenti stereotipati, sempre uguali e non sentiti.

Che mestizia.

Un altro era un addicted dei gruppi per single. Io non sapevo nemmeno cosa fossero i “gruppi”, ma ben presto imparai non solo che ve ne erano di privati, ma addirittura di “segreti” ai quali si poteva accedere tramite invito di un membro (AH-AH) e nei quali c’era da divertirsi. In tutti i sensi.

Uno dei miei fake è iscritto a molti di questi, per mero scopo antropologico (non sono ironica).

Quando mi capita di farci un giro, mi chiedo sempre quale appagamento possa esserci nel mostrare le proprie grazie a millemila sconosciuti sbavanti, barattandole per qualche like.

Non lo comprendo, per quanto io possa sentirmi sola.

E io per un periodo avevo affidato il destino della mia felicità a uno di quegli individui che si salvano le foto per poterle poi usare in solitudine.

Che aggiungono femmine random per crearsi un proprio personale pollaio.

Che fanno incontri a ripetizione e con un solo, unico, preciso SCOPO.

Di nuovo, che mestizia.

In buona sostanza, tutta questa sapienza, conoscenza che mi permetteva di intuire e verificare, non mi tenne al riparo dalla delusione, né mi preservò dal dolore e da tutto il male che mi fecero costoro, con un ottimo aiuto da parte mia.

La verità era una sola, ma io cercavo di aggirarla attraverso delle indagini. Di distrarmi per non voler proprio capire quel che era assolutamente lampante. Per trovare prove che erano del tutto superflue, visto che già quelle azioni parlavano abbastanza.

Ora vi devo parlare anche della parte meno divertente, qualora questa l’aveste trovata tale.

E concerne quando siamo noi ad essere oggetto di attenzioni ossessive.

A me è capitato diverse volte.

Gli uomini sono meno bravi in questo, rispetto a noi donne. Sono parecchio più invadenti e sgamabili.

In genere lo SAI chi è che ti controlla con ossessione.

Ebbi diversi stalker che commentavano ogni mia singola azione. Che chiedevano l’amicizia alle mie amiche. Che interagivano nei post pubblici che io avevo apprezzato o nei quali avevo espresso la mia opinione.

Non mi sentivo più libera di condividere alcunché.

Mi sono capitati anche quelli ancora più pericolosi, poiché mi erano vicini fisicamente.

Un paio, in particolare, che sapevano dove lavoravo e, casualità, avevano imparato i miei orari. Perfino quando mi recavo in un certo posto, in momenti in cui sapevo di non trovare nessuno visto che non amo la folla, …tranne loro.

A volte confesso che ebbi paura.

Tutto questo mi ha trasformata in una maniaca della privacy, a condividere sempre meno, a blindare il mio profilo ai “non amici”. Ad operare un chirurgico distinguo tra “amici” e “conoscenti” e a oscurare tutti i miei post a quest’ultimi.

In questa lista finiscono, in genere, coloro che sono “costretta” ad accettare per variegati motivi di parentela/rapporti lavorativi/di conoscenza ma che NON voglio che sappiano un mio solo fatto privato. Benché pubblichi davvero molto, molto poco.

Quando nacque Facebook – con il nobile e innocente intento di ritrovare vecchi compagni di scuola e condividere con loro pensieri, ricordi e quant’altro – avevo creato un album composto di mie foto personali, istantanee che testimoniavano gli avvenimenti più importanti della mia vita, tutte castissime, come potete intuire. Perfino la mia propic presenta una censura rispetto alla versione originale.

Quando ho appreso che qualcuno aveva salvato alcune di queste foto o mi lasciava commenti di notte, la cosa mi inquietò non poco, tanto da spingermi a impostare la privacy di quell’album in “solo io”.

Mi sono sentita spesso letteralmente “controllata”.

Poi, perché? Non c’era nulla tra noi, non meritavo una tale “dedizione”.

Tacciandomi subito da ipocrita, ripensando a tutte le volte che lo avevo fatto io.

Giusto, non mi potevo lamentare.

Sono innumerevoli le cose che sono riuscita e che riuscirei a fare.

Se solo adesso mi interessasse farlo.

Le mie amiche mi sfidano a cercare l’impossibile: persone, legami, relazioni, foto e io non fallisco mai.

Tanto che una, recentemente, mi ha detto:

«Aspiro a diventare come te!»

Ho frequentato ragazzi dei quali NON avevo l’amicizia su Facebook e non mi importava averla.

Se mi viene la malaugurata idea di esaminare qualche profilo, amicizie, gruppi, amiche, interazioni, mi chiedo semplicemente:

«Perché devo farmi questo?» E passo oltre.

Mi stanno insegnando ad usare Instagram, ma comunque lo apro pochissimo e non guardo mai quello che fanno gli altri. Mi scordo proprio di questa possibilità di impiccionaggio estremo, anche se a volte mi regala gioie.

Mi ostino a celare l’ultimo accesso WhatsApp e, di conseguenza, mi è negata la visione degli altrui. Idem per le spunte blu.

Guardo raramente gli “stati” anche se a postarli sono “certe” persone.

Non so se sbircerei mai un telefono altrui perché mi incazzerei parecchio se lo facessero con me.

Ho imparato.

Ho sprecato tempo, soldi ed energie, ma ce l’ho fatta.

Sebbene sia divertente, rilassante; sebbene riconosca di avere un talento formidabile che dovrebbe essere insignito di un qualche premio e riconoscimento; sebbene a volte si ha solo la curiosità di capire o conoscere di più o scoprire se quel sospetto è una certezza, mi sussurro che non merito di farmi questo. Che è deleterio.

Che è del tutto inutile.

Che “controllare” indica solo che quella persona non è tua, punto.

E a me non interessa chi non è interessato a me.

In ultimo, ma più importante, che non si riuscirà MAI a scoprire TUTTO quello che fa/dice/omette/scrive qualcun altro.

Semplice.

Quindi, è preferibile vivere sereni.

Fidatevi.

Ciao sono BB e da qualche anno preferisco ignorare. Fallo anche tu!

 

 

Ah! Se siete voi a voler scoprire qualcosa, chiamatemi.

Che io so come si fa. 😉

LA SAI QUELLA DI BB, LA CANTANTE, LE RUSSE, LA CINESE E L’ARGENTINO?

So che vi sembrerà una barzelletta, però vi giuro che è andata veramente così.
C’erano due italiane more: BB e la cantante, due russe bionde, una cinese, due americani, un italiano, un italoamericano e un argentino.
E sto.

Col Colosseo a fare da sfondo.

Noi che credevamo di trascorrere una serata pacata e soprattutto “ristretta”, ci siamo trovate in una situazione che abbiamo ben sintetizzato nel messaggio inviato alle amiche disertrici:

«Pensavamo di passare una serata tranquilla, invece siamo finite in una sorta di orgia multietnica».

Così.

Al nostro arrivo, gli altri protagonisti della barzelletta avevano già brindato innumerevoli volte alla salute della bizzarra congrega. Ed erano già parecchio allegri.

A complicare ulteriormente la socializzazione c’era la necessità di dialogare in inglese.
Io che sono notoriamente asociale e già trovo fastidioso fraternizzare nel mio idioma d’appartenenza, figuratevi quanto apprezzassi conversare nella lingua albionica.

L’unico a masticare un po’ l’italiano era l’argentino.

Gnam.
La mia fede calcistica mi ha portato, negli anni, a nutrire una passione smodata per gli argentini. Soprattutto per gli argentini calciatori, come lui.

Quindi la mia amica, la cantante, ed io l’abbiamo sequestrato per nostro esclusivo sollazzo.

Lui e quelle sue meravigliose Rrr arrotate, le Sss festanti, l’intero complesso dell’accento sudamericano.

Cosa hai detto?
Sì dài, dimmelo ancora.

Pure uno degli yankee era notevole. E l’aveva notato pure la cantante.

«Oh, mica male quell-»

«C’ha la fede…»

«Ammazza, già l’hai visto?»

«Ecccerto».

Never a joy.

L’altro era un buffo personaggio sorridente e sobrio come un intero veglione di Capodanno e ci ha fatto fare parecchie risate.

La cinese e il suo fascino orientale incarnava perfettamente lo stereotipo: lunghi capelli neri, bel sorriso, vestitino cheongsam d’ordinanza ed età indefinita, come tutte le asiatiche

Voglio rinascere asiatica.

E condivideva con noi la mesta consapevolezza di NON essere il fulcro dell’interesse.

Perché poi c’erano loro. I cui nomi non mi sono neanche presa il disturbo di ascoltare (pure loro i nostri, eh): le russe. Bionde, algide, con la faccia da snob. Modello standard, insomma.

Ma ho notato che avevo le tette più grandi delle loro, il che mi rendeva almeno competitiva (e poi una era più bassa di me, ecco).

La mediterraneità contro il Mar Glaciale Artico (GLACIALE!).

Il bucatino contro le zuppe.

La grappa contro la vodka.

Appena è stato possibile, abbiamo interrogato l’amico italiano per sapere DOVE le avesse raccattate (dato che il PERCHÉ era abbastanza lampante).

«Guarda che una è un noto avvoc-»

«Eh no, dài, non è possibile!!» ho sbottato «Quando si parla di queste signore, sono tutte affermate professioniste: ingegneri, avvocati, fisici nucleari. Ce ne fosse una che faccia, che ne so, la bidella o l’addetta ai bagni dell’Autogrill! Anzi, Autogrillovski. E poi si fanno pagare pure il bicchiere d’acqua che ti danno gratis col caffè. E dài, su!».

Infatti, mantenendo fede alla loro nomea da gran fije de ‘na matrioska, non hanno neanche fatto il gesto di prendere il portafoglio per pagare al momento del conto. Giammai.

Hanno continuato con nonchalanciovski a chiacchierare aspirando fumo dalle sigarette per signore di classe, quelle fine, mentre qualcuno si occupava di regolarizzare al loro posto.

Noi due more abbiamo aspettato invano che qualcuno si facesse avanti per noi, ma niente. Non ci sperate.

Devono essere i capelli, perché pure la cinese è stata snobbata dalla galanteria altrui.

Chissà come starei bionda…

Una di loro festeggiava il compleanno. Le abbiamo fatto arrivare torta e candeline (che abbiamo pagato solo noi of course) cantato Happy Birthday e poi le abbiamo chiesto quanti anni compisse.

«Nineteen» ci ha detto.

L’amica ha subito riso e aggiunto «Another time!»

L’ho guardata con superiorità e ho bofonchiato “A bella ‘nte sei inventata niente. Io so’ anni che ne faccio ventinove”.

Però, alla fine, la russa diciannovenne-un’altra-volta ha pronunciato inaspettatamente un discorso (in inglese) così commovente, riconoscente , elogiante quella bislacca compagnia e pregno di gratitudine, da farmi emozionare e ricredere su queste figlie di Putin.

Spasibo.

Poi è arrivato lui: l’italoamericano.

Mentre si presentava, la cantante, in un linguaggio che potevamo comprendere solo noi e parlando a denti stretti continuando a sorridere come solo le donne riescono a fare, mi forniva dettagli su di lui che bastavano per qualificarlo.

Come uno stronzo.

Ovviamente, in quanto tale, è stata conseguenza logica che lui a fine serata chiedesse il mio numero di telefono, perché io attiro stronzi perfino quando sono disinteressata. Modestamente.

Mi ha porto il suo smartphone affinché glielo memorizzassi.

Cosa che ho fatto, inserendo il nome.

Poi gliel’ho restituito dicendo:

«Tieni, vedi tu cosa aggiungere accanto al nome per ricordarti CHI sono».

Ha riso, lui.

Ho annuito, io. Vi conosco, vi conosco bene.

«Ti ho mandato un messaggio su WhatsApp così anche tu hai il mio»

«Fantastico!»
Ho detto.
Fantastico, così ti blocco subito.

Ho pensato.

Ho appreso pure che, appena ti distrai un attimo dalla movida romana, scopri che quartieri che conoscevi e frequentavi, ora sono riservati esclusivamente alla comunità lgbt. E quindi capisci che quel gran manzo del barman non stava puntando te, ma il tuo accompagnatore e con questo, signori, non potevo proprio competere.

Non ci restava che andarcene, lasciando le russe con l’italiano, l’argentino e il bicchiere della staffa a casa. (e mo se chiama così).

Sostanzialmente, tirando le somme di una serata curiosa, variegata e alquanto istruttiva, la nostra presenza lì si sintetizza nella risposta che ricevetti quella volta che entrata da Cencio La Parolaccia – il famoso locale trasteverino noto per la tipica cucina romana e, soprattutto, per i modi garbati e morigerati – informando il cameriere della mia vegetarianità, chiedendo – quindi – se ci fossero pietanze che potessi mangiare, mi rispose con un sobrio, quanto inoppugnabile:

«E che cazzo sei venuta a fa, qua? È come se portassi un frocio a mignotte!»

Ecco.

Uguale.

SEI FELICE?

Mi ha fatto un bel po’ di domande: il lavoro, la famiglia, il fidanzato, una panoramica completa, niente escluso.

Però sentivo che ne teneva una in serbo che gli premeva più delle altre, che ci teneva proprio a pormi, della quale voleva conoscere assolutamente la risposta.

Ma ignoravo di cosa si trattasse.

Non capivo quale altro argomento spinoso potesse tirare fuori.

E l’ho invitato, con gli occhi, a farmela, anche se un po’ la temevo.

Infine ha preso coraggio e ha bisbigliato:

«Sei felice?»

Boom.

LA DOMANDA.

Se me l’avesse posta qualche mese fa, non avrei esitato un attimo a rispondere:

«No, sto di merda. Va tutto male, non riesco a riprendermi…»

Ma adesso, no.

Non lo so come riesca la nostra mente a formulare così tanti pensieri in una manciata di secondi. A passare in rassegna innumerevoli immagini, istanti, frasi, ricordi.

Questi ultimi mesi li ho percorsi col pensiero e poi sono andata ancora più indietro.

La felicità.

In un suo famoso monologo, Benigni ne parla così:

«Cercatela, tutti i giorni, continuamente. Chiunque mi ascolta ora si metta in cerca della felicità. Ora, in questo momento stesso, perché è lì. Ce l’avete. Ce l’abbiamo. Perché l’hanno data a tutti noi. Ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ce l’hanno data in regalo, in dote. […] E anche se lei si dimentica di noi, non ci dobbiamo mai dimenticare di lei…»

Condivisibile, a volte difficile da mettere in pratica.

Totò, invece, affermava che:

«Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza»

Come la mia Prof di filosofia che diceva che, appunto, la felicità è fatta di momenti. E bisogna notarli quei momenti e custodirli e gioirne.

Ho rammentato  tutti i libri che ho letto, le meditazioni; la LoA; il potere della mente; la connessione psicofisica; il Karma; l’atteggiamento; la profezia che si autoavvera; il pensiero positivo; la legge di Murphy; la gratitudine; l’Aura; i concetti di “Luce” e “Amore” e – perché no – pure i “Vaffa” liberatori, tutte queste nozioni e pratiche con le quali ho saturato il mio già straripante cervello, che però mi aiutano, quando non sembra riuscirci nulla. Che mi hanno fatto pure guadagnare l’epiteto di “Strega”.

Tutta questa roba qui che, tutta insieme, ha contribuito a farmi creare il mio concetto di felicità.

La felicità è un modo di pensare, di agire, di atteggiarsi, di plasmarsi, di forgiare le proprie giornate, di reagire alla vita, agli imprevisti, agli intoppi, di guardare al mondo e agli altri.

L’ho verificato empiricamente.

Se la mattina ti alzi male, le cose andranno peggio. E viceversa.

Sperare non costa nulla, sorridere, nemmeno. Potremmo sempre e comunque incappare nelle delusioni, ma non dovremmo permettere loro di cambiarci, di abbrutirci, di demoralizzarci, come spesso – purtroppo – accade. Non dovremmo concentrarci sul brutto, ma perseguire il bello, la gioia.

Abbandonare quei pensieri che ci fanno stare male, che ci creano una botta allo stomaco e sofferenza, quei ricordi che ci mortificano l’anima, in favore di altri più salutari.

Quando mi accade, penso a tutte le risate che mi hanno e ho fatto fare, il loro potere è sorprendente.

Alla fine, la felicità è una scelta, niente di più.

L’ho guardato negli occhi e ho affermato con convinzione:

«Sì. Sono felice»

Lui ha annuito.

«Davvero?»

«Certo. Non ci credi?»

«Ci credo»

Ne potrei elencare milioni di motivi per i quali dovrei essere infelice, ma preferisco pensare a quelli che mi fanno sentire fortunata.

Dal sentire una canzone a mangiare qualcosa che mi piace. Le telefonate, i bei posti. E le tante persone che arricchiscono la mia vita. Posso elencare anche milioni di motivi grazie ai quali sono felice e solo di questi mi interessa.

Lo so, non è semplice. Sono tutte affermazioni che conosciamo molto bene “in teoria” ma, a volte, in pratica…

Lo so, ma ci provo.

Anzi, scelgo di essere felice.

E tu, lo sei?

 

 

«Mandami amore e luce ogni volta che pensi a me

e poi dimentica…»

Mangia, Prega, Ama

 

GLI EX FILES

C’è stato un tempo in cui ci raccontavamo quanto fosse indispensabile conoscere TUTTO sul passato dei nostri uomini.

Su ogni singola precedente relazione.

Sapere ogni dettaglio delle loro Ex, del PERCHÉ lo erano diventate, COSA non aveva funzionato, DOVE risiedevano le colpe.

Furbamente ci serviva per prendere subito le distanze da certi, eventuali, comportamenti sbagliati di costoro.

«Ah no, io non sono per niente così!»

Comprendere quel che ai nostri uomini proprio non aggradava per evitare di farli scappare.

Capire nello specifico il tipo di rapporto che avevano nella testa per riuscire a incarnarlo al meglio.

Annotare quello che proprio detestavano, evitando di metterlo in atto.

Per mostrare loro quanto noi fossimo migliori e proprio più giuste, integerrime, perfette per loro.

«Figurati, a me non importa nulla se non mi chiami per tre giorni! Il calcetto? Ma ci puoi andare quando vuoi! Che problema c’è??»

(False. Falsissime)

Poi qualcosa è cambiato.

Almeno in me.

Innanzitutto interpretare un ruolo non mi si addice, è estenuante, poi non sono capace.

Perché, se non mi chiami per tre giorni, io mi incazzo eccome e te lo dico pure, e sticazzi se ti infastidisci.

Perché come sono, con quei quattro pregi e millemila difetti, ti deve essere chiaro fin da subito. E io devo avere chiaro CHI sei tu.

Per valutare se le nostre idiosincrasie possano riuscire a conciliarsi. Se vogliamo, davvero, farle convivere.

Inoltre, ormai se sento parlare di Ex, fare paragoni con l’Ex, rimarcare l’Ex, mi si attiva l’allarme fuga nel cervello.

E i motivi sono molteplici.

Parole cariche di astio mi spaventano.

I vari “Troia”, “Puttana” et similia che utilizzate per dipingere le vostre precedenti compagne di vita non mi fanno sentire rassicurata, non mi affrancano dalla paura che sia permaso qualsiasi tipo di affetto recondito.

Tutt’altro.

Li trovo sgradevoli e poi mi rammentano che l’odio è un sentimento molto simile all’amore: entrambi determinano una discreta fissazione per l’oggetto della nostra attenzione, un vivo attaccamento, un qualcosa che proprio non si vuole lasciare andare, seppur dannosa per noi.

A tal proposito, vorrei pure biasimare le fanciulle che per sentirsi very faighe utilizzano simpatiche frasi per dimostrare che non rosicano delle nuove liasons dei propri ex, del tipo:

“Non sono gelosa se vedo il mio ex con un’altra. La mamma mi ha insegnato che devo dare i giocattoli usati alle bambine meno fortunate”.

Perché vorrei ricordare loro che tutti siamo il “trastullo dismesso” di qualcun altro, per dire.

Un buon esempio è il caso di quel tale che appena conosciuto e in un contesto tutt’altro che romantico, ha iniziato a parlarmi di lei.

I cavoli miei li racconto a tre persone contate, invece ho capito che in giro c’è un gran desiderio di raccontarsi, ma in quel momento mi sono limitata a compiacermi per la fiducia che, pur non conoscendomi, lui aveva riposto in me.

Ingenua.

Quando ho avuto modo di approfondire la conoscenza, ho capito che non ero affatto speciale, non ispiravo confidenze intime, non aveva visto in me chissà che, no. Semplicemente, lui aveva bisogno di parlare di lei, solo lei, continuamente lei.

E lo lasciai coi suoi monologhi e la sua ossessione.

Attenzione, non sto dicendo che non si debba condividere, raccontarsi, confrontarsi, anzi.

Probabilmente oggi siamo il prodotto del nostro vissuto. Una versione migliorata (o peggiorata) di noi stessi vergini.

Analizzare gli accadimenti pregressi può far bene e io potrei pure raccontarti quanto siano stati stronzi quelli prima di te, ma sarebbe davvero la verità?

O sarebbe un racconto di parte, datato ma, ben più importante, contestualizzato a quel rapporto. Frutto di me e lui. E di me e di lui di quel determinato momento.

Magari un lui che riusciva a tirare fuori il peggio di me o un rapporto logorato nel quale ogni sciocchezza diveniva pretesto di battaglie infime e mutismo. O due caratteri incompatibili che non sapevano lasciarsi stare o, ancora, un tiepido interesse bilaterale mascherato da passione, per farsi compagnia.

Potrebbe sul serio dirti CHI sono io?
Potresti davvero avere una visione completa e obiettiva di quel che potremmo essere NOI?

Che senso ha sdoganare Ex Files se magari, insieme a te, io potrei scoprire di essere più o meno tollerante di quanto sia mai stata; più o meno accomodante di quanto non avrei mai immaginato; più o meno felice di quanto non ci è dato sapere, se non ci impegniamo per scoprirlo.

Al netto di tutti i nostri Ex e dei comportamenti precedenti.

In questi termini, potremmo anche parlarne.

Ma mi chiedo quanto possa essere utile all’economia della relazione.

E sarebbe un altro tipo di parlare, rispetto a quelli che non hanno altri argomenti, che trovano il pretesto per infilare dentro il discorso il suo (di lei) nome, un qualsivoglia aneddoto, o addirittura mostrarti delle sue (di lei) foto per elogiarne la bellezza (successo, successo, successo, successo, ho vinto qualche cosa??)

In questi casi, Signori/e, c’è un bel cazzo di problema.

In questi casi, miei/e cari/e, ci sono Ex Files belli aperti.

Quando invece dovrebbero essere archiviati e, non dico cestinati, ma almeno secretati.

In questi casi, belli de casa, state da soli, ve ne prego.

Analizzate, rimuginate, arrabbiatevi, da soli.

Rimarcate, paragonate, additate, da soli.

Valutate, capite e, se è il caso, rimediate.

Soprattutto, capite il vero motivo per il quale questi Ex Files sono ancora aperti.

Se c’è ancora un sentimento o se li usate come un (s)comodo pretesto.

Ho spesso coltivato discrete ossessioni per Ex (o “mai stati”) soltanto per tenere occupato il mio muscolo cardiaco e/o, peggio, per evitare di lasciarmi andare. Per far finta che non ci fosse posto per qualcun altro. Per tenermi al riparo dal dolore ma anche dalla felicità.

Perché il passato, per quanto doloroso, fa molta meno paura dell’ignoto, di quel che potrebbe essere.

Scoprirlo e ammetterlo a me stessa è stato devastante.

Dopo, però, mi sono sentita nuova, libera e con un mucchio di spazio.

Spazio pulito e senza ombre.

Spazio da riempire con qualche nuova ossessione, attaccamento, lasciarsi andare e non lasciarsi stare.

Ma in positivo.

 

 

 

È da parecchio tempo che non dedico un articolo a qualcuno:

A Te. Per avermi fatto capire.

NONOSTANTE TUTTO

Lui ha saputo che ho avuto dei problemi di salute, così ha alzato il telefono e mi ha chiamata.

Semplicemente e nonostante tutto.

Nonostante l’ultima volta gli avessi detto che avrei preferito ingrassare dieci chili, farmi a piedi la Salerno-Reggio Calabria a Ferragosto, sacrificare tutte le mie scarpe, farmi scocciare da tutti i call center del pianeta, piuttosto che sentirlo di nuovo. Il tutto pronunciato con toni molto poco pacati.

E badate che sono sempre molto rigorosa quando si tratta di serrare porte.

Un mio “Vaffa” è per sempre.

Ma lui se n’è fregato e la porta l’ha scardinata.

Non si è fidato delle notizie che avrebbe potuto reperire di seconda mano, voleva appurare dalla mia viva voce come stessi e i vari cosa, quando e perché.

Non si è nemmeno nascosto dietro a uno squallido messaggino freddo, condito con emoji cretine. Mi ha proprio chiamata.

Sono certa che anche io l’avrei fatto per lui.

Magari è stato un pretesto?

Boh, chissà.

Comunque l’ha fatto.

Nonostante tutto.

Ci ha messo il coraggio e l’interesse.

L’ho apprezzato immensamente.

E poi mi sono incazzata.

Non con lui, sia chiaro.

Mi sono incazzata perché ho considerato che una cosa così normale, una gentilezza comune, una cortesia, un gesto carino e – volendo – pure “dovuto”, l’avete fatto diventare una chimera, una rarità, un evento da riconoscere e festeggiare, un’eccezione che conferma la regola fatta di menefreghismo, superficialità e inettitudine.

E con VOI mi riferisco a tutta questa pletora di smidollati, anaffettivi, effimeri, maestri del “non detto” , senza palle né dignità – figuriamoci il rispetto – che circolano oggigiorno.

Che ci hanno fatto credere che la mediocrità fosse la norma. Che ci hanno purtroppo abituate all’inerzia, l’indolenza, cosicché ricevere una semplice telefonata sia diventato addirittura un atto da magnificare.

Che ci hanno insegnato che trattare gli altri con rispetto sia un’opzione e non la consuetudine. Che preoccuparsi di quelli che ci hanno fatto compagnia per un tratto di strada, nonostante tutto, sia divenuto desueto.

Che l’egoriferitismo sia l’imperativo categorico. E che lo “Sticazzi di te” debba accompagnarlo sempre. Come stai, che fai, che senti, che provi, contro cosa combatti, perché sorridi, come te la passi, STICAZZI. Ma che me frega a me.

Credo che alcune circostanze debbano travalicare le incazzature, le litigate, muri, paletti e silenzi che abbiamo posto tra di noi.

Credo che si possa arrabbiarsi senza smettere di amare, a qualsiasi livello. Senza dimenticarsi di essere comunque esseri UMANI.

Irrispettosi, menefreghisti, egoriferiti esclusivi, maestri della sparizione, NON sono la normalità.

Per fortuna, ogni tanto, qualcuno me lo rammenta.

SOLO IN GREY’S ANATOMY

***SPOILER ALERT***

L’analisi arriva fino all’episodio 15×18.

Se non volete anticipazioni, NON LEGGETE.

 

 

Sono quindici stagioni e quasi altrettanti anni che ci appassioniamo alle vicende di Meredith & Co.

Interventi, inciuci, lutti, catastrofi, annegamenti, disastri aerei, automobilistici, ferroviari, di ferry-boat, bombe, ancora lutti, sparatorie, incendi, matrimoni, arrivi, partenze, ritorni, ancora lutti, ancora inciuci.

Abbiamo pianto per la dipartita di Denny, George, Lexie, Mark, Derek, il cane. Pure il cane!

Nonostante questo, Grey’s Anatomy ci ha insegnato un bel po’ di cose:

innanzitutto che se in ospedale non si trova il medico, è perché si sta sollazzando con qualcuno nella stanzetta.

Poi che è vero che nulla dura per sempre… Tranne le repliche di Grey’s Anatomy, quelle sono infinite!

Infine, e principalmente, che certe cose – purtroppo – accadono SOLO in Grey’s Anatomy.

Solo in Grey’s Anatomy ti rimorchi uno da ubriaca in un bar e quello poi diventa l’amore della tua vita. Che poi mica è uno qualsiasi, no. Becchi un primario, tuo capo, figo come pochi, passionale, pazzo di te. Su questa terra, oltre ai postumi da sbornia, ti ritrovi accanto uno strano esemplare di maschio poco-sapiens che ti ha regalato un coito da coniglio e ti dà il buongiorno con un rutto.

Solo in Grey’s Anatomy l’uomo perfetto, di cui sopra, ti lascia ma poi si pente. Fa la cosa giusta, ma poi pianta la moglie perché DEVE stare con te. (vabbè, poi muore, ma so’ dettagli).

Solo in Grey’s Anatomy un altro uomo perfetto come Jackson si mette con April, prima e Maggie, poi. Quelle che nessuno guarderebbe, figuriamoci uno come lui. Strane, un poco scialbe, manco belle, imbranate. E lui le ama, e pure tanto.

Solo in Grey’s Anatomy pure quel curioso soggetto soprannominato “Occhiali” ha il suo Happy Ending. Con un figone, ovviamente.

SOLO in Grey’s Anatomy ti si contendono in due. Già agli albori, quando Meredith era indecisa tra Derek e il veterinario e sottoponeva entrambi a una prova, un test, per poter scegliere. E loro acconsentivano, pur di conquistarla.

Pensiamolo nella vita reale…

AHAHAHAHAHAHAHAAHAHAHAHAHAHAHAHAAHAH!!

Già sarebbe una botta di culo inimmaginabile trovarne due papabili, figuriamoci, poi, se costoro si presterebbero a una singolar tenzone per arrivare alla propria bella.

Nella vita reale, se non ci stai tu, ne hanno altre da vagliare. Incarnano il detto “Amare il prossimo” non mi ami? Passo al prossimo, o alla prossima.

Poi, di nuovo, Meredith diviene l’oggetto dei desideri sia di DeLuca che dell’ortopedico.

Ed è indecisa.

So’ problemi seri, veramente. Ma che ne so io.

(vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale per apprezzare quando DeLuca alterna l’italiano all’inglese. Di una secsità infinita, proprio).

Ora, anche Teddy che pare preferire Koracick a Owen.

Solo in Grey’s Anatomy, appunto, nonostante la limitatezza di un ospedale, c’è tutta questa ampia e valida scelta di materiale umano. Di donne, uomini, o entrambi, come fu per Callie prima e per la DeLuca femmina, poi. Che è una generosa, una che interagisce con qualsiasi esponente ambo i sessi le si pari davanti… o dietro.

Solo in Grey’s Anatomy, se ti lasci, trovi subito qualcuno disposto a confortarti e poi magari vi innamorate. Anzi, sicuramente vi innamorate. Ed è tutto bello, tutto leggero, tutto che si risolve con semplicità. Nella vita reale, stocazzo.

Fatta questa doverosa premessa, vorrei concentrarmi sull’ultima puntata andata in onda.

Puntata che vede – quindi – un bel triangolo composto da Owen e Koracick che si contendono Teddy.

Koracick che per me è, e rimarrà sempre, Richard Fish di Ally McBeal. Quindi lo amo di default. Come personaggio è abbastanza simile: ironico, arrogante, inaffidabile, ma che ogni tanto ti tira fuori quella profondità che non ti aspetti.

Dalla sua comparsa, ha provveduto a “consolare” Amelia, April, Catherine e, infine, Teddy.

Teddy incinta di Owen.

Solo in Grey’s Anatomy se sei incinta di un altro ti si prende qualcuno, diciamocelo.

Mentre Owen e Koracick-Richard sono al corso pre- parto, in attesa che arrivi Teddy, quest’ultima ha un malore.

Un corso pre-parto in tre, che vi ricorda? Bravi! “Bridget Jones’s baby”. E chi era uno dei padri? Derek. Che delizioso crossover, vero?

Owen viene chiamato per il malore di Teddy. Si guarda bene – l’infamone –  dall’informare Koracick-Richard e corre a fare il bravo papino/compagno affettuoso.

Dunque…

Owen mio, io ti voglio bene, ma te ne voglio tanto. Te ne voglio da quando hai salvato Cristina dalla pugnalata di ghiaccio. Quando l’hai presa in braccio e portata in salvo, come un novello Principe non Azzurro, bensì camouflage.

E lo sappiamo cos’hai passato con lei: prendi, lascia, sposa, divorzia, riprendi, tradisci, ricomincia il giro e ripassa dal Via. Roba che, per interrompere ‘sto loop, hanno dovuto spedire Cristina a Zurigo.

E poi hai riiniziato con Amelia, uguale, stessa storia: stiamo insieme, poi no; vuoi un figlio, poi no; ci sposiamo, poi no.

Sei sempre stato un brav’uomo, un uomo innamorato. Inizialmente psicopatico, ma poi innamorato.

Al netto di tutto ciò, però voglio più bene a Teddy, perché Teddy è una di noi. Teddy c’ha il MaiNaGioia che la perseguita.

È innamorata di te da sempre, tu la consideri un amico. Manco un’amica, UN amico, un commilitone. Una da “sfruttare” per aggraziarsi la tua ragazza che bramava un nuovo mentore. Lei prima ti vede con la maestrina, poi con Cristina, poi con Amelia, nel mentre con svariate “distrazioni”.

Si mette l’anima in pace e finalmente si innamora di uno, malato terminale. E infatti poi lui muore.

Lei ci mette secoli a riprendersi.

Poi trova il tedescone che se la porta in Germania. (se fossi in te, ragionerei sul fatto che per sfuggirti, le tue amate sono costrette a rifugiarsi nel Vecchio Continente, ma ne parliamo un’altra volta) E tu? Tu ci ripensi dopo tempo, dopo che lei ti aveva ampiamente messo da parte – oltre ad aver messo svariati chilometri tra di voi – e le vai a rompere il cazzo fino a lì.

Scena grandiosa, per carità, gesto plateale, siamo d’accordo.

Ma perché lo fai? Perché te lo dice Amelia. In uno sprazzo di lucidità post-coitale-senza-coinvolgimento-sentimentale.

E tu glielo confessi pure. E Teddy comprende non solo che sei stato spronato dalla tua ex moglie – di nuovo Ex, quindi – ma che con questa ci hai copulato cinque minuti prima di farlo con lei. Cinque minuti prima di riscoprire questo grande e immenso amore.

Tempismo strano, ve’? A me hanno fatto pure di peggio, ma – vabbè – soprassediamo.

Lei ti accusa che, visto che il tuo matrimonio è finito, ti terrorizza stare solo e per questo l’hai cercata; che- nel corso degli anni – le hai fatto solo mezze dichiarazioni per poi sposare altre donne; e che non è più disposta a fare la tua ruota di scorta.

Indi, ti sfancula.

Mi pare giusto.

Visto che, come sappiamo,il MaiNaGioia è insito in Teddy, scopre di essere rimasta incinta e va a cercare Owen per comunicarglielo.

Owen che, nel frattempo, gioca alla Famiglia Cuore adottiva riappacificata con Amelia.

Teddy-MeNeAndasseBeneUna non vuole rompere l’idillio e si fa da parte. (tanto per cambiare)

Owen e Amelia si lasciano di nuovo (tanto per cambiare).

Amelia trova subito un altro pronto a consolarla (tanto per cambiare).

Owen – guarda caso –  riscopre questi grandi sentimenti per Teddy e cerca di sabotare il suo rapporto con Koracick.

Owen mio, caro, bello de casa, nonostante il bene che ti voglio, non ti sei proprio regolato.

Koracick-Richard fa il signore, abbozza per un po’, poi sbrocca. Dopo l’ultimo scherzetto del non renderlo partecipe del malore della sua donna, gli sale – giustamente – il veleno e ti prende da parte per dirti due paroline:

«Se dovessi fare una sceneggiata. Se dovessi presentarti con un anello e approfittare di vecchi dispiaceri e della vulnerabilità di una donna che più volte hai ferito e abbandonato, ripensaci, ti prego. Perché io non mi arrenderò e non me ne andrò. Combatterò per lei. E nasceranno problemi e nuovi dispiaceri per una donna che tu vuoi felice».

«Non sai niente della mia storia con Teddy»

«La tua storia con Teddy è che hai scelto Amelia, più di una volta. La mia storia è che amo Teddy. Sì, sono innamorato di lei. E solo di lei. Merita un uomo che la metta al primo posto e per il quale sia l’unica».

BOOM, BABY.

La camera passa sulla faccia da stronzo (sì, di quando uno rimane come uno stronzo) di Owen che vedete.

E io ero lì che singhiozzavo, che facevo la ola col piumone a Koracick-Richard e ripensavo alle sue parole che, cazzo sì, ce lo meritiamo tutte uno che ci dica:

AMO SOLO LEI.

COMBATTERÒ.

PRIMO POSTO.

UNICA.

Roba da farne un poster e appenderselo in camera, e in bagno, e in macchina. E rileggerlo e urlare: «Sì lo voglio!»

Che rappresenta il riscatto di tutte noi MaiNaGioia.

Roba che allora è vero che, se patisci sufficientemente, il lieto fine arriva. Arriva sotto forma di un uomo che ti ama, che ti vuole, che ti difende da chi vuole farti del male. Un uomo che per tutti è un tipo strano, ma con te è impeccabile.

E ti si prende, pure se sei incinta di un altro, pure se non sei perfetta, perché gli VAI BENE COSÌ. E ti vuole così.

E rimane solo quella faccia.

La faccia da stronzo di cui sopra, la faccia di quello che – forse – si rende conto che ‘sta povera donna l’ha fatta patire e manco poco, la faccia di quello che capisce che l’ha persa, che poteva evitare di fare il coglione, che di occasioni ne ha avute a bizzeffe, per anni e pure extracontinentali. La faccia di quello che comprende che non è molto carino, né etico, né auspicabile che lui si butti su di lei solo perché è rimasto solo, e un’altra volta.

La faccia che io ho rimirato, per cinque secondi buoni, poi ho messo il fermo immagine. E ho pensato, e ho goduto, e ho rimuginato, e ho pianto, e ho riso e l’unica cosa che – infine – mi sono sentita di dire e che ripeto qui e che sintetizza al massimo tutto il discorso di cui sopra e un bel po’ di sentimenti contrastanti è:

Owen, STACCE.

Sottotitolo: Piatelander****.

Parafrasi: Il Karma è micidiale.

Ma almeno in questo, sono certa che il Karma non funzioni SOLO in Grey’s Anatomy.