LA MIA VITA MI PRENDE PER IL CU’. C’HO LE PROVE

Ho un Grande Amore.

Avete presente quello che vi fa rincretinire totalmente, battere il cuore e pensare a tutte quelle situazioni melense, da coppia, da quotidianità, quel Grande Amore che vi fa dire che Lui è quello che fa per voi, oggi e sempre, Amen?

Quello al quale pensate, quando qualcuno vi chiede come debba essere la persona perfetta per voi?

Ecco, così.

Per motivi che non sto qui a dirvi per non tediarvi, io e Grande Amore il nostro Amore Grande l’abbiamo solo parzialmente vissuto e poi è finita là.

Senza drammi, eh!

Ho “leggermente” imprecato per via delle circostanze avverse, ma è stata una separazione civile e senza ferite.

Vabbè, io già avevo iniziato a ricamare gli asciugamani con le nostre iniziali, ma questo me lo tengo per me, non lo dico, che pare brutto.

E neanche ci sentiamo. Perché a un suo solo “Ciao” mi sciolgo come un rossetto d’estate, quindi – niente – non se po’ fa. Mi scompensa troppo, è meglio che non lo senta.

Ho una dignità e una nomea da stronza da difendere.

Quindi io e Grande Amore ci viviamo le nostre vite a distanza, magari ci pensiamo ogni tanto e poi basta, finisce lì.

Ora, io dico sempre che la mia vita mi prende riccamente per il cu’, che spesso mi sembra di stare su “Scherzi a parte”, che attendo sempre invano che esca qualcuno per mostrarmi le telecamere della candid camera, e invece niente.

È tutto vero.

La mia vita mi prende per il cu’.

C’ho le prove.

Seratina con un po’ di gente, tra cui un amico di un mio amico, mai visto e conosciuto.

Questi inizia a raccontare un aneddoto e, nel farlo, inserisce un paio di dettagli che non mi sfuggono.

Non fa nomi.

Io ascolto e inizio a sentirmi male.

Lui continua, altri indizi, altri particolari, altre “coincidenze”.

Inizio a bisbigliare dei  “Non ci posso credere…”

Conclude l’episodio divertente e tutti ridono, tranne me.

Oddio, mi sento male.

L’amico dell’amico conosceva e aveva lavorato con Grande Amore, tipo una settimana prima.

Roma è piccola, direte voi.

No, è il mondo ad essere piccolo.

Troppo piccolo.

Letteralmente.

Mi sono alzata e sono uscita.

Avevo bisogno di pensare.

Divertita, confusa, continuando a blaterare che era impossibile, impensabile, incredibile, che l’Universo e i suoi amici in quel momento stavano col pop-corn a gustarsi la scena e a darsi di gomito.

Non ci posso credere…

Ho pensato alla teoria dei  “Sei gradi di separazione”, a quanto è vero che siamo tutti strettamente collegati, ma così è troppo.

Ho invidiato all’amico dell’amico il tempo che aveva trascorso con Grande Amore, in quel piccolo pezzo di mondo.

E una parte di me avrebbe voluto chiedere, verificare, sapere e dirgli che io lo conosco, a fondo.

Anche se sembra così assurdo e surreale.

Salutalo, abbraccialo per me, sta bene?

Ma non gli ho detto nulla.

Gli elementi che mi aveva involontariamente rivelato mi avevano dato la certezza che si trattasse di lui, quindi non mi serviva avere conferme.

Poi che avrei potuto dirgli?

Sai che noi ci vogliamo tanto bene?

Però, ecco, tu conosci la vita che fa, io non reggerei.

O forse sì?

Boh, non ho voluto scoprirlo.

Patetica.

Qualsiasi frase mi avrebbe fatto risultare patetica.

E poi avrebbe messo in moto ricordi, pensieri, domande, no. Meglio di no.

Quindi non ho detto nulla.

Comunque alla fine, inevitabilmente, ci ho pensato lo stesso.

A lui, ai nostri momenti insieme, a quel suo bel sorriso, a quanto mi piaccia come uomo e come persona.

Al bene che gli voglio, puro. Senza acidi rancori, maledizioni e cattiveria.

Gli voglio bene e gli auguro solo bene.

Forse è questo il Vero Amore

Forse.

Non ho potuto fare a meno di considerare che quell’incontro non fosse per nulla a caso.

Il caso non è mai a caso.

Magari era tutto un disegno divino per ricollocarmi col cuore e con la mente verso di lui. Per convincermi ulteriormente che lui sia LUI, e basta.

Che avevo una scusa più che ottima per scrivergli, per attaccare bottone, per chiedere come va e vedere come va a finire (se son più brava io a sbagliare, oppure tu a mentire…)

Sperando che mi dica di fiondarmi da lui, come quella volta, quando poi – all’ultimo – non me l’ero sentita e non ci eravamo più visti.

Da allora qualche messaggio, saltuario, banale, partito sempre da me, che sentivo l’esigenza di avere sue notizie.

…ma lui no?

Quante volte me lo sono chiesta, quante!

Non ti viene in mente di sapere come sto?

Non mi pensi?

Possibile che l’Universo mi stia inequivocabilmente indirizzando verso una persona che non si cura di me?

Perché è inequivocabile, è un segno del destino! È una spintarella, è una dimostrazione del nostro legame, è… NULLA.

È una coincidenza. Bizzarra, ma coincidenza.

In altri momenti della mia vita, probabilmente mi sarei inabissata nel loop del “Destino che me lo chiede”. Quindi l’avrei sentito, ci avrei pensato, non sarebbe andata come avrei voluto, ci sarei stata male.

Molto male.

Ora il male lo evito accuratamente.

Quella strada l’ho già intrapresa, lui non è LUI.

Noi non abbiamo fatto nulla per NOI.

Il Grande Amore è altro.

Forse, certe volte coi ricordi e le idealizzazioni miglioriamo di gran lunga le persone.

O forse mi sto raccontando le ennesime scuse, per giustificare la mia di inerzia, la mia di paura, la mia di solitudine.

Se ci sono delle misere cose che ho imparato molto bene è che quando ci si comincia a porre troppe domande, quando la situazione non è come vorremmo, difficilmente cambierà.

Che un uomo sa usare un telefono e trova il tempo per farlo.

Che è bello mancarsi e tenerci, ma è ancora meglio dirselo.

Che il mio acquisito e sudato pragmatismo mi impone di guardare la realtà dei fatti: una realtà fatta di un rapporto – ora – inesistente, neanche civile, proprio assente.

Che a volte è meglio lasciare le cose come stanno, per non rischiare di rovinare perfino i ricordi.

Che è bello mancarsi e tenerci, ma è ancora meglio VIVERSI.

E, soprattutto, che l’Universo ha davvero un perverso senso dell’umorismo.

O BEVI O GUIDI O TELEFONI

Stanotte è successo un fatto abbastanza curioso.
Me ne stavo beatamente dormendo (e già questo era molto inusuale) quando un suono ha disturbato il mio sonno.
Dapprima ho faticato a capirne la provenienza. Poi mi sono resa conto che era il mio telefono a fare quel casino.
È la sveglia!
Ho fatto appena in tempo a considerare che mi sembrava che la notte fosse passata troppo velocemente per poi capire che no, non stavo ascoltando “L’amour toujours” come ogni mattina, quando mi annuncia che è ora di alzarci.
Mi stanno chiamando.
Cazzo.
Ricevere telefonate di notte, credo sia una di quelle esperienze che facciano infartare chiunque, anche chi ha nervi saldi ed è sano di mente.
Ricevere telefonate di notte quando sei ansiosa e fobica a livelli patologici – come me – rappresenta la manifestazione suprema di tutti gli incubi e le paure che ci portiamo dietro.
In un nanosecondo ho partorito una sequela inimmaginabile di scenari apocalittici che erano accaduti a qualcuno a me caro, tanto da indurlo a chiamarmi nel cuore della notte, conscio che avrei potuto non sopravvivere a questo.
Cazzo, no.
Che è successo?
Ho paura…
Poi un piccolo barlume di lucidità che ancora risiedeva nella mia testa, mi ha fatto notare che non era la canzone che mi comunica che qualcuno mi sta chiamando. Non era la mia storica suoneria “Sweet child o’ mine” (sì, sono coatta e tamarra inside e ne vado anche abbastanza fiera). No.
Ma che cazzo di musica è che non l’ho mai sentita??
Ecco, questo è stato il limpido pensiero successivo.
Avrei potuto scoprirlo solo prendendo in mano quel telefono che – intanto – continuava a strombazzare quel motivetto inconsueto.
Così ho fatto. Con gli occhietti appiccicati, una tachicardia furiosa che mi ballava in petto e madida di sudore.
Ci ho messo un po’ a realizzare, non mi sembrava possibile. Ho creduto anche che stessi sognando perché era molto…strano. Ma la musica era reale, il rincoglionimento da sonno interrotto pure, la mia vescica che stava scoppiando anche. Ma era davvero troppo… strano.
Mentre lo osservavo, tenevo in mano quel telefono con distacco e accortezza, come qualcosa con la quale non ci si vuole sporcare, per paura di rispondere o fare casini.
Finalmente ha cessato di squillare.
Era una videochiamata.
Una cazzo di videochiamata da Messenger.
Una fottuta videochiamata da Messenger da uno che conosco appena e che troverei strano perfino se mi inviasse un messaggio normale.
Vi lascio intuire il mio sobrissimo commento.
…mavvafanculova’m’haifattoperdedieciannidevitaaa!!
Manco a dirlo, non ho più dormito.
Ripresa coscienza e conoscenza, ho iniziato ad analizzare quel che era appena accaduto, cercando di entrare nella testa di costui.
Era ubriaco, la prima considerazione.
Non voglio pensare che da sobrio uno possa compiere un tale gesto, no. Dovresti essere deficiente e pure un bel po’.
Sì, era per forza ubriaco.
Be’, da ubriaco chiama me?? Anzi, videochiama??
Oddio non è che pensa che sono una sempre disponibile?? E poi perché la videochiamata?? Che voleva fare?? Oddio non è che pensa che sono una che fa le cosacce per video e a qualsiasi ora?? Ma perché lo pensa?? Oddio ma chi altro lo penserà?? E poi perché?? Oddioddioddiooo…
Vabbè le paranoie è preferibile lasciarle per un altro momento, ora pensiamo solo al resto.
Il tizio in questione – come detto – lo conosco, so chi è, ciao come stai e convenevoli standard quando ci vediamo (una volta per secolo) e finisce lì. Punto.
Recentemente gli ho accettato la richiesta di amicizia e non mi ha nemmeno scritto un saluto, però gli è sembrato più che lecito disturbarmi di notte con una videochiamata. Logico, molto logico.
Ora mettiamoci nei suoi panni: cosa abbia scatenato questa voglia di me non lo so e non voglio saperlo.
Ribadisco che una chiamata di notte (perlopiù a qualcuno con il quale non hai tutta ‘sta confidenza) è figlia dell’alcool. È una di quelle genialate che ti sembrano tali quando hai in circolo più gradi che sangue.
Una videochiamata, poi, richiede una pregressa approvazione per iscritto. Un “Ok, ora puoi farlo”. Che significa che mi sono resa presentabile, truccata, pettinata e pronta per affrontarla. Non si fanno le videochiamate a sorpresa! (se vuoi che venga accettata…)
Se invece fosse stato sobrio?
Se avesse lucidamente deciso che poteva disturbarmi a tutte le ore, anche quelle piccole?? È possibile?
Le opzioni sarebbero state due: o dormivo o ero a spasso.
La prima ipotesi: sto dormendo. Essendo notte, oltretutto di un giorno feriale, è contemplato che io abbia questa bizzarra abitudine di riposare, no? Tu te ne fotti e mi chiami. Quindi mi vai irrimediabilmente sulle palle per le motivazioni sopra descritte, perché sei inopportuno, maleducato e quant’altro.
Seconda ipotesi: sto a spasso. Se sto a spasso è presumibile che sia in compagnia, altrettanto desumibile che mi stia divertendo (altrimenti sarei a casa) quindi come puoi pensare che mi vada di videochiamare con te??
Se fossi con un uomo, come potrei spiegare a costui che mi è oscuro il motivo per cui tu ti senta in diritto di farmi una conferenza notturna?? Sarebbe stato davvero imbarazzante e difficile da giustificare (cazzarola, che illuminazione! A volte effettivamente, le cose NON sono come sembrano!!)
Quindi preferisco pensare che fosse ubriaco.
E per questo non me la sento di biasimarlo e infierire ulteriormente.
È capitato a tutti.
Magari lui non si è formato un’esperienza preventiva tale da impedirgli certe scelleratezze. Una cautela postuma forgiata a suon di figure di merda epocali, da smaltire insieme agli altri postumi, quelli da sbornia.
Magari non ha avuto dei risvegli tragici urlando dei:
«Fammi subito controllare il telefono che mi sa che stanotte ho fatto qualche cazzata!»
Non ha visto gente intorno rendersi ridicola e regalarti dei “Ti amo”, mentre tu rispondevi:
«Certo che mi ami! Poi domattina, quando pubblicherò gli screenshot, mi amerai ancora di più!!»
Non ha avuto amici accanto pronti a sequestrargli il telefono per metterlo al riparo da colossali catastrofi.
Non ha dovuto, né ricevuto, messaggi di scuse nel day after.
Forse non ha ancora superato quel limite che ci ricorda cosa sia la “dignità”.
Magari è successo stanotte.
O magari no.
Rimane il mistero del perché abbia scelto proprio me da importunare, ma penso che continuerò a vivere ignorando queste risposte, perché ho deciso che io non ne darò alcuna a questo suo gesto.
Credo sia più dignitoso per entrambi.
Magari stamattina non gli sembra più quell’ideona di stanotte, magari si sta già mortificando da qualche parte, o magari mi reputa un’immensa cafona per non aver risposto (io, eh??). Tutto ciò non mi interessa.
Mi interessa ricordarvi l’assioma basilare che:
O bevi, o guidi, o telefoni.
Ricordatevi questo.
Ricordatelo sempre.
E io mi ricorderò di riprendere la mia sanissima abitudine di staccare la connessione, nottetempo.

FROM RED SEA WITH LOVE

Qualcuno diceva che “Nessun uomo è un’isola”, qualcun altro che è molto dura affrontare un viaggio in barca, poiché non se ne può scappare, e la convivenza potrebbe diventare insopportabile.

Ho cercato di esperire la veridicità di entrambe queste affermazioni…

La mia spiccata necessità di fuga e il mio onnipresente senso di costrizione sono stati sottoposti a dura prova, per la mancanza di vie di evasione.

Per poi scoprire che, volendo, si riesce a scappare anche in uno spazio delimitato… Ma ne avevo ancora voglia?

Perché io, al contrario, mi sono sempre considerata un’isola: sola, solitaria, scissa dal resto, strana, selvaggia, silenziosa e, per molti versi, inesplorata.

Non sarei dovuta neanche essere lì…

Ho una fobia per i progetti a lungo termine che mi aveva portato – come sempre – a non avere un piano ben definito su dove trascorrere i giorni di ferie.

Non riesco a prenotare a gennaio una vacanza da fare ad agosto. Non ce la faccio proprio, e non l’avevo fatto.

Quando mi sono finalmente decisa, non c’era posto, non era possibile. Ovviamente.

«Se qualcuno rinuncia, ti chiamo»

Sì, come no. E quando capita? A me, poi? Figuriamoci!

Invece quella chiamata è arrivata e, con essa, la mia crociera neanche lontanamente preventivata. Qualcuno aveva rinunciato.

…BB, c’è posto per te!

Quindi è vero che il destino, l’Universo o quel che volete, muovono le fila della nostra vita per riuscire a collocarci esattamente dove dovremmo essere, in un dato momento.

In un grandioso intreccio di esistenze dove, qualunque cosa ci accada, può avere ripercussioni dirette e indirette nelle vite altrui, che ne siamo consapevoli o no.

Che ne siamo coscienti o no.

Che lo vogliamo o no.

Come era successo a me.

Qualcuno non poteva partire e, perciò, io guadagnavo il mio posto.

E allora…

Metti una Barbie sul Mar Rosso.

Metti una lussuosa barca di 40 metri.

Metti una crociera alla scoperta dei fondali e della popolazione marina di tre isole incastonate nel meraviglioso Red Sea: Brothers, Daedalus ed Elphinstone.

Metti 20 Sub insieme.

Totalmente scollegati dal mondo, reale e virtuale. Lontani dalla terraferma e dalla comunicazione telefonica.

Isolati.

Esattamente come mi sentivo io in quei giorni: priva di legami, priva di fantasmi, di pensieri su personaggi impossibili. Libera, pulita, serena, come non mi capitava da tempo, forse mai.

E lontana…

In questo scenario si era stagliato un pensiero fisso verso un maschio sapiens. Prima appena percettibile, poi sempre più invadente.

“Signori, c’è una piccolissima attività cardiaca, questo cuore ancora funziona!”.

Nei giorni precedenti, c’era stata un leggero aumento del mio battito cardiaco, quel tanto che bastava per tranquillizzarmi sul funzionamento del mio cuoricino affaticato. Quel lieve pensiero che mi occupava la mente, tanto da insinuarsi nella regolarità del mio ritmo circadiano.

Quel pizzico di euforia che mi faceva canticchiare durante la giornata su “Quello che potremmo fare io e te non l’ho mai detto a nessuno, però ne sono sicuro…” e farmi ritrovare a sorridere senza un motivo apparente.

Evento comune e insignificante per chiunque altro, entusiasmante per me.

Mi piace. Cavolo, questo mi piace.

Tutti i giudici (amici comuni, gente super partes, persone fermate a caso, per strada) chiamati a rapporto per deliberare sull’intricata questione, avevano sentenziato che, sì, anche lui manifestava interesse.

Quindi questo mi assolveva dall’auto-accusa di essere una fantasiosa ottimista e regista dei miei film mentali a sfondo romantico.

Eppure…

Il tizio in questione aveva notizie della mia esistenza già da parecchio. Ma sembrava non aver mai manifestato l’intenzione di approfondirla, né allora, né ora. E non importava che quello stesso destino ci avesse posto vicino più e più volte, che ci mangiassimo con gli occhi e stuzzicassimo non poco.

Lui ci dà le carte, ma poi ce le giochiamo noi, e io mi sono stancata dei solitari.

In tutti i sensi.

“… No, aspettate. Si è fermato tutto di nuovo. Questo cuore non batte più”.

Mi piace sognare, ma vorrei vivere quel che desidero. E l’incertezza è uno stato che evito accuratamente. Quindi se ho di fronte un qualcosa di indefinito, lo definisco io, nel modo che più mi fa stare meglio.

Anche le isole hanno bisogno di compagnia, ma concreta, reale, vera e non illusoria.

Il tutto era avvenuto senza drammi, senza ferite all’ego, senza lacrime versate, spirato così come si era generato.

Come… come un’abitudine.

Ora sembrava tutto così lontano…

Forse è stato l’isolamento terreno e psicologico, o forse il fatto che avessi davvero bisogno di una vacanza, dopo un anno estremamente duro, sotto molti aspetti. Un anno fatto di un ostracismo autoimposto, e poi difeso, preservato.

Una  settimana ha spazzato via questo e tutto il brutto dell’ultimo periodo.

Mi sembrano episodi accaduti secoli fa, quando è passato appena un mese.

Piccoli problemi di salute, risolti, che mi hanno lasciato solo i chili persi, per via di quelli. E poi “A Settembre ci penseremo…” Sì, settembre è lontano…

E l’ultima – in ordine di tempo – fregatura da parte di chi consideravo amico che aveva speso per me delle parole tanto orribili, da tenermi sveglia la notte a pensarvi. Un AMICO.

Mi ero detta che non importava, che ormai alla merda e alle fregature ero abituata, realizzando – un secondo dopo averlo pensato – che non va bene, non va bene per niente abituarsi a questo.

Non va bene neanche sentirsi dire:

«Tanto dovevi fare da sola, no? Come sempre. Senza farti aiutare…»

Senza essere capace di rispondere che, sì, è vero. Faccio da sola come sempre. Perché, anche se non mi piace, sono avvezza a prendermi cura di me stessa. A non appoggiarmi a nessuno, a non chiedere. Che poi tanto mi deludono e abbandonano tutti, visto? Allora meglio non rischiare. Non mi piace farlo, ma ho dovuto imparare, capite?

Ma tutto questo non va bene.

Mi sono sentita dire concetti che non credevo nemmeno di essere arrivata a pensare, dissertazioni elogiative dello status di eremita sociale, formulare un entusiasta panegirico della solitudine con una convinzione che non ritenevo di provare.

Davvero mi sto beando in questa esistenza solitaria, convincendomi che sia preferibile, più sicura, più felice, senza possibilità di incorrere in delusioni?

Davvero ho messo di scherzare sul concetto e sono diventata un’individualista convinta? Io??

Ma QUANDO è successo?

Quando ho lasciato vincere la paura, a discapito della mia socialità?

La PAURA, origine e motivazione di ogni azione umana. Pensateci, è così…

Sono dovuta andare su tre isole, per capire che non va bene considerami un’isola, in una moltitudine di umanità conosciuta o da scovare.

Non andava bene per niente.

Vorrei abituarmi ad altro, DEVO e pretendo di abituarmi ad altro.

Siamo tutti isole che si barcamenano tra la salvaguardia della propria individualità, il perseguimento del proprio benessere, e l’esigenza di condividere la vita con altri esseri viventi, altre isole, altre autonome entità.

Ci destreggiamo tra il desiderio e la paura di oltrepassare la salvifica zona di comfort che abbiamo delimitato coi nostri bei paletti, in perenne contrasto tra “Quel che temo che accada” e “Quel che vorrei accadesse”.

Scegliendo quasi sempre la strada più sicura dell’inerzia.

Che fatica, gente.

Interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi.

Ne vale la pena?

La vale davvero.

Per cui, mi ero ritrovata a osservare le stelle prima totalmente in solitudine, poi in compagnia, infine in gruppo.

E ne sono stata felice.

A cantare e ballare in massa, e ridere, ridere, ridere…

Benedicendo quel destino, per avermi fatto essere lì, in quel momento.

Un’isola tra le isole, ma non più isolata.

A sentirmi dare un affettuoso bacio sulla guancia e al mio «Perché?» sentirmi rispondere: «Così!»

Grata e appagata da quell’affetto gratuito, o forse meritato.

Quei gesti di gentilezza riscoperta che mi sono stati riservati, mi rimandavano a un’altra frase a me cara:

“Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore,

all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo”.

Tempo ce ne vuole sul serio, perché un’isola impari – innanzitutto – a considerarsi almeno un arcipelago. Una parte di un qualcosa. Ci vuole tempo.

Mentre qualcuno continuava a ripetermi che non ne avevamo abbastanza. Invece io penso che tempo ce ne sia, ma lo impieghiamo molto male, e del significato vero di Carpe Diem ce ne ricordiamo solo quando c’è da sciorinare locuzioni latine per fare i fighi.

Non andava bene che io mi fossi disabituata alla gentilezza, ma è ottimo che sappia ancora riconoscerla quando c’è e apprezzarla ancora di più, poiché inusuale.

Ma tutte queste sono cose che non si possono dire, che è difficile ammettere, che è meglio che gli altri ci considerino isole, strane, solitarie, che bastano a se stesse. Fa mooolto più figo.

Fa parte delle maschere che indossiamo.

Oltre quelle per aiutarci a vedere sott’acqua che – come vi ho già detto – ingrandiscono gli oggetti e non ci permettono una visione reale di quello in cui siamo immersi, ci sono quelle che indossiamo per evitare che gli altri vedano come realmente siamo.

Calziamo mute per preservarci dal freddo, computer per salvaguardare la nostra salute, e quando ci spogliamo di questi, manteniamo su le nostre maschere per proteggere il nostro Io più profondo e corazze invisibili ma palpabili. Un rivestimento a guisa di una muta.

Come c’è chi preferisce restare nelle acque basse, più sicure e superficiali, così, c’è chi ama scendere in profondità, inabissarsi sempre più giù, al limite delle proprie capacità.

Accade esattamente lo stesso con le conoscenze: c’è chi si ferma all’involucro e decreta, e chi – invece – riesce a scoprire quel che si cela dietro l’apparenza, dietro le maschere.

Una delle maschere più famose di tutti – per antonomasia – è quella di Pulcinella. Pulcinella che scherza sempre, ma scherzando dice la verità. 

Un po’ perché è più semplice, un po’ perché è l’alibi vigliacco che possiamo usare quando si mette male. La scusa del “Guarda che scherzavo, hai frainteso”.

E io lo faccio Pulcinella e ne vedo pure tanti. Mediocri attori dell’ilarità, protezione buffa di una sostanza ben più seria.

Oppure, si può apprendere ad esempio che – spesso – l’arroganza è la copertura della profonda insicurezza, che si può manifestare con la spavalderia, con il cercare di mettere in cattiva luce gli altri, per risultare migliori.

La paura, ve l’ho detto, è il motore di ogni azione.

Io la mia insicurezza la proteggo attraverso silenzi e discrezione, che mi porta a balbettare se parlo di fronte a una platea nutrita. Dove, per essere imbarazzante, mi basta che sia composta da circa tre persone.

Ma questo può essere percepito come una che “Non prende mai posizione” cito testualmente.

Ho sorriso.

Tu non sai chi sono io.

Ho sorriso di nuovo.

Perché poi c’è pure il perenne sorriso-spot, accompagnato dal “Va tutto bene!” che basta agli sguardi effimeri, per credere che sia davvero così. Ma sotto, chissà cosa cela…

Penso a chi, anni fa, mi aveva detto che con il mio sorriso (reale o sforzato che fosse) avevo il mondo ai miei piedi e io quel sorriso in giro per il mondo ce l’ho portato, non potendo fare a meno di notare, ogni volta, come la Me Vacanziera venisse più apprezzata della Me Quotidiana.

«Perché, quando viaggi, sei più rilassata» mi aveva detto una volta qualcuno.

Non credo c’entri questo.

Credo, piuttosto, che c’entrino gli squali

La memoria collettiva comune, formatasi coi film, ci ha sempre fatto pensare che gli squali siano creature pericolose, benché non avessimo mai avuto modo di verificarlo personalmente.

È un po’ come quando qualcuno ci parla di tizio/a che non conosciamo, e di quanto sia stronzo/a.

Il nostro giudizio è vergine di esperienza diretta, influenzabile. Con noi non lo è stato, ma automaticamente ai nostri occhi diventa stronzo per osmosi.

Poi, magari, ti ritrovi personalmente a parlarci con tizio/a e tutta questa stronzaggine non la percepisci, capendo quanto sia importante formarsi una propria opinione su fatti e persone e non “per sentito dire”, di quanto sia indispensabile ragionare con la propria testa e il proprio cuore, sempre e in ogni situazione.

In quanto agli squali, sono loro quelli con più timore: ne mandano uno in avanscoperta a controllare la situazione, se è tranquilla, il branco lo segue e si fanno la passeggiatina.

Io ho immaginato la scena più o meno così:

«Tutto a posto rega’. Ci sono i soliti quattro sub che si sono alzati alle cinque per venirci a vedere. Dài, famoli contenti e facciamogli ‘sta passerella!»

E così hanno fatto. Più volte. Si sono lasciati scrutare da noi che li abbiamo osservati con timore reverenziale e ossequioso di cotanta maestosità.

Forse se non avessero fatto film sanguinolenti che li vedevano protagonisti, ci saremmo tutti avvicinati di più, e avremmo raccontato di quanto siano coccolosi i re del mare.

Coi pesci pagliaccio avviene il contrario. Perché i pesci pagliaccio sono tanto piccoli e teneri d’aspetto, quanto bulli dentro. Si sentono grandi, forti e arroganti a dispetto della loro esigua mole.

Da grande voglio diventare un pesce pagliaccio e sentirmi coraggiosa e prepotente sempre, alla faccia di tutto e tutti.

Forse se non avessimo una memoria interna che registra e ci ricorda del dolore, vivremmo con più leggerezza.

Come quando nessuno ti conosce.

Perché magari in giro per il mondo, nessuno sa chi sono: non ci sono pregiudizi, non ho un passato, un presente ingombrante, una testa molto pensante ben nota ai più e che può incutere soggezione, come mi viene spesso detto.

Magari risiede in questo la differenza.

O magari, basta solo incontrare chi con uno sguardo e una chiacchierata riesce a capirti. Riesce a vederti dentro.

Capita.

Perché c’è speranza, Signori.

C’è sempre speranza.

Mentre tu sei lì a chiederti dove e se sbagli, a cercare di capire cosa tu trasmetta o no e se ti corrisponda, se il percepito sia abbastanza simile alla tua intima essenza, o ci siano degli errori di comunicazioni da correggere.

Mentre vorresti solo spiegare chi sei e fare domande, qualcuno in un attimo ti coglie appieno. Con due parole.

Qualcun altro, in un inglese sgangherato mi dice che io ero “kindly” e “respect”.

E poi c’è stato anche chi, non conoscendo nemmeno il mio nome, ha cercato il profilo Facebook di un mio amico, ha passato pazientemente in rassegna tutte le foto profilo dei sui contatti per scovarmi. E infine c’è riuscito.

Non so bene perché io abbia meritato una tale dedizione, ma mi ha ricordato l’ovvietà del “Chi vuole davvero trovarti, fa di tutto”. TUTTO.

Quindi, come potevo ancora incaponirmi col maschio sapiens che possedeva pure il mio numero di telefono, ma che non utilizzava? Non potevo proprio!

Le isole, effettivamente, sanno bastare a se stesse. Perciò si scelgono la compagnia.

Mentre scrivevo la bozza di questo articolo il mio telefono ha scelto dal lettore “Someone like you” come l’anno scorso, quando l’avevo cantata con due amiche ed era stato decisamente più divertente.

Stavolta, me l’ero cavata anche da sola, ma loro mi erano mancate.

Dormendo con un donnone ungherese che parlava solo francese e che aveva fatto della nudità il suo pigiama. Sicché quando di notte rientravo o mi giravo, mi ritrovavo in faccia il suo nobile deretano desnudo.  Che culo! (appunto)

Ma me la sono cavata, me la cavo sempre.

Ora sto cercando di imparare a cavarmela non più da sola, non bastando a me stessa.

Disabituandomi alle aspettative negative, ai paletti, al salvifico egoriferitismo nel quale ci rifugiamo.

Magari imparo davvero.

Quel che ho appreso è che non c’è bisogno di spiegarsi, non serve presentarsi. La volontà è un motore ben più potente della paura e più efficace, più immediato, con meno sforzi.

C’è speranza Signori.

C’è sempre speranza.

Dietro le maschere, dietro i pagliacci, i pregiudizi, la paura, dietro i “sentito dire”, dietro i difetti o i gusti differenti, c’è ancora chi intravede qualcosa in noi che valga la pena di scoprire.

Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma accade.

Certe isole vanno scoperte. Il mondo che conosciamo sarebbe diverso se qualcuno non avesse avuto l’ardire e il coraggio di oltrepassare i confini della Terra conosciuta, per vedere cosa celassero.

Ci vuole coraggio per interagire, capire, sopportare, supportare, giustificarsi, aiutarsi, amarsi, conoscersi.

Ma ne vale la pena.

Perché, sapete, le isole hanno creato piattaforme per far atterrare gli aerei; levigato la costa per far attraccare le navi; smussato la spiaggia per accogliere i bagnanti. Messo in funzione il faro per farsi trovare. Abbassato le mura di protezione che le cingono per la piena interezza per far entrare qualcuno. Installato un telefono per farsi rintracciare.

Quindi, volendo, le isole sono raggiungibili: con il telefono, con la barca, con l’aereo, perfino a nuoto. Volendo.

VOLENDO.

 

 “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, la Terra ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”.

John Donne

 

Ai miei compagni di questo viaggio,

alle picchiate a cinquanta metri,

le canzoni cantate, le tante risate e i balletti.

Grazie 😉

 

 

NdBB: Stavolta, non solo non ho portato con me nemmeno un paio di scarpe col tacco (neanche uno per compagnia!!) ma sono stata anche scalza per una settimana intera. Le cose cambiano, le persone pure.

 

 

“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste…”

“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.

“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

“Che cosa vuol dire <addomesticare>?”

[…]

“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”

“Creare dei legami?”

“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.

[…]

E quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.

“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

“È vero”, disse la volpe.

“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.

“È certo”, disse la volpe.

“Ma allora che ci guadagni?”

“Ci guadagno”, disse la volpe.

[…]

“Addio”, disse.

“Addio”, disse la volpe.

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”

“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.

Il Piccolo Principe

Antoine de Saint-Exupéry

 

Se volete scoprire le meraviglie del Mar Rosso, vi consiglio http://cassiopeiasafari.com/

DILLO CON UN ADESIVO! (MA ANCHE NO…)

Io sono una che adora le emoticon, lo ammetto. Su Whatsapp faccio addirittura dei rebus sfruttando le icone e sono pure parecchio brava e creativa.

Però…

Però.

Ormai ci siamo talmente abituati a loro, da esserci scordati delle parole. Quelle vere, quelle che leggi e rileggi, quelle che ti ricordi, quelle alle quali ripensi. Ora, al massimo, puoi dire: «Mi ha mandato un cuore grande che batte!» Che poesia e soprattutto che culo! Tu magari hai scritto un poema e la risposta è:

Taaanto caaarino, taaanto dolce, ma poi?

Anche il Messenger di Facebook è il non plus ultra degli adesivi, li installi, li togli, ce se sono per tuuutti i gusti.

Io ve lo dico, ma ogni volta che rispondete con un pupazzo, ormoni femminili si suicidano.

Io sono una donna e sono pure parecchio paranoica, ma tendenzialmente non credo di essere molto diversa dal resto del mondo, perciò quando uno/a mi risponde con uno smiley, un pupazzo o col semplice pollice – messo addirittura di default dal signor Facebook per facilitare la liquidazione di una risposta e imparanoiarci ulteriormente – la scena che vivo è più o meno questa:

-Ha risposto con un adesivo:

  1. Non sa che rispondere, ma risponde per cortesia e allora mette una faccina;
  2. Non gli va, ma vedi sopra;
  3. Non gliene frega niente di quello che ho detto, ma vedi sopra;
  4. Chi cazzo sei?
  5. Che cazzo vuoi?
  6. Tutte le precedenti;
  7. La conversazione finisce qui.

Ecco, l’ultima ipotesi è quella che prevale. Se uno/a non si prende neanche il disturbo di scrivere tre parole, capisco che non è interessato/a alla conversazione e quindi la stoppo.

Ok, capita che uno legga di corsa, mentre guida, mentre il telefono è scarico e trovi nei pupazzetti un modo veloce per rispondere, ma generalmente si rimanda una risposta più corposa ad un secondo momento:

«Scusa ho risposto al volo, ma…»

SE CI SI TIENE.

Se ciò non accade, dall’altra parte si recepisce che la risposta era esattamente quel cazzo di pupazzo e che la conversazione doveva, effettivamente, finire lì. Incassare e accettare.

Ma, ricordatevi che ogni volta che inviate come risposta un adesivo, sappiate che – da qualche parte – centinaia di estrogeni vomitano dolore, e che il pollicione fa salire l’stinto omicida.

Fidatevi, in certi casi è meglio un chiaro “Vaffanculo”.

Almeno è scritto da voi…

E questo accade quando siamo noi a subire il “Trattamento faccine”. Lo odiamo, lo schifiamo, lo malediciamo.

Ora, però, dovremmo ammettere che lo usiamo anche noi. Dite di no?

Ok, comincio io.

Molto spesso, trovo negli adesivi una degna “salvata”:

  1. Quando voglio chiudere una conversazione noiosa e sterile, senza essere scortese;
  2. Quando non so davvero cosa stracacchio rispondere;
  3. Per sviare un discorso spinoso;
  4. Quando sono indaffarata, ma dall’altra parte si insiste nell’inviare messaggi;
  5. Tutte le precedenti.

Ringrazierò per tutta la vita il Signor WhatsApp, per aver inserito – tra le tante – l’omino che alza gli occhi al cielo,

del quale abuso con gran soddisfazione, e – soprattutto –  il dito medio. Che mando nero, con l’illusione che appaia più cazzuto, quindi più efficace.

Sono anch’io una pessima persona,

Lo ammetto, ma non ditelo in giro, che poi qualcuno ci rimane male.

Esattamente come me.

Ma, forse, rispondere con un adesivo è meglio che non rispondere affatto…

Però, se uno non vi risponde più, significa che non ha davvero più nulla da dirvi e il motivo dovreste conoscerlo.

PS: Ok qui lo dico e qui lo nego: certe volte, certe volte… un cuore dice più di molte parole che, spesso, non riusciamo proprio ad esternare… Certe volte. Per il resto, avete rotto le palle con ‘sti adesivi, grazie! 😉

PRENDI UN UOMO, TRATTALO MALE!

In questi giorni (per non dire anni…) sto assistendo – da spettatrice, ovviamente – alla verifica empirica della sempiterna teoria del “Trattali Male”: gli uomini? Bisogna trattarli male, bisogna farli soffrire! Ci hanno scritto su pure svariati libri.Barbie Bastarda (6)

Allora…

C’è questa fanciulla che si sta divertendo a massacrare un uomo di mia conoscenza. Le scene pietose che devo vedere, concernono lei che gli dà GRATUITAMENTE delle risposte sgarbate, ma così sgarbate che io, al confronto, sono uno zuccherino e le accompagna con atteggiamenti da checca isterica con mestruo, davvero insopportabili. Giuro fa venire voglia a me di reagire. Invece lui, niente. È sempre lì pronto a scodinzolare come un cagnolino.

Dato che non è proprio la prima volta che vedo tali melodrammi, dato il proliferare e la diffusione della gattamortaggine & affini che risultano sempre vincenti, tutto questo mi fa scaturire una serie di considerazioni che voglio esternarvi, partendo dal caso in esame:

  • Lui è masochista. Ok, allora caso chiuso. Se sono felici così, buon per loro!
  • Lui la vuole avere ad ogni costo (non Lei, altro…). Mi ricordo un vecchio sketch del comico Migone – del quale, purtroppo, non trovo più traccia – in cui rappresentava un uomo infoiato alla prese con le prime uscite con una nuova ragazza. Con la manina protesa in avanti mimando la questua e ripetendo «Dammela, dammela, dammela», sottostava a tutte le richieste della nuova fiamma, con la speranza che assecondandola in tutto – finalmente – lei gliela desse. E come asserisce pure il buon G. G. Giacobbe, a un uomo arrapato si può chiedere di tutto. Ecco. Forse lui è in fase ormone “Attizzamento On”, la femminuccia in questione è perfettamente conscia di questa massima e sfrutta il momento. Alcune donne lo scordano, altre ne sono sempre consapevoli e, con la promessa di darla, riescono a far fare ai maschietti qualsiasi cosa. Ma non è mica detto che poi la diano, anzi… Comunque anche questa teoria presuppone che gli uomini siano dei totali coglioni in balìa del testosterone che è un po’ il pensiero comune, ma molti non accettano tale definizione. In questo caso specifico, però, i fatti confermano senza dubbio il postulato.
  • Lui è un buono. Non è detto che gli uomini siano tutti stronzi, alcuni sono davvero di buon cuore, anche se ci tengono a non farlo sapere in giro. Ma questo spiegherebbe l’incessante abbozzare di lui. Sopporta. Magari non vuole litigare. C’è una cosa che molti non sanno a proposito dei buoni: a un certo punto si rompono il cazzo. Eh sì, ma sul serio. Un fanculo di un buono è per sempre. Perché, avendo tollerato fino allo stremo, se chiude lo fa senza rimpianti. Quindi c’è da aspettarsi che, prima o poi, anche il lui in questione si rompa. Questo è il finale che auspico e quel giorno io sarò lì, a godermi la scena.
  • Lui se l’è meritato. Questo, onestamente, non lo so. In genere un uomo che si comporta male, sparisce come un lampo, quindi tenderei ad escluderlo. In più se incassasse per espiare la sua colpa, visti gli insulti reiterati, e che le avrà fatto per meritarsi tutto questo?? Mangiato il canarino?? Mah, mi sembra strano, ma magari mi sbaglio…
  • Ora veniamo a te, donna acida. Forse sei molto furba e, come sopra, approfitti della mancanza di lucidità maschile data dal fomento ormonale. Forse non gliela darai mai per paura che lui dopo scopra che, oltre quella, non hai null’altro da offrire. Forse neanche una massiccia dose di Vitamina C ti farebbe addolcire. Non lo so, non so davvero quale sia il tuo problema, ma pare che – ahimè – funzioni…

 

Per aggravare ulteriormente il quadro generale, devo aggiungere che, nove volte su dieci, la iena scassamembri è decisamente poco attraente (e sono gentile…) e qui la questione si fa ancora più complessa.

Barbie Bastarda (1)A  tal uopo, mi sovvengono le parole di uno dei miei mentori preferiti, il quale asseriva che: “Le brutte hanno l’acidità preventiva”. Che vuol dire? «Se ci sono una ragazza bella e una brutta e tu ti avvicini loro per approcciare, la brutta sarà sempre quella più sgarbata, perché prevenuta. Penserà che tanto non sei interessato a lei, ma alla bella, e sarà preventivamente acida…»

Quindi se gli uomini amano farsi trattare male, la torturatrice sarà per forza brutta!

Ma allora è vero che gli uomini preferiscono le stronze??

Se tutto questo fosse vero – come sembra – sarebbe finalmente palese il perché, allora, con gli uomini io non abbia mai capito nulla! Mai stata una rompipalle.

Mi ferisce molto quando qualcuno mi dice: «Tu odi gli uomini…» in realtà non è per niente così, anzi!

Uno dei miei motti è “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” e siccome detesto chi rompe, sono la prima a non farlo.

Vuoi uscire da solo? Esci, così esco pure io. Non vuoi che ti stia addosso? Va benissimo, pure io odio i cerotti. Coltivi i tuoi interessi? Perfetto, io ho i miei… e così via.

Ho sbagliato tutto.

Vedo la vita di coppia un’oasi di pace nella quale rifugiarsi a dispetto del mondo infame, un nido d’Amore tranquillo e libero, un punto di incontro di due anime che si scelgono in armonia.

Invece no, gli uomini si aspettano che tu rompa le palle costantemente, perché, se non lo fai, forse pensano che tu non sia abbastanza interessata. Ho sbagliato tutto.

Se non sei cronicamente incazzata, forse credono che ci sia qualcosa che non vada in te.

Ho sbagliato tutto.

Non solo gli uomini credono nell’equazione “più urla, più ci tiene”, ma sono portati a pensare che visto che sono accomodante, sia concesso farmi/dirmi tutto. Pensiero sbagliato.

Avete presente quel che ho detto più sopra a proposito del VAFFA dei buoni tolleranti? Ecco. Precisamente quello.

Ho sempre pensato che un legame dovesse essere sereno, felice, senza stress. Ho sbagliato tutto.

E, visto che questo finora non è stato apprezzato, ho deciso che cambierà tutto.

Quindi sappiate che, al prossimo che mi capita, propinerò tutte le rotture di maroni che ho sempre lesinato.

Ho fatto una piccola lista come promemoria – tanto per cominciare – ma accetto suggerimenti da stronze patentate per migliorarla e arrivare, finalmente, ad una completa mortificazione del maschio alfa.

 

  • Non uscirai con nessuno all’infuori di me;
  • In qualsiasi posto tu debba andare, io ti seguirò;
  • Se mentirai, saranno guai;
  • Se rimani a casa, mi devi mandare la posizione gps in modo che abbia la certezza che non stai mentendo;
  • Scordati calcetto, palestra, squash e lo stadio. Non li vedrai mai più!
  • Su Facebook dobbiamo assolutamente creare un profilo in comune che gestirò solo IO!
  • Per strada, sguardo fisso a terra e guai a guardare un’altra!
  • A parte tua madre, tua sorella ed eventuali figlie, non ti è concesso frequentare alcun esponente del sesso femminile. No, neanche le parenti. Le cugine sono le più pericolose…
  • Io, invece, posso uscire con chi voglio. Se non lo accetti vuol dire che non ti fidi di me e non mi ami abbastanza.
  • Preparati a ricevere sistematicamente rispostacce, perché – in qualche modo – te le meriti;
  • Non mi puoi mai lasciare da sola perché non sono in grado di affrontare il mondo, quindi preparati a tour di Ikea, H&M e Kiko. Non ti dovrai MAI lamentare;
  • Se sono stanca, non usciamo. Se tu sei stanco, usciamo perché io lo voglio!
  • I tuoi amici sono degli idioti, è bene non frequentarli;
  • Se ami me, devi amare e frequentare anche le mie amiche;
  • Scordati dei tuoi, ma ogni sera saremo a cena dai miei;
  • Ah, lo so che sei abituato a vedermi sempre curata, truccata, in perenne tacco dodici, ma ormai ti ho accalappiato, quindi, benvenute felpone antistupro in pile! E non voglio sentire lamentele, perché sennò vuol dire che guardi solo il mio aspetto fisico!!Barbie Bastarda (11)

Aaahhh! – Sospiro commosso – Quanto saremo felici io e te insieme!!

Porello, già mi fa pena… Ma sicuramente a lui piacerà!

 

PS: Gli elementi della lista sono drammaticamente REALI, ovvero ripresi da scene quotidiane che vedo in giro. Solo per il fatto di non essere così, penso che mi sarei dovuta meritare svariate candidature a diventare il Signor BB. Ma ormai è troppo tardi, avete perso il treno, da oggi sarò ancora più Bastarda. Amen.

NON E’ MAI UN SEMPLICE: “CIAO!”

Quando devo insultare me stessa, mi stupisco della quantità di aggettivi negativi che conosco.

In questo preciso momento mi sto etichettando come: idiota, stupida, patetica, pazza, squilibrata, vigliacca, paranoica… Prendo fiato e ricomincio in ordine alfabetico: antipatica, brutta, cretina, deficiente, ebete, fifona…

Non potrei giudicarmi diversamente. Sono ipnotizzata da più di due ore fissando lo schermo del telefono, incapace di inviare un semplice sms.messaggi-sms_c

Semplice?? Manco per niente…

Il nome del destinatario poi, mi apre scenari apocalittici, però accompagnati da una musica dolce e romantica. Il mio cuoricino rattoppato accelera. Bum! Bum! Sì, il problema è proprio quello.

Oddio ho i crampi allo stomaco. Devo vomitare…

«Ce la puoi fare! Ce la puoi fare! Ce la puoi fare!». Ok, niente panico.

«Ma che fai?? Lascia proprio perdere!! » Ecco, perfetto, ora si mettono a litigare anche le Voci nella mia testa!

Zitte, per favore, sono già abbastanza nel pallone!!

È un messaggio, una cosa carina…

«Ciao!» Sì, ok. Si inizia sempre con un “Ciao”, ma poi? Come finisce?

È un messaggio, una cosa carina, un saluto, un pensiero. Quanti ne inviano al giorno nel mondo? Miliardi! E io non sono in grado di farlo?? No, penso di no… È un messaggio, un semplice messaggio, che gli scrivo? (…e poi come finisce?) Stai calma, stai calma, stai calma…

Mi accendo un’altra sigaretta.

«Ciao, come stai?» Eccooo… Bravaaa… La banalità fatta donna!! Ma che gran bel testo!! Che profondità! E ti ci sono volute addirittura due ore per partorirlo?? Complimentiiiiiii!!!

Caspita, è vero. È il messaggio più triste nella storia dei messaggi!!

Cosa scrivo allora? Una battuta magari, ma mica faccio il clown di professione, cavolo! Sono una personcina seria! Ecco, lui pensa che sono una seriosa barbosa. Sì, lo sapevo. Ok che scrivo?

Uffa che palle! Ma chi me lo fa fare? No, non gli scrivo, che poi magari neanche mi risponde. Se gli scrivo e non mi risponde, potrei morire, allora perché dovrei torturarmi??

Meglio lasciar perdere…

«Disse la vigliacca…» Senti Vocina, per favore, lasciami in pace pure tu. Non ce la posso proprio fare. Già è difficile mandare un messaggio, poi ora mi sono venuti pure in mente almeno un miliardo di “E se?”. E se mi ignora? E se mi risponde male? E se magari gli rompo le scatole? E se non gli fa piacere che gli scrivo? Perché sennò mi avrebbe scritto lui, no?? E se, e se, e se… “E se” altro che ipotesi, queste sono certezze! Di catastrofi!! E se si imparanoia pure lui per scrivermi? No! Ti pare? Impossibile…

Mi accendo un’altra sigaretta.

Ecco, la canzone che ha scelto il lettore non mi piace, questo sarà un segno che mi dice di non mandarlo. Ecco, lo sapevo. Non lo devo fare!!

Ok, scritto così è perfetto. No, aspetta. Lì ci va la virgola. No, forse no. Qua tolgo i puntini e metto un bel punto esclamativo, sì! Qua cambio le parole che non mi piacciono proprio…

Mica è un concorso di stato! È un sms!! Non prendo i voti sulla grammatica! Cavolo!!

Oddio quanto sono complicata. Va be’, almeno prendo tempo. (Si inizia sempre con un “Ciao” … ma poi come finisce?)

Mi accendo un’altra sigaretta.

Allora: se non lo mando, non cambia nulla. Se lo mando e non mi risponde, non cambia nulla comunque. Se invece lo mando, mi risponde e… Be’ cambierebbe tutto!! Però siamo a un terzo delle probabilità, contro due terzi. Cavolo, pure la statistica parte sfavorevole. Niente, è un segno, non lo devo mandare!!

Ecco, questa canzone mi piace. Forse se glielo mando mentre la ascolto, ci riesco. Forse…

Oddiooooooo… Ho lisciato il tasto di invio!!! Fiùùùùùùù… Che paura!! Dannato touchscreen del cavolo!! Non è proprio fatto per me, siamo incompatibili!! Ci mancava poco e lo inviava così! Senza che fossi pronta! No, devo riprendere fiato, non ce la faccio.

Mi accendo un’altra sigaretta.

Inviare-SMS-durante-il-sonno edOk che ora è? Non è troppo tardi, perché i messaggi a tarda notte non si mandano mai, è la regola base. Non si scrive di notte, perché sennò si capisce che quella persona la pensi di notte e non sta bene. Poi può pensare pure che sono ubriaca e che, quindi, il messaggio sia stato dettato da una disinibizione alcolica.

No, no, sono sobria e l’orario è perfetto.

Però forse è meglio scrivergli domattina. Ma non troppo presto, perché sennò poi sembra che mi sono svegliata pensando a lui. Come se non fosse vero… Va be’ lui non deve saperlo, però. No, non ce la posso fare!!

Stai calma, stai calma, stai calma…

Mi accendo un’altra sigaretta.

È che mi piace, capito? «Daaaiii non si era capito!!» Le Voci nella testa, ora finalmente d’accordo e in stereofonia. Sì, mi piace. E quindi sono terrorizzata.

«Ciao!» …ma poi come finisce? Non è mai un semplice «Ciao!». Perché mette in moto qualcosa. Ecco, è questo quello che temo. Bum! L’ho ammesso. L’incognita. Già non riesco a mandarlo e poi che succederà?? Come finisce? Ho paura. No, no, ho paura. Tanto le cose vanno sempre male… Come quando mi ha scritto… e io ho scritto a… che poi dopo… No, non ci devo pensare!!

Non gli scrivo. Perché «Io vorrei scriverti, ma ho paura» rientra nelle “Cose che non si possono dire”.

Questa è la triste verità. E per tutto ciò devo ringraziare dei nomi e dei cognomi. Questo è quello che mi fa incazzare di più. Per colpa di persone distanti anni luce, non sono più in grado di inviare un sms, perché ho paura delle conseguenze.

Bum! L’ho ammesso di nuovo. Loro si stanno ponendo problemi? Non credo proprio. Uno starà giurando amore eterno a qualsiasi gonna gli passi sotto il naso, un altro starà riversando l’astio nei confronti dell’ex su qualche altra incolpevole, un altro… Ma che mi frega di loro! Perché ci penso?? Non ci devo pensare. Ma non riesco a non farlo… Non è mai un semplice «Ciao!» perché pensiamo sempre a come finisce. E dietro c’è un pregresso che rovina con prepotenza un futuro che ignoriamo. È curioso, ma, quasi sempre, a parità di probabilità tendiamo a ipotizzare gli scenari più tragici.

Perché se io penso a lui, a parte che sorrido subito, ma poi parte una musichina dolce e immagino lui ed io che… Niente! Sono pazza! A ‘sto punto partono sempre le paranoie e buttano giù noi, la casa, i cinque figli, il cane… Ah non lo avevo detto questo? Va be’, ormai l’ho detto…

Di nuovo i crampi. Devo vomitare.

Non è mai un semplice «Ciao!».

Ogni volta che aspettate un sms che non arriva mai, pensate che il mittente non ha voluto inviarlo. Al mittente non gliene frega niente. Il mittente è uno stronzo. Chiaro, no? Ormai siamo abituati a fare due più due con tutto, perfino con l’inestricabile labirinto della grandiosa mente umana. Pensate questo e archiviate il problema.

Oppure… Pensate che qualcuno, da qualche parte, in questo stupendo mondo, è fermo come un ebete con un telefono in mano, a fissare un display di uno smartphone, che fa tutto fuorché parlare, in attesa di non si sa bene cosa.

Magari non è così, ma giurereste che non vi sia mai capitato?

shakesms

Ora scusatemi, mentre nel mondo qualcuno pensa che io sia un’insensibile e indifferente menefreghista, torno a fissare il mio telefono. Magari, prima o poi, inizia a parlare e mi suggerisce cosa fare…

«Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori… »

Italo Calvino

Dedicato sempre a chi mi ha detto della paura…

Tifo per te!! Ci serve un” Lieto Fine”… 😉

 Prima pubblicazione: 08.01.2015

RUBRICA FUNZIONALE

13 - cellulare EDOrganizzare la rubrica del proprio cellulare in maniera funzionale e intuitiva è assolutamente vitale!

Non ho l’abitudine di memorizzare le persone con nome e cognome. Se lo faccio, sono tutti contatti di lavoro e quindi già questo me li fa visivamente distinguere e individuare.

Ho un metodo tutto mio per salvare i contatti…

In genere aggiungo dei dettagli accanto al nome per ricordarmi dove ho conosciuto o frequento gli utenti in questione. Ho smesso di socializzare in piscina perché non era molto elegante per la mia rubrica contenere tanti Gino/Tizio/Caio/PISC.

Invece i vari Gino/Tizio/Caio/PAL mi fanno sempre sorridere quando li scorro…

Comunque la distinzione base è Maiuscolo/Minuscolo: nomi salvati in maniera consona, ovvero Gino, Gina, Tizio, Tizia, sono, appunto, contatti “consoni”: amici, familiari, colleghi.

Se inserisco un nome tutto in maiuscolo, sicuramente non è un semplice amico: GINO. Booom! Tutto sparato, urlato, GINO mi piace.

Se uno mi piace ma mi spaventa, o non l’ho ancora ben inquadrato, lo memorizzo in maiuscolo e con i tre puntini di sospensione finali: GINO…

Una volta un tipo davvero carino lo memorizzai d’istinto con un GINO… Maiuscolo e tre puntini. Ero fregata: mi avrebbe sicuramente spezzato il cuore.

Perché, statisticamente parlando, ogni volta che ho memorizzato qualcuno coi tre puntini, poi si è rivelato essere un vero STR*** tutto maiuscolo. Non lo so, forse anche i cellulari hanno una loro capacità di discernimento sulle persone. (O io ho un istinto memorizzatore davvero lungimirante…)

Raramente metto i puntini all’inizio: …GINO. Se lo faccio è per rendere “l’annunciazione del nome” con un po’ di suspense e, sì, se lo faccio mi piace ma non voglio urlarlo al mondo.

Se uno mi piace abbastanza, lo salvo con la tripla vocale finale: GINOOO. Come se il mio telefono urlasse il suo nome quando mi chiama: «Guarda che è GINOOO rispondi!!!»

Se uno mi piace proprio tanto, lo registro con tripla vocale finale e punti esclamativi: GINOOO!!!

I punti esclamativi servono ad incrementare la gioia nel vedere che mi sta chiamando uno che mi piace. Già solo per il fatto che mi chiami mi rende felice, ma aggiungere !!! esalta decisamente il momento di tripudio.

Se taglio i ponti con qualcuno, cancello anche il suo numero di telefono: non ti voglio più nella mia vita, e non voglio più il tuo cavolo di numero nel mio telefonino.

Qualcuno però lo lascio, perché se mai dovesse chiamarmi, devo essere preparata prima di rispondere ( se mai rispondessi…) Quello che mi diverte parecchio è modificarne i nomi…

Ho un “TDC”: Acronimo di Testa Di C…. Ho diversi “Fenomeno” con accanto un particolare per distinguerli (FenomenoPISC, FenomenoLAV, ecc…)

E, ultimamente, mi sto sbizzarrendo con i “NON RISPONDERE”.

Squilla il telefono, leggo “NON RISPONDERE”, ok non rispondo (poi penserò a chi è…)

Ho anche un “TI RICHIAMO IO” al quale rispondo SEMPRE, solo per dirgli che sono impegnata e che, appunto lo richiamerò io (col ca’…) Non sono cattiva, si chiama karma: tu hai fatto a me, io ora faccio a te. (e Zumpappero aggiungereri…)

Alle chiamate di ODDIOMIO ho risposto una sola volta, la prima. Dopo avermi detto che aveva rubato il mio numero dalla rubrica di un amico comune (visto che io mi ero rifiutata di darglielo…) non ottiene mai risposta

Da qui impariamo due regole auree:

La Prima: se non ti do il numero vuol dire che forse non ho molto piacere a sentirti… Se rubi il mio numero e mi chiami comunque, non ho molto piacere a sentirti lo stesso, ma in più mi vai istantaneamente sulle scatole. (Viceversa: se ti do il numero mi fa mooolto piacere sentirti, quindi chiamami!!!)

La Seconda: se qualcuno ti piace taaantooo è meglio memorizzarlo in un modo in cui solo tu capisci chi è… Non si sa mai qualcuno lo rubasse…. Il numero… (e poi magari altro…) (vista la “Fame nel Mondo”!!)

Quando ricevo telefonate mute, sì proprio quelle fastidiosissime in cui tu dici «Pronto?» per dieci minuti e dall’altra parte si sente solo respirare, e lo stalker di turno ha la bella pensata di chiamarmi non con l’anonimo, ma con un numero visibile, salvo subito il molestatore con un CHI SEI? Data e Ora. Non crederete alle volte il cui i vari CHI SEI sono ricomparsi… (e soprattutto alle volte in cui sono stati sgamati…)

Ah, sempre grazie ai soggettoni di cui sopra, ho adottato una tariffa con autoricarica. Se mi sento particolarmente simpatica, dopo i sette/otto «Pronto?» accendo la radio allo stalker e lo lascio ad ascoltare la musica. Ebbene sì, ci restano per svariati minuti. Loro magari ci godono, spendono, ma io mi ricarico.  Perchè sono una bastarda??? Oh mica gliel’ho chiesto io di importunarmi!

Nonostante ciò, arriva sempre il momento in cui, scorrendo la rubrica, mi soffermo sul qualche nome, lo scruto, inizio a pensare e poi concludo con un: «Ma questo/a? Ma chi ca’ è?!»

E TU… La prossima volta che malauguratamente ti capita di sbirciare il mio cellulare, anziché dirmi:  «Non mi merito neanche di essere memorizzato col nome di battesimo??» dovresti invece apprezzare e considerare che mi piaci davvero parecchio, visto che ti ho salvato come:

…AAA!!!

 Prima pubblicazione: 30.05.2013